domenica 26 giugno 2016

Corriere La Lettura 26.6.16
L’utopia di una società religiosa e comunista
di Nicola Del Corno


«Forse da nessuna parte la rivoluzione sociale è così vicina come in Italia», scrive Michail Bakunin nel 1873 in Stato e anarchia . L’anarchico russo ha conosciuto il nostro Paese per avervi soggiornato tre anni, dal 1864 al 1867, ha compreso la distanza fra Paese legale e Paese reale creata dal processo risorgimentale moderato, e individuato l’esistenza di una larga fetta della popolazione, spesso politicamente inconsapevole, ma pronta alla ribellione nei confronti di uno status quo che la relega a livelli drammatici di indigenza.
Nella stessa opera Bakunin considera ai fini rivoluzionari «importante l’esistenza, in Italia, di un vasto proletariato dotato di un’intelligenza straordinaria, pur se in parte privo d’istruzione», composto da 2-3 milioni di operai, ma soprattutto da 20 milioni di contadini. Inoltre, è presente nel Paese una predisposizione alla cosiddetta «propaganda col fatto»: una tradizione d’impronta mazziniana, sostanziata dal sacrificio di Pisacane, suscitatrice di iniziative ribellistiche per tener viva nel popolo l’opzione rivoluzionaria tramite il riproporsi di tentativi.
I ragionamenti di Marx su sviluppo industriale e democratico possono allora poco in Italia di fronte all’apostolato anarchico che prefigura, spesso con una retorica messianica, come prossima una palingenesi sociale. A Città di Castello, a metà degli anni Settanta, un giornale rivoluzionario è significativamente intitolato il «Patatrac!», a dimostrazione, anche onomatopeica, di una prossima rumorosa rottura della società.
Bakunin non esagera nel descrivere un popolo pronto alla sommossa; nel 1865 e ’66 scoppiano scioperi e tumulti nelle campagne in Puglia e Sardegna; l’«imposta sulla miseria» — così come viene battezzata la famigerata tassa sul macinato — scatena violente proteste da parte dei contadini, classe italiana rivoluzionaria per eccellenza secondo Bakunin; da Nord a Sud si assistono a prese d’assalto dei municipi e distruzioni dei contatori che misurano l’importo del tributo sulla base dei giri della macina. Il governo italiano reagisce con la repressione in tutto il territorio, e particolarmente lo stato d’assedio nelle province di Reggio Emilia e Parma, lasciandosi dietro una scia di sangue con almeno 250 morti e migliaia fra feriti e arrestati.
I tentativi rivoluzionari si susseguono negli anni seguenti; nell’agosto del ’74 una schiera di circa 200 uomini armati cerca di raggiungere Bologna — dove nel frattempo è arrivato clandestinamente Bakunin — con l’intenzione di renderla principio di un moto nazionale, ma l’iniziativa fallisce sul nascere causa delazione. Nel ’77 una trentina di anarchici guidati da Cafiero, Malatesta e il garibaldino Ceccarelli tenta inutilmente di far sollevare i contadini nel Matese, distribuendo armi, bruciando archivi comunali, dichiarando decaduta la monarchia. Il triennio fra il 1882 e il 1885 è caratterizzato nel Nord Italia da una serie di scioperi e agitazioni, che investono buona parte della pianura padana con il Mantovano e il Polesine come epicentri, e passati alla storia con il nome di «La boje!»: al grido rabbioso di «La boje! De boto le va fora!» (Bolle! E subito esce fuori!) i braccianti si rifiutano di lavorare per meno di 2,50 lire al giorno.
Quasi un decennio dopo, agli inizi degli anni Novanta, in concomitanza con l’istituzionalizzazione della prassi socialista tramite la creazione di un partito, in Sicilia scoppiano scioperi e dimostrazioni organizzati dalla federazione dei Fasci dei lavoratori. Anche in questo caso la protesta si esaurisce solo dopo l’intervento governativo con lo stanziamento di trentamila militari, lo stato d’assedio e i tribunali militari.
In questa temperie di continue sommosse sociali, scioperi, attentati s’inserisce negli anni Settanta l’utopia di David Lazzaretti di una società cristiana e comunista dove non si pagano le tasse, suscitando l’interesse di Andrea Costa che riconosce come importante il suo idealismo nella famosa lettera Ai miei amici di Romagna con la quale nell’agosto del 1879 prende le distanze dalla mera tattica insurrezionale.

