il manifesto 28.6.16
Perché è necessario un populismo di sinistra
La
sinistra è subalterna al liberismo. Quasi dappertutto la bandiera della
rivolta è brandita dalle destre. Bisogna parlare alle masse e opporsi
alle politiche delle élite
Manifestanti anti-Brexit a Downing Street, Londra
© Press association
Gianpasquale Santomassimo
Edizione del
28.06.2016
Pubblicato
27.6.2016, 23:59
Quando
una grande Utopia mostra le prime crepe profonde, quando sembra
avvicinarsi il suo crollo, quando le sue promesse sembrano ormai
evaporate lasciando presagire solo un futuro di miseria e di rancori, è
comprensibile che chi aveva creduto in essa tenda a negare la realtà.
Come è ricorrente il richiamo alle idee originarie, fondative, che
riesumate e attualizzate potrebbero invertire la tendenza. Solo a
distanza di tempo e a mente fredda potrà maturare la necessaria
riflessione sull’essenza stessa di quella idea iniziale, su quanto in
essa accanto a nobili visioni fossero presenti anche un eccesso di
semplificazione, un difetto di analisi realistiche, e un tasso
preoccupante di generoso pressappochismo.
E’ accaduto per altre
grandi Utopie novecentesche, sta accadendo ora per l’ideale
europeistico, che è stato il più grande investimento delle classi
dirigenti del continente in un arco ormai lunghissimo di anni. Era stato
fin dall’inizio un matrimonio di interessi, ma si volle che sbocciasse
anche l’amore tra i sudditi, e si organizzò la più massiccia opera di
indottrinamento mai perseguita dalle élites, dalla culla alla bara, come
si conviene a ogni idea totalitaria: dai mielosi temi per gli alunni
delle elementari al martellamento quotidiano di politici, giornalisti,
mezzi di comunicazione di massa.
Nell’arco della sua storia
l’ideale europeistico ha conseguito risultati importantissimi, che non
andranno lasciati cadere nel progressivo disfacimento dell’Unione: si
pensi solo all’armonizzazione dei principi giuridici, all’abolizione
della pena di morte che continua imperterrita a restare in vigore in
molti Stati degli Usa; si pensi alle grandi conquiste sul terreno dei
diritti civili e individuali, che hanno rappresentato del resto la
frontiera pressoché unica della sinistra occidentale.
Ma da
Maastricht in poi il potere delle élites europee ha proceduto con
spietata determinazione a smantellare le fondamenta dello Stato Sociale
europeo, vale a dire la creazione più alta che i popoli europei avevano
conseguito nella seconda metà del Novecento, distruggendo quindi quello
che era ormai l’elemento caratterizzante della stessa civiltà europea.
Gruppi di potere che non sarebbero mai stati in grado di conquistare
egemonia per via democratica hanno usato spregiudicatamente il «vincolo
esterno» per conseguire quei risultati che i rapporti di forza in
passato negavano. Il caso italiano è esemplare da questo punto di vista.
L’acquiescenza
della sinistra a questo disegno, la sua rinuncia ad opporsi, e in molti
casi la sua partecipazione attiva al processo di «normalizzazione»
liberista, ha fatto sì che la bandiera della rivolta contro
l’establishment sia stata quasi dappertutto brandita dalle destre, che
hanno imposto come ossessione dominante il tema, da ogni punto di vista
secondario in termini realistici, delle politiche di immigrazione, col
rigurgito di xenofobia e nazionalismo risorgente. Sono populismi, si
dirà con quella punta di disprezzo delle «folle» che ormai caratterizza
il linguaggio delle sinistre come delle élites. Ma in realtà avremmo
bisogno di un serio populismo di sinistra, capace di parlare alle masse e
di opporsi alle politiche dell’establishment.
Credo che sia
illusorio e autolesionistico, per tutti, rilanciare a questo punto le
nobili idee originarie, alzare la posta proponendo Stati Uniti d’Europa
che non verranno mai e che – a parte piccole cerchie di adepti – nessuno
seriamente vuole. Ogni volta che un politico di sinistra dice: “Più
Europa”, un uomo del popolo vota Salvini o Le Pen. E ormai la mitica
Generazione Erasmus è sommersa dalla Generazione Voucher, che sperimenta
sulla sua pelle l’incubo della precarietà in cui si è convertito il
«sogno» europeo.
Nell’immane campionario di frasi fatte che
costituisce il nerbo dell’ideologia europeistica, accanto
all’affermazione ipocrita sull’Europa che avrebbe impedito 70 anni di
guerre (la guerra alla Serbia è stata fatta probabilmente dagli
esquimesi), spicca anche l’asserito superamento degli Stati-nazione. Si
tratta con ogni evidenza di una illusione ottica, perché gli stati
nazionali esistenti (e quelli che si aggiungeranno, a partire dalla
Scozia per finire probabilmente con la Catalogna) sono l’unica realtà in
campo, e ciò che chiamiamo Europa è il risultato della mediazione di
interessi ed esigenze tra essi, con una evidente penalizzazione degli
stati dell’Europa mediterranea dovuta ai rapporti di forza instaurati
dopo Maastricht. In attesa di fantomatici «movimenti europei» la
dimensione nazionale è del resto l’unica che può opporsi ai diktat
economici delle élites, come dimostrano le piazze francesi in rivolta
contro la loi travail che anche noi avremmo dovuto avere un anno fa, se
disponessimo ancora di sindacati liberi e combattivi.
È del tutto
falso e propagandistico affermare che un recupero di sovranità,
assolutamente necessario, porti a nazionalismi sfrenati o addirittura a
guerre. Come italiani non dovremmo certo proporci di tornare a Crispi e
Mussolini, ma dovremmo guardare piuttosto a Enrico Mattei.
Ciò che
resta della sinistra europea dovrebbe affrontare con realismo e con
umiltà il trauma del dopo-Brexit, in nessun caso confondendo le sue
ragioni con quelle dell’establishment dominante, e tentando con ogni
mezzo di imporre una politica diversa, di sviluppo e di sostegno al
lavoro, senza accontentarsi di strappare decimali di «austerità
compassionevole» che potranno a questo punto venire concessi.
Si
tratta di verificare, e per l’ultima volta, se esistono margini di
riformabilità di questa Unione Europea, blindata da trattati che
sembrano escludere ripensamenti o inversioni di rotta. Se questo non
sarà possibile, e la disgregazione procederà tra stagnazione e
conflitti, gioverà ricordare che il mondo è molto più grande e più vario
rispetto alla prospettiva che si può osservare da Strasburgo e da
Bruxelles.