il manifesto 7.6.16
Un orizzonte di visionaria felicità
Intervista con la filosofa della «Scuola di Budapest», in Italia come ospite al festival Biblico di Vicenza
«Le
distopie sono avvertimenti. Ci mostrano le alternative alla
disillusione e alla catastrofe. Oggi bisogna coltivare il giardino in
cui viviamo: lo diceva già Voltaire nel ’Candido’»
Ilya e Emilia Kabakov, «Fallen Angel»
intervista di Ernesto Milanesi
A
ottantasette anni, Ágnes Heller incarna sempre la vitalità della
filosofia ben oltre l’etichetta di «allieva di Lukács». È stata una
delle protagoniste al Festival Biblico di Vicenza del dialogo con
Riccardo Mazzeo, ispirato dal saggio a quattro mani Il vento e il
vortice. Utopie, distopie, storia e limiti dell’immaginazione (Erickson
pagine 152 euro 14,50). «È un libro nato a Pordenonelegge nel settembre
2015 dopo il confronto con Riccardo Mazzeo sul tema ’bellezza e utopia’.
Allora mi stavo occupando di filosofia medioevale e rinascimentale. Ma
scattò l’interrogativo: ’Perché oggi non ci sono più utopie?’. Così sono
giunta alla conclusione che questa assenza potrebbe perfino
trasformarsi in un vantaggio…» spiega, mentre sorseggia felice un
espresso e conta di concludere il suo soggiorno italiano con la visita
alla Biennale di architettura.
Sopravvissuta alla Shoah, espulsa
nel 1959 dall’Università di Budapest, emigra con il marito Ferenc Fehér
in Australia nel 1977. Dopo aver insegnato sociologia a Melbourne,
approderà a New York sulla prestigiosa cattedra di Hannah Arendt.
Da
tempo è tornata a vivere nella capitale ungherese, anche nel ruolo di
spina nel fianco del premier ultranazionalista Viktor Orban. E di nuovo,
nell’ultimo libro, Ágnes Heller insiste nell’illuminare speranze e
paure alla luce di uno sguardo filosofico mai disattento nei confronti
delle trame visionarie quanto dell’attualità.
«Dal mio punto di
vista, occorre distinguere due forme di utopia – spiega la filosofa -.
Quella del desiderio, cioè un mondo in cui tutti i bisogni sono
soddisfatti: non si deve lavorare, niente Stato né leggi o guerre. È
come l’età dell’oro che è alle nostre spalle, come per la Grecia antica.
O come nella Bibbia (Genesi, 2) con Adamo e Eva nel Giardino dell’Eden,
che hanno tutto a disposizione senza dover lavorare e non sono
minacciati dal dolore e dalla morte. Marx immagina lo stesso tipo di
utopia, solo che diventa quella del futuro dell’umanità: niente mercato,
Stato, leggi, istituzioni, matrimonio, eccetera; tutti i bisogni
soddisfatti nella società dell’abbondanza. Ma come già evidenziava Freud
in Disagio della civiltà, utopia senza cultura e con una libertà
totalmente negativa».
Agnes Heller
E l’altra forma di utopia qual sarebbe?
L’utopia
filosofica. In buona sostanza, non ci permettono la soddisfazione dei
nostri desideri, però da qualche parte e in qualche modo possiamo
immaginare la società giusta. Comincia Platone con la sua Repubblica
ideale, perché i filosofi sono in grado di trasformare l’idea in realtà e
quindi anche di creare lo Stato perfetto.
Nel 1516 Thomas More
scrive Utopia nell’età delle grandi scoperte: è l’isola esattamente
opposta all’Inghilterra; ma è anche, di fatto, uno Stato totalitario.
Con Charles Fourier si approda all’utopia socialista del falansterio.
Costruita «scientificamente», perché nel XIX secolo si aveva fede nella
scienza capace di risolvere ogni problema. Di qui l’idea che sarebbe
stato sufficiente mettere gli individui insieme per ottenere lo stato
d’armonia e la felicità di tutti. Dopo il 1789 la narrazione è ispirata,
invece, dall’idea di progresso universale. Dallo stato primitivo si
tende verso quello civilizzato. Progresso all’orizzonte dell’umanità per
evoluzione, grazie alla rivoluzione o attraverso riforme progressive.