Corriere La Lettura 26.6.16
Il Vangelo di David Lazzaretti secondo figlio di Dio
Eretico, agitatore di masse, socialista o santo Simone Cristicchi racconta il «Cristo dell’Amiata»
Uno spettacolo narra il sogno del barrocciaio nato ad Arcidosso,
in Toscana, nel 1834 e ucciso nel 1878 con una palla di fucile in fronte
di Laura Zangarini


«La tua vita è un mistero che un giorno ti sarà svelato». È questa la profezia che un vecchio frate fa a David Lazzaretti nel bosco di Macchiapeschi, nelle vicinanze di Cana, in Maremma. È la primavera del 1848, David ha 14 anni. Trent’anni dopo, davanti a una folla adorante di tremila persone, David proclamerà di essere la reincarnazione di Cristo.
Alla figura complessa di David Lazzaretti — predicatore, eretico, utopista — è ispirato Il secondo figlio di Dio. Vita, morte e miracoli di David Lazzaretti , il nuovo spettacolo di canzoni e narrazione scritto da Simone Cristicchi e Manfredi Rutelli con musiche originali dello stesso Cristicchi e del maestro Valter Sivilotti. Affidata alla regia di Antonio Calenda, la produzione firmata CTB Centro Teatrale Bresciano e Promo Music in collaborazione con Mittelfest debutterà in prima nazionale il 23 luglio a Cividale del Friuli.
L’«antiquario della memoria», come si definisce Cristicchi, e il barrocciaio di Arcidosso si incontrano per la prima volta nel 2008, a Santa Fiora, sulle pendici del Monte Amiata, in provincia di Grosseto. In questo paesino Cristicchi ha scoperto il Coro dei Minatori, un ensemble di musica popolare (14 elementi tra i 19 e gli 81 anni con cui ha costruito lo spettacolo Canti di miniera, d’amore, di vino e anarchia ) che, spiega a «la Lettura», «di generazione in generazione si tramanda i canti di quelle terre, intonate per lo più nelle osterie o nelle piazze di paese. Scavando nelle tradizioni e nelle leggende locali mi sono imbattuto in Lazzaretti, oggetto non solo di culto popolare ma anche dell’attenzione di storici, scrittori e letterati, da Guy de Maupassant a Benedetto Croce, da Giovanni Pascoli ad Antonio Gramsci. Se ne interessò anche Tolstoj nel corso dei suoi incontri con Cesare Lombroso, che ne studiava il cranio per dimostrarne scientificamente la follia».
Nel suo vagabondare artistico, incappare nel passato è una costante: cosa l’attrae? «Mi spinge l’urgenza di raccontare delle storie, di restituire in qualche modo una “giustizia” ai dimenticati. In Magazzino 18 era il dramma delle foibe e l’esodo di istriani e giuliano-dalmati, era spiegare come gli oggetti che lasciamo dopo il nostro passaggio su questa terra parlano di quello che siamo stati; in Li Romani in Russia era la necessità di cercare le mie radici attraverso la storia di un uomo straordinario, mio nonno, tornato a piedi a Roma dalla ritirata di Russia». Riflette: «Mi ritrovo nella sua ostinazione. Più in generale mi rispecchio in quella feroce volontà di farcela a tutti i costi, di raggiungere un obiettivo: nel caso di mio nonno quello di salvare la pelle. Ma se lui non fosse stato costretto a quel tragico ritorno, io non avrei mai potuto essere qui».
E nel caso di Lazzaretti quale urgenza l’ha spinta? «Volevo raccontare una storia che forse è solo una follia, una storia che se non te la raccontano, non la sai: perché quella di Lazzaretti è la storia di un’idea, di un sogno. Di un’utopia. Lo hanno definito “folle”, “eretico” “socialista”. Ma lui non aveva niente a che fare col socialismo, per lui la “condivisione” era molto semplicemente uno strumento per elevare lo spirito».
