il manifesto 3.6.16
Tortorella: «Riforme, il sì dei falsi realisti»
Referendum
costituzionale. Parla l’ex pci Aldo Tortorella: sbaglia chi dice che
bisogna votare turandosi il naso, il premier rottamatore ora cerca di
legittimarsi arruolando Berlinguer e Ingrao, ma le loro idee erano
incompatibili con una legge ipermaggioritaria
Aldo Tortorella, già deputato, direttore dell'Unità e dirigente del Pci
intervista di Daniela Preziosi
L’arruolamento
postumo di grandi uomini del Pci, da Ingrao a Berlinguer, e di grandi
donne, come Nilde Iotti, alla battaglia per il sì al referendum
costituzionale, ante litteram s’intende visto che si tratta di persone
ormai scomparse, non stupisce Aldo Tortorella, a sua volta uno dei
comunisti che hanno fatto la storia di questo paese.
Da ragazzo
era «il partigiano Alessio», poi fu direttore dell’Unità di Genova, di
Milano e di Roma, di lì una lunga storia di dirigente del Pci, nella
segreteria di Berlinguer cui resta vicino fino all’ultimo, poi a lungo
deputato, contrario alla svolta di Occhetto ma nel «gorgo» del Pds
nell’area dei comunisti democratici, e nei Ds fino alla guerra con la
Serbia. Poi ha fondato, con altri, l’Associazione per il rinnovamento
della sinistra e dirige la nuova serie di Critica Marxista, rivista che
vuole «ripensare e rinnovare la sinistra».
Dell’uso dei grandi del
Pci da parte del premier rottamatore, dicevamo, Tortorella non è
stupito. «È significativo che per giustificare la propria condotta si
ricorra a un patrimonio ideale da parte di chi lo ha voluto seppellire
come cosa morta. Segno che quel patrimonio è ben radicato nella
coscienza di molti. Arruolare Berlinguer e Ingrao per questa riforma,
che si deve leggere sempre insieme con la nuova legge elettorale, è
grottesco prima che rozzo».
Erano monocameralisti, dicono i renziani. Non è così?
Ma
per Berlinguer r Ingrao il monocameralismo e la riduzione dei
parlamentari si collegavano al sistema proporzionale, lo stesso per cui è
pensata la Carta. E invece il giovane presidente ha fermamente voluto
una legge elettorale ipermaggioritaria, l’Italicum. Del tutto
incompatibile con la visione di Berlinguer e di Ingrao. E con la Carta.
Perché
il premier rottamatore e svoltista oggi ricorre ai classici del
comunismo, e a qualche partigiano «vero» secondo la lettura del governo,
per legittimarsi?
Perché sente che una parte del paese, della
sinistra, e del suo stesso partito non lo segue. Parecchi dei
protagonisti di quella storia antica sono viventi, e alcuni sono vicini
al Pd o iscritti al Pd, nella parte che si dichiara un po’ più di
sinistra. I più anziani sono di cultura togliattiana, come Reichlin, i
più giovani berlingueriana, come Cuperlo.
Ma fra gli ex Pci c’è
anche il presidente Napolitano che ha messo a disposizione del sì la sua
autorevolezza. Anzi: è stato il tutore delle riforme di Renzi.
Il
Pci non fu mai un monolite come spesso si pensa. Napolitano ebbe una
sua posizione non certo coincidente con quella di Berlinguer e meno che
mai con quella di Ingrao. La sua posizione certamente si è affermata. I
risultati sono quelli che si vedono. Quanta parte dell’attuale corso
istituzionale, che oggi in quanto politico sostiene, corrisponda ai suoi
propositi non saprei dire. Toccherebbe a lui dirlo. Massimo Cacciari
che ci ha spiegato in sostanza che la riforma è assai malfatta ma
bisogna votarla, forse turandosi il naso. Perché è un inizio. Di cosa?
Di una democrazia decidente. Lo spettro è quello della Repubblica
Weimar. Certo che la democrazia deve essere capace di decidere, questa
preoccupazione l’avevano anche Ingrao e Berlinguer, ma c’è modo e modo.
La democrazia tedesca fu distrutta dai nazisti usando una norma votata a
Weimar che sospendeva la Costituzione in caso di stato di eccezione e
dava pieni poteri al governo. Nuove norme costituzionali o si fanno bene
o si corrono rischi.
L’argomento di fondo sembra sia la convinzione che la politica viene prima di tutto. Anche prima della Costituzione.
