sabato 4 giugno 2016

il manifesto 4.6.16
La vita non si addice ai bambini
di Sarantis Thanopulos

Centinaia di bambini sono annegati recentemente nei nostri mari. La notizia lascia il tempo che trova, nessuno ci fa caso. L’assuefazione, ormai conclamata, alla loro morte, non misura un’indifferenza generica, ma la nostra dissociazione dal loro destino, perfino l’auspicio inconscio che muoiano. D’altra parte che ci fanno le schiere di bambini in giro per il mondo, se non a testimoniare la nostra ferma determinazione di restare orfani di loro?
Ben inteso, la zavorra chiamata “bambino”, il cui sacrificio dovrebbe salvare la barca di una società a rischio di naufragio, non corrisponde all’esserino in carne e ossa che vive in casa nostra o gioca nel cortile.
È l’infante anonimo che non conosciamo direttamente, ma semplicemente sentiamo, perché è parte della materia umana universale di cui siamo fatti.
L’infanzia è la parte attraverso la quale la nostra materia, indipendentemente dalla sua declinazione individuale, respira, odora, si ciba della musica e dei sapori della vita e sogna.
Non vogliamo che muoiano i “nostri figli”, ma i “bambini”: un modo di desiderare, sentire e pensare che rappresenta il nucleo della nostra esistenza, le radici nella terra viva del mondo che nutrono l’albero della nostra vita. E nulla ci importa del pericolo di inaridirci. Tanta è la paura di sentire il flusso del vivere nelle nostre vene in un ambiente sociale privo di garanzie e sempre meno solidale e più infido.
Quando l’immagine concreta di un bambino morto attraversa il buio dell’anonimato e sconvolge la nostra vista, per il breve tempo necessario alla sua rimozione, solo l’autoinganno ci convince che una compassione vera è tornata a farsi sentire in noi.
In realtà l’effetto è perturbante e deriva dall’improvvisa sovrapposizione del bambino ignoto, lasciato morire, con l’immagine familiare del bambino “vero” che ci sta accanto. Rivela, nel grado in cui ciò accade, che amiamo nel “nostro” bambino l’estensione della nostra esistenza e il giocattolo che ci consola (e ci diverte in senso antidepressivo) più che la materia umana, calda e coinvolgente, di cui è testimonianza.
Il desiderio inconscio di morte che il genitore coltiva nei confronti del figlio è fisiologico come il desiderio di morte che il figlio ha nei confronti del genitore. Una parte delle preoccupazioni e delle premure che i genitori rivolgono ai figli è dovuta al senso di colpa per il loro desiderio che essi muoiano.
Tuttavia, è della vulnerabilità, inermità dei figli (in cui si riflettono) che i genitori, responsabilizzati e ansiosi, desiderano veramente liberarsi. In modo analogo i figli, desiderando la morte dei genitori, vogliono liberarsi dei limiti che essi pongono. Il conflitto inconscio di interessi si risolve quando la curiosità, l’esposizione senza riserve dei bambini alla vita, che li rende vulnerabili, è protetta, garantita dalle limitazioni poste da genitori e non impedita nel suo dispiegarsi.
Il mondo in cui viviamo, esposto alle scorrerie di banditi di ogni tipo, ferisce gravemente l’infanzia che ci abita, nel punto in cui lo sguardo vergine, aperto alla sorpresa, alla meraviglia, si congiunge allo sguardo sapiente, adulto. Lasciar perire dentro di noi l’infanzia ferita, ci obbliga a sostituirla con un “poppante saggio”, ossimoro di un essere umano nato già grande e realista.
Saltando l’esposizione e la scoperta nel presente dell’esperienza, ci proiettiamo in un futuro privo di sogni, regno di un pragmatismo astratto dalla vita.
L’Erode dei nostri tempi prepara la strada a un nuovo messianismo: uccidendo i bambini, crea un avvenire di redenzione consolatoria per il cinismo.