La visione del vecchio frate nel bosco di Macchiapeschi per anni deve essere apparsa a David come un sogno. La sua vita prosegue secondo le linee tradizionali di quella di un giovane montanaro: il lavoro, la famiglia (nel 1856 sposa una donna che gli dà cinque figli), l’impegno civile e politico (nel 1859 entra nella cavalleria del generale Enrico Cialdini; l’anno dopo combatte contro le truppe pontificie). Tuttavia, il 25 aprile 1868, esattamente vent’anni dopo quel primo incontro, ecco che il vecchio frate gli appare ancora. Lo spinge a recarsi dal Papa per «esporgli la sua missione»; quindi a «ritirarsi in un convento». È qui che «divine» visioni gli fanno visita e torna a parlargli il «santo vecchio». Quando, dopo un altro soggiorno eremitico, David riappare tra le popolazioni dell’Amiata con il suo nuovo ruolo di «uomo santo», gode ormai di un ampio e profondo prestigio sociale. Numerosi fedeli si raccolgono intorno a lui per ascoltare la sua predicazione e seguirne i consigli. «Ad amarlo furono soprattutto poveri e bisognosi, che si affidarono a lui non solo perché annunciava l’avvento dello Spirito Santo che avrebbe cambiato il volto del mondo, ma anche per il suo carisma. Pio IX, vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica, gli concesse udienza privata. Rimase talmente colpito dalla personalità del predicatore che lo protesse fino al giorno della sua morte, il 7 febbraio 1878. Lazzaretti verrà ucciso qualche mese dopo, in agosto, sotto il pontificato di Leone XIII».
La vita messianica di Lazzaretti, e la sua fama anche Oltralpe, mettono in allarme le autorità ecclesiastiche e civili. Scomunicato dal Sant’Uffizio, il predicatore vede messi all’Indice i suoi libri e scritti. «Ma infastidiva anche lo Stato, che lo considerava un agitatore di masse, un rivoluzionario. Il giorno in cui venne assassinato, il 18 agosto 1878, stava guidando la processione per la Festa dell’Assunta verso Arcidosso. Ai piedi del Monte Labbro lo attendeva una pattuglia di carabinieri. Spararono, una palla di fucile colpì David proprio in mezzo alla fronte. Morì dopo nove ore di agonia. Con lui rimasero uccisi anche tre poveri montanari, semplici spettatori della processione».
Antonio Gramsci scrisse che quella di Lazzaretti fu una fucilazione senza processo, premeditata a freddo. «I sospetti che possa essere stato un omicidio politico non sono mai venuti meno. Era diventato un personaggio scomodo. La vera frattura si aprì quando cominciò a predicare la “sua” teologia, a sostenere che la teoria del libro della Natura fosse l’unica Bibbia. Affermava che la divinità non è fuori ma dentro l’uomo, una tesi per la Chiesa intollerabile. Per me, la portata rivoluzionaria del suo dogma risiede nella sua capacità di ripensare il mondo, di credere di poterlo cambiare a partire da noi stessi».
Che cosa rimane oggi di quell’utopia, di quel sogno? «Fino agli anni Sessanta David aveva ancora dei seguaci. Oggi la sua eredità è un museo dove sono conservati oggetti d’epoca, cimeli e documenti, e un centro studi che edita pubblicazioni e ricerche sul “santo”. Per me del suo “messaggio” resta soprattutto la visione di ogni uomo come tessera di un grande mosaico, indispensabile a tutti gli altri».
Dal testo dello spettacolo verrà tratto il libro omonimo che uscirà in coincidenza con l’inizio della tournée (sono già previste una sessantina di repliche). Cosa vedranno in scena gli spettatori? «Al centro del palco ci sarà un barroccio che diventerà via via una macchina teatrale, mentre alcune videoproiezioni mostreranno i luoghi in cui si svolge la storia di David: l’Amiata, un ex vulcano ora a riposo, è considerato un monte misterioso, dalle forti “energie”; rimanda ad alchimie arcane, è la zona del cinabro, del mercurio... Qui sorge il più importante tempio buddhista d’Italia, Merigar, letteralmente la “residenza della montagna di fuoco”, simbolicamente “dimora dell’energia”. Ad Arcidosso sono tuttora visibili particolari simboli scolpiti nella pietra che richiamano una sapienza antica, la presenza dei templari…». E le canzoni? «Saranno accompagnate da un coro polifonico. Darà allo spettacolo una sacralità molto suggestiva, con canti in stile gregoriano e musiche dal vivo eseguite da quattro musicisti». Cosa vorrebbe che il pubblico portasse con sé, a casa, della sua storia? «La storia di Lazzaretti è la metafora di quello che è capace di fare un uomo: solo i pazzi, i rivoluzionari e i poeti non smettono mai di dare ascolto alla voce che li spinge a inseguire il sogno».

Il Sole Domenica 26.6.16
Papa Francesco e l’ambiente
«Laudato Si’» torna in versi
Il Fai ha chiesto ad alcuni intellettuali di commentare l’enciclica papale: Wim Wenders lo ha fatto con un poemetto
di Wim Wenders


Sono davvero molte le suggestioni che il FAI (Fondo Ambiente Italiano)- nell’espletare la sua missione - ha ritrovato nelle parole della enciclica di papa Francesco «Laudato Si’». In particolare quando il pontefice ricorda che insieme al «patrimonio naturale» c’è anche un «patrimonio storico, artistico e culturale ugualmente minacciato», e ancora di più quando non dimentica la «varietà di associazioni che intervengono a favore del bene comune per proteggere, risanare, migliorare o abbellire qualcosa che è di tutti». Papa Francesco introduce nel suo discorso ecumenico parole cruciali per il tempo che stiamo attraversando: su tutto, la salvaguardia della bellezza come simbolo di una sana relazione con il «creato».
Dunque il Fai - spinto da queste parole - ha voluto verificare quali reazioni l’enciclica papale avesse suscitato non solo tra i vertici dell’associazione ma anche tra una significativa rappresentanza di intellettuali italiani e stranieri. Sono così giunti al Fai, assieme agli scritti di Andrea Carandini (presidente del Fai) e Giulia Maria Crespi (presidente onorario del Fai), i testi di Marco Vitale, Lucetta Scaraffia, Gad Lerner, Giancarlo Bosetti, Salvatore Veca, Michele Salvati, Michelangelo Pistoletto e Wim Wenders. Dalla raccolta di questi interventi è nato un libro a cura di Pasquale Chessa dal titolo «Laudato Si’. Conversazioni sull’enciclica di Papa Francesco 2015/2016» (edizioni Fai, Fondo Ambiente italiano, Milano, pagg. 126, € 12). Tra i testi pervenuti, il più singolare è stato quello del regista Wim Wenders, che lo ha scritto in forma di poemetto. Qui lo proponiamo nella traduzione di Barbara Venturi per gentile concessione del Fai.


Mentre leggo l’enciclica Laudato Si’/ sono pienamente consapevole/ che si tratta di uno dei documenti più importanti/ di questo XXI secolo ancora giovane,/ sia a causa del suo autore, Papa Francesco,/ sia per il tema: l’insopportabile sofferenza del pianeta./ Mi coinvolge nel profondo, tanto che non riesco a interrompere la lettura./ E poi mi rendo conto che ciò che mi colpisce,/ ciò che mi tocca di più in questo testo è il tono!/ Il modo in cui penetra con dolcezza nella mia mente trascinandomi pian piano...
Non è come leggere un testo teorico o pedagogico,/ somiglia molto più a una lettera personale,/ che mi è stata indirizzata da un amico intimo (e molto competente)./
Vado avanti a leggere/ e riesco quasi a sentire la voce pacata dell’autore,/ una voce che non ha niente di pedante, lontanissima dal tono di chi tiene una conferenza,/ piuttosto la voce di qualcuno che parla come se stesse pensando a voce alta,/ la voce gentile di chi vuol condividere con me i suoi pensieri./ Continuo a dimenticare/ che è il Papa a parlare (o meglio a scrivere)...
A volte l’autore scende su un terreno familiare,/ senza mai pretendere di sapere più di quello che già sappiamo,/ ma lo fa con tale passione e convinzione/ che il semplice flusso dei pensieri,/ la complessità e la determinazione del ragionamento/ sono trascinanti e ci uniscono in un’unica convinzione:/ ora o mai più!/ Il danno arrecato alla Terra è un danno fatto a noi stessi./ È a noi stessi che stiamo facendo del male, nel lungo periodo./ (E anche nel breve).
Sì, è il tono del messaggio/ a renderlo così potente e convincente,/ ben al di là di qualsiasi saggio o tesi sull’argomento. / Non è che quando finisci di leggere l’enciclica,/ ne saprai necessariamente più di prima./ Non è un testo ricco di nuovi dati e intuizioni sorprendenti,/ eppure, da quella lettura / esci arricchito e in realtà sai di più./ Con molte cose di cui prima eri consapevole/ ora hai un rapporto diverso:/ d’ora in poi apparterranno alla tua vita/ in senso profondamente esistenziale.
Sei più convinto che mai,/ perché l’anima stessa ha inteso/ che proteggere il pianeta è una delle questioni più scottanti del nostro tempo. / Spesso le questioni ambientali/ che in certi momenti ci appaiono importantissime e urgenti,/ vengono relegate in secondo piano/ dalla routine e dalle emergenze della quotidianità./ Questa volta è diverso.
Papa Francesco ha soprattutto messo una cosa/ in chiaro
a voi, a noi, a me: /la sofferenza dei poveri non può essere disgiunta / e considerata una questione separata/ dalla sofferenza del pianeta./ Le due cose si appartengono e devono essere risolte insieme!/ Invece generalmente sono considerate questioni separate./ Le organizzazioni che le combattono sono impegnate sull’uno o sull’altro fronte./ Non così Papa Francesco e la fede che rappresenta.
Quindi non è solo il tono di questo libro/ a porlo al di sopra di qualsiasi messaggio politico./ È anche la fonte da cui proviene./ Il titolo stesso, Laudato Si’,/ ci ricorda il motivo per cui Jorge Mario Bergoglio/ ha scelto il nome di san Francesco e perché scrive tutto questo/ rivolgendosi a noi come «Francesco».
Nella lunga storia tra l’umanità e la natura/ quest’uomo, questo santo, con la sua vita e le sue convinzioni/ occupa indiscutibilmente una pagina a sé./ È stato il primo a identificare la propria vita/ con quella di ogni altro essere vivente sul pianeta,/ e la sua compassione per i poveri non conosceva limiti.
Questa enciclica è scritta nel suo spirito/ da un altro uomo di Dio pieno di amore e compassione e saggezza,/ che ha assunto il nome di Francesco come un segno,/ un’indicazione della sua missione:/ la riconciliazione della fede cristiana/ con la realtà contemporanea e le sue questioni più scottanti:/ da un lato la lotta alla povertà,/ dall’altro quella contro l’abuso dei preziosi tesori del pianeta:/ la sua acqua, la sua aria, le sue piante, i suoi animali, le sue risorse.
I nostri principi cristiani,/ (non c’è certo bisogno di insistere su questo punto,/ è talmente ovvio ed evidente)/ non sono solo compatibili, ma identici/ con la compassione per i poveri e per il pianeta! / Siamo i custodi dei nostri fratelli / e abbiamo il compito di aver cura,/ della natura, degli animali e della vita sulla Terra, non di sfruttarli.
Per una volta, in questa Enciclica,/ la fede non è qualcosa che porta i cristiani / a trascendere in qualche modo il mondo e lasciarselo alle spalle, / ma qualcosa che conduce dritto nel mondo, / spingendo ad abbracciarlo e a difenderlo. / E per una volta,/ sei impaziente di condividere un testo di chiesa con persone/ che non sono credenti/ o che pregano un altro Dio./ Dopotutto viviamo sullo stesso pianeta,/ siamo fratelli gli uni agli altri,/ e sì, anche i diversi nomi di Dio,/ nello spirito di compassione e di amore che emana da questo testo,/ non possono che essere un ulteriore motivo per rispettare l’altro/ e aver cura di ciò che è stato in dono a tutti noi:/ il pianeta Terra.

il manifesto Alias 26.6.16
L’ordine collettivo nasce dalla pulsioni
Antropologia filosofica. Mentre ci introduce alle istituzioni primitive, dal matrimonio all’arte, dall’ordinamento statale all’amicizia, Arnold Gehlen spiega la genesi stessa della natura umana: "L'uomo delle origini e la tarda cultura"
di Luca Corti

Charles Taylor, il grande filosofo canadese, diceva che l’uomo è l’animale che interpreta se stesso. Eppure la domanda sull’uomo non ha riscosso un interesse costante nel tempo. L’antropologia, specialmente in alcune sue forme, passa non di rado per essere una «disciplina di crisi». Come quei personaggi dei romanzi che entrano in scena nelle situazioni di stallo, anch’essa sembra farsi avanti con più forza in quei momenti storici in cui alcune visioni del mondo tradizionali vacillano, alcune costellazioni istituzionali e campi di certezze crollano, portando l’uomo a sentirsi un problema del quale egli stesso deve fornire una spiegazione. E questo non vale solo per gli esordi della antropologia, quando sotto i colpi della rivoluzione scientifica e delle nuove scoperte geografiche, la fiducia in una natura umana uguale per tutti venne minata alle fondamenta, ma anche per epoche più recenti, quando – per esempio – cominciò a prendere piede la tradizione della antropologia filosofica.
Negli anni venti del Novecento, in Germania, lo sviluppo delle scienze cambiò profondamente la visione dell’uomo: una biologia e una psicologia rampanti (si pensi all’influenza di Darwin e all’impatto di Freud, ma non solo), assieme alla nascente etologia (l’esempio di Lorenz valga su tutti), tentarono di mettere a nudo il lato naturale dell’essere umano. L’epoca, d’altro canto, era percorsa dalle tensioni scaturite dall’esperienza della prima guerra mondiale, che offrivano pane ai denti di una giovane sociologia. La questione dell’uomo tornò così a esercitare una certa urgenza, e il bisogno di dare una risposta globale, unitaria e comprensiva alla domanda sull’essere umano si fece sentire più forte. «Siamo la prima epoca in cui l’uomo è divenuto completamente e interamente ‘problematico’ per se stesso – scrive Max Scheler – egli non sa più che cosa è, ma al contempo sa anche di non saperlo».
Insieme a Scheler e a Helmuth Plessner, il più giovane Arnold Gehlen entrò nel triumvirato che avrebbe posto le basi della antropologia filosofica. Una buona occasione per tornare su alcune delle questioni più importanti sollevate da questa disciplina ci viene ora dalla ristampa presso Mimesis, dopo ventisei anni dall’edizione del Saggiatore, di un libro del 1956 L’uomo delle origini e la tarda cultura (a cura di Vallori Rasini, traduzione di Elisa Tetamo, pp. 326, euro  25,00), in cui Gehlen riprende e sviluppa le tesi del suo saggio più celebre, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, scritto nel 1940.
Come ricorda Vallori Rasini nella sua introduzione, Gehlen aderì al partito nazionalsocialista, con conseguenze innegabilmente positive anche per la sua carriera. Sebbene non abbia costituito un «caso» analogo a quello di Heidegger, e malgrado abbia preso parzialmente le distanze dal nazismo, nella sua opera resta tuttavia evidente una componente conservatrice, che al tempo stesso non va misconosciuta né deve squalificare le sue idee, di grande importanza, delle quali va saggiata, innanzi tutto, la tenuta teoretica.
I capisaldi del progetto di Gehlen appaiono al lettore fin dalle prime pagine, a cominciare dal tentativo di mettere in piedi una filosofia basata sui risultati delle scienze dell’epoca: l’antropologia, la biologia umana e in particolate l’etologia, ma anche la archeologia e la sociologia entrano negli interessi del filosofo, che nutre su di esse competenze da esperto. Allo stesso tempo, Gehlen ne utilizza i risultati per andare alla ricerca di quelle che chiama le «categorie» fondamentali o le «qualità essenziali» dell’uomo. Il modo in cui combina l’anima empirista delle sue analisi con l’indagine sulla natura umana è tanto interessante quanto oggetto di controversie.
In primo luogo, Gehlen non condivide le idee di Darwin, o almeno non del tutto: fa leva su alcune critiche al darwinismo presenti nella biologia a lui contemporanea, critiche provenienti da scienziati cari all’antropologia filosofica come Adolf Portmann e Jacob von Uexküll – ai quali peraltro anche filosofi come Heidegger e Deleuze si rifanno di frequente. Gehlen ne utilizza le teorie per attaccare la derivazione diretta dell’essere umano dalla scimmia. L’uomo – sostiene – non è una scimmia particolarmente evoluta, bensì discende da un ramo indipendente dell’evoluzione, che lo rende unico già dal punto di vista biologico, prima ancora che metafisico o teologico.