Quando
ci fu la crisi della Prima Repubblica le interpretazioni erano due: la
prima, che fosse colpa di una democrazia dimezzata, di qui l’idea di
Berlinguer e di Moro di completarla rimuovendo la conventio ad
excludendum dei comunisti; l’altra, secondo cui era colpa della
Costituzione. E quest’ultima idea risale a molto indietro. La sancisce
Cossiga, che come presidente avrebbe dovuto difendere la Costituzione,
quando nel ’91 in un messaggio alle Camere dice che la Carta è sbagliata
perché frutto di un compromesso con un partito antisistema, il Pci. Ma
l’argomento è ancora più antico, risale a Scelba quando nel ’50 dice che
«la Costituzione non può diventare una trappola», ha troppe garanzie.
Ed è logico che ve ne fossero: perché nasceva in un momento storico in
cui era fresca la memoria della tirannide e ciascuna parte temeva
l’altra ed entrambe si garantivano. Da qui anche la posizione dell’Anpi:
le garanzie andavano rafforzate, non indebolite proprio oggi, di fronte
a questo assalto delle forze xenofobe, razziste e autoritarie che
riguarda non solo l’Italia, ma l’Europa. L’Ungheria e la Polonia non
sono lontane. E l’Austria è al confine.
Dunque i fan del sì si riferiscono a Scelba quando dicono che questa riforma è attesa da decenni?
C’è
chi aspetta una riforma in senso autoritario da sempre. E non solo i
conservatori e i reazionari. Per Edgardo Sogno, un uomo della Resistenza
di parte diversa dalla nostra, serviva un colpo di stato per cambiare
la Costituzione.
E in questa vicenda Renzi che ruolo ha?
Nella
satira dei tempi antichi c’era la figura del politico burattino e del
suo burattinaio. Ma non è così, il nostro presidente ci mette del suo.
Ha un eloquio fluente, sa usare le slide e i tweet. È un convinto
propagandista di una posizione politica che viene da lontano, dalla
Trilaterale, e recita così: nelle Costituzioni dei paesi dove ci sono
stati movimenti di ispirazione socialista c’è un eccesso di democrazia e
di potere legislativo rispetto all’esecutivo. Il documento della JP
Morgan del 2013 lo dice apertamente: sbarazzatevi delle Costituzioni
antifasciste.
Renzi ha anche un altro ruolo storico: chiudere la
stagione, certo tormentata, del centrosinistra attraverso l’Italicum.
Una legge elettorale molto maggioritaria i cui frutti non è neanche
certo che li raccolga lui e il suo Pd.
Infatti, il sistema delle
garanzie doveva essere rafforzato proprio per il rischio della vittoria
di una destra restauratrice e reazionaria. Non credo che dipenda dalla
mia tarda età il ritenere che questo pericolo venga sottovalutato. Anche
per questo non voglio dare per chiuso il rapporto fra le sinistre. Nel
Pd c’è ancora una parte che si ispira a sentimenti e idee di sinistra.
Certo, la sua capacità di incidere è modesta, la sua voce è tenue, la
sua tenuta è fragile, ma non andrebbe isolata. So bene che l’idea di uno
schieramento ampio di sinistra è indispensabile e insieme molto
difficile. Servirebbe una sinistra, ma bisogna prima intendersi su cosa
si possa essere oggi una sinistra. Nel secolo passato di sinistre ce
n’erano due. Una era quella della proprietà sociale dei mezzi di
produzione e di scambio, praticamente fallita nella sua esperienza
sovietica. La variante era il Pci con la sua politica riformatrice, in
sé ardua, e impossibile in un paese solo e marginale. Poi c’era la
sinistra dello stato sociale, la socialdemocrazia. In crisi profonda
perché contraddittoria nelle sue premesse. Lo stato sociale è
indissolubilmente legato al ciclo economico. Quando viene la crisi ciò
che sembrava costruito, frana. Hollande ora è al disastro. Schroeder
fece qualcosa di simile alla Thatcher.
Renzi si sente l’erede dei riformisti e socialdemocratici.
Forse
lo è, ma dei socialdemocratici di destra, quelli di Blair che è un
fallito. Egli, non da solo, professa una sorta di liberismo di stato in
cui si privatizzano i profitti e si pubblicizzano le perdite. Lo stato
diviene una funzione del mercato o, meglio, del capitale finanziario. In
ogni caso la difesa dello stato sociale non basta. L’intuizione antica
secondo la quale bisognava chiedersi a quale fine e come produrre e
consumare torna di piena attualità. Un nuovo pensiero critico viene
nascendo in tante esperienze e riflessioni. Bisognerebbe tendere a dare
una qualche elaborazione unitaria a questo pensiero. La sconfitta fu
culturale e antropologica e non c’è tattica di potere che la risolva.
Servirebbe abbandonare la caricatura dello storicismo in base a cui chi
vince a ragione. E bisognerebbe farla finita con il volontarismo di chi
pensa di poter piegare il mondo a piacimento. Il pensiero critico non
vale se non dà vita a un nuovo realismo, dopo il fallimento di quelli
che anche nel Pci hanno scambiato per realismo l’accondiscendenza al
mondo così com’è.