Il «secolo delle ideologie» tuttavia non produce felicità, ma guerre mondiali. Né realizza sogni: se mai, disillude…
Si
giunge così all’idea della fine dell’utopia. Nel XX secolo collassa il
concetto di progresso: dopo Auschwitz e i gulag come si può ancora
parlare di società che tende naturalmente al meglio, al futuro luminoso,
alla progressiva felicità? È il primo momento di critica culturale che
apre alla prospettiva della distopia. Si sviluppa il concetto di
decadenza, che Oswald Spengler sintetizza nel Tramonto dell’Occidente.
Ma con l’incubo della guerra nucleare anche la scienza non è più
l’angelo della redenzione: le bombe atomiche sono l’emblema della
dannazione.
Si imbocca così l’immaginazione critica, la «contro-narrazione», il pensiero non più edificante?
Le
distopie sono gli scenari dell’autodistruzione per la nostra ecosfera,
che da almeno vent’anni sono previsti nella letteratura scientifica.
Altri vettori di distopie sono le opere di letteratura fiction che già
Jonathan Swift aveva offerto con le sue satire. Penso in particolare al
Mondo nuovo di Aldous Huxley, a 1984 di George Orwell e a La strada di
Cormac McCarthy. Senza dimenticare i numerosi film con le medesime
caratteristiche.
E cosa hanno in comune?
Le distopie sono
avvertimenti. Ci mostrano le alternative alla disillusione, alla
disperazione, alla catastrofe. Un po’ come i profeti biblici che, nella
società dominata dal peccato, indicano all’umanità che soltanto con la
correzione dei suoi comportamenti, può evitare un’esistenza dannata.
Oggi sappiamo che l’uso delle armi nucleari equivale alla fine del
mondo. O che abbiamo una scelta fra essere soggiogati da un leader
totalitario e difendere le libertà.
Dunque, in questo vortice, esiste qualcosa che si possa fare?
Coltivare
il «giardino» in cui viviamo. Con responsabilità, attenzione e cura.
Era il suggerimento di Voltaire, nel Candido. Del resto, questo è il
mondo dove siamo nati e moriremo. Ognuno deve mantenerlo e insieme
renderlo un po’ migliore. Non è una prospettiva brutta: senz’altro
migliore rispetto alla disillusione che nasce dalle utopie mancate.
Tornando ai temi dell’ultimo saggio, dove si annida la contraddizione fondamentale dell’individuo nella società?
Occorre
ritornare alla Costituzione della Rivoluzione francese che sancisce i
droits de l’homme e du citoyen come se i diritti umani e quelli di
cittadinanza fossero equivalenti e perfino sinonimi. Non è certo così,
soprattutto dal punto di vista etico nell’Europa moderna. Ci viene,
infatti, chiesto di essere brave persone e buoni cittadini. Due sfere
differenti: la moralità individuale e il rispetto delle leggi. Eppure,
sono anche pilastri che si sorreggono a vicenda nel nostro mondo. La
cooperazione tra valori privati e virtù pubbliche è oggi più necessaria
che mai se vogliamo evitare che il futuro assomigli agli incubi della
distopia.
E la crisi che attanaglia l’Europa, è risolvibile?
Va
sempre ricordato che, al contrario del mondo anglosassone, in Europa la
democrazia non è certo una tradizione. Anzi, per Grecia, Spagna,
Portogallo e per la stessa Italia vale solo negli ultimi decenni. E
nella storia dei Paesi dell’Est la democrazia è ancora più recente.
Piuttosto, bisogna prestare attenzione al bonapartismo sempre presente
in Europa: lo inaugura Napoleone e arriva ben oltre Mussolini. L’uomo
forte, che tutto risolve, perché finisce con l’incarnare la verità, lo
Stato, la società. Il «condottiero» che non si fa scrupoli e ricorre al
populismo, anche se rappresenta interessi oligarchici.
A volte mi
vien da pensare che il Vecchio Continente sia stato ri-paganizzato: la
nazione come autorità suprema e il nazionalismo come religione. Eppure,
l’Unione Europea è nata, al contrario, come «universalistica»
all’insegna della solidarietà fra gli stati membri.
Purtroppo, la
costruzione dell’Ue non è stata accompagnata dall’emergere di una
coscienza europea comune. Così l’Europa rischia di restare un progetto
burocratico senz’anima. Paradossalmente, l’opportunità di cambiamento e
di apertura ci arriva dall’emergenza dei rifugiati e dalla minaccia
terroristica.