Ma in cosa consiste questa specificità biologica? È qui che Gehlen ci fornisce l’immagine dell’uomo che lo ha reso celebre: l’uomo – scrive facendo eco al filosofo settecentesco Johann G. Herder – è un essere per natura determinato da una serie di «carenze», l’unico privo di strumenti «naturali» che lo mettano in grado di assicurarsi la sopravvivenza. È privo di rivestimento pilifero, ad esempio, che lo protegga dalle intemperie, ma anche di organi difensivi naturali, così come di una struttura morfologica che gli permetta la fuga. Inoltre «difetta di istinti autentici», grazie ai quali tutti gli altri animali selezionano i segnali biologicamente vantaggiosi nell’ambiente e da questi si fanno guidare in maniera quasi «automatica». L’uomo invece non ha neppure una nicchia ambientale, un habitat a lui specifico.
Da qui il modo peculiare in cui il bipede implume si aggira, disorientato, nel mondo: le sue percezioni non sono selettive, ma rispondono a un caotico profluvio di stimoli; le sue azioni sono indeterminate, perché altrettanto disorganizzate e plastiche sono le sue pulsioni.
Nella Genealogia della morale, Friedrich Nietzsche aveva detto che «l’uomo è l’animale non ancora stabilmente determinato», coniando un’immagine che Gehlen fa sua in maniera originale. L’uomo, che è animale manchevole, deve determinarsi: in altre parole, deve farsi uomo, prendendo posizione rispetto al mondo, a se stesso e agli altri. Ora, se non dalla natura, da dove proviene l’ordine che è tuttavia presente nell’agire umano? La risposta di Gehlen è chiara e costituisce il motivo centrale del suo testo: la fonte va cercata nel costituirsi di quelle che egli chiama le istituzioni, vere protagoniste della riflessione condotta nel 1956.
Dal matrimonio alla rappresentazione artistica, dall’ordinamento statale all’amicizia, la maggior parte delle forme umane di comportamento ordinato (se non tutte) sono per Gehlen fissate in istituzioni, ovvero in modi di agire e di organizzare il proprio comportamento collettivo: modi stabili e controllati. Le istituzioni regolano, incanalano, imbrigliano e ordinano le pulsioni, che di per sé sarebbero magmatiche (non è difficile rintracciare qui l’influsso di una certa psicologia del profondo). Ma sarebbe sbagliato considerare le istituzioni solo come briglie tramite le quali l’uomo tiene a freno le sue pulsioni. Gehlen lo scrive chiaramente: le istituzioni nascono sì da plessi istintuali (fame, sete, istinto di riproduzione e conservazione), ma allo stesso tempo li plasmano e li orientano in vari modi, rivestendoli di nuovi significati, talvolta fino a renderli del tutto irriconoscibili. Parafrasando Kant – di cui Gehlen ricoprì per qualche anno la cattedra all’Università di Königsberg – potremmo dire che le pulsioni senza le istituzioni sono cieche, le istituzioni senza le pulsioni sono vuote.
«Quali sono le vie attraverso le quali l’uomo arcaico compie esperienza di sé e intrepreta se stesso?». Gehlen formula esplicitamente questa domanda verso la metà del suo libro, mentre guida il lettore attraverso un percorso in varie tappe, dove si assiste al costituirsi delle prime forme istituzionali. Dicendoci che noi siamo animali profondamente istituzionali, e introducendoci al percorso di formazione delle istituzioni primitive, Gehlen intende spiegare la genesi stessa della natura umana. E va incontro, così, all’interrogativo che Charles Taylor riteneva costitutivo per l’essere umano.
Muovendosi su un territorio di confine, in equilibrio tra scienza e filosofia, la professione di «filosofia empirica» di Gehlen costituisce un’arma a doppio taglio. Da una parte il costante richiamo alle teorie scientifiche vuol essere un punto di forza nella sua argomentazione; dall’altra, egli stesso riconosce che qualsiasi teoria scientifica fornisce risultati provvisori e rivedibili; e infatti oggi, anche alcune delle sue tesi rischiano di apparire meno convincenti. La biologia teoretica di von Uexküll, ad esempio, così influente su molti filosofi e importante per storia della antropologia filosofica, può essere affiancata da teorie concorrenti e più classiche sull’evoluzione, in cui la distanza tra capacità animali e capacità umane risulta assai ridotta, mentre l’idea di una origine filogenetica arcaica e peculiare dall’uomo, da cui deriverebbero le sue «manchevolezze» (idea che Gehlen deriva dal biologo olandese Luois Bolk), se non falsa, risulta oggi quantomeno controversa e minoritaria.
Stephen Gould, celebre biologo di Harvard e famoso divulgatore, la definì ad esempio «datata e un po’ pazza, ma ragionevole all’epoca e supportata in maniera cogente». Dal portamento eretto, alla «nudità», fino alle dimensioni del cervello, le caratteristiche umane sembrano oggi assai più specifiche e funzionali di quanto Gehlen pensasse, e risultano anch’esse da concepire come il frutto di un graduale processo di adattamento.
Ma l’altra grande anima dell’impresa di Gehlen, ovvero la sua ricerca di quali siano le «qualità essenziali» dell’essere umano, sembra potersi separare da questa tendenza scientifico-naturalista: è qui che risiede il potenziale maggiore del suo pensiero per le ricerche odierne. L’immagine che Gehlen ci fornisce della costituzione dell’umano, la sua prospettiva sull’istituzione e sui motivi che animano le dinamiche della vita associata – motivi che non appartengono né possono appartenere al discorso scientifico-naturale – sono ancora oggi assai interessanti e potenti. In fondo, nonostante i suoi proclami, Gehlen non è così «empirista» quanto crede (o vuole far credere), anche se non manca un certo bipolarismo nel suo argomentare, e malgrado la stessa letteratura critica fatichi a capire in che misura egli sia vittima di un autofraintendimento «naturalista». Se di autofraintendimento si tratta, gli va riconosciuto comunque quell’alto alto tasso di creatività che è intrinseco, di per sé, a tutto il pensiero della antropologia filosofica.

il manifesto Alias 26.6.16
La culla babilonese, troppo stretta per tutte le civiltà
Storia antica. Nel suo "Il retaggio della Mesopotamia" Stephanie Dalley ricostruisce alcune tesi correnti ma datate, a cominciare da quella che fa derivare la scrittura egiziana e la micenea dalla cuneiforme
di Lorenzo Verderame


Cosa è rimasto delle culture che per tre millenni si sono succedute nella regione attraversata dai fiumi Tigri e Eufrate e che sono generalmente riunite sotto l’etichetta di «civiltà mesopotamica»? È questo l’interrogativo cui cerca di offrire una risposta l’ampio saggio titolato Il retaggio della Mesopotamia della studiosa britannica Stephanie Dalley (Adelphi, con un saggio di David Pingree, traduzione di Adriana Bottini, pp. 345, euro  32.00) apparso per la prima volta nel 1998 per la Oxford University Press, che mostra fin dal titolo quale sia il suo scopo: tracciare gli elementi della «eredità» mesopotamica nelle culture coeve e, soprattutto, in quelle posteriori. È infatti all’influenza della tradizione mesopotamica sulla tradizione biblica, classica e islamica che Stephany Dalley dedica la maggior parte del volume.
Fin dai periodi preistorici il Vicino Oriente è stato lo scenario di importanti cambiamenti e avanzamenti tecnologici, ma è nella Mesopotamia meridionale del III millennio che si concentrano quei mutamenti di fondamentale importanza che l’hanno fatta individuare come «culla della civiltà». Secondo le fonti a disposizione, è infatti in quest’area che si sarebbero verificati per la prima volta quella serie di processi e innovazioni strettamente interconnessi, come l’origine della città e dello stato o l’invenzione della scrittura, che marcano l’inizio della storia. Nell’arco di tre millenni, le culture che si sono avvicendate nella regione tra il Tigri e l’Eufrate hanno dato vita a una civiltà dai caratteri unitari, con una coscienza di identità regionale, un pantheon unico, un sistema di governo simile. Tuttavia, il principale elemento identitario sta nell’elemento linguistico, il sumerico prima e l’accadico con le sue varianti (assiro e babilonese) dopo, e, soprattutto, nella scrittura cuneiforme, che avrebbe accompagnato per tre millenni lo sviluppo della civiltà mesopotamica e ne avrebbe seguito e determinato le sorti.
La scrittura cuneiforme ebbe origine nella bassa Mesopotamia (Uruk) alla fine del IV millennio a.C. e fu utilizzata in prima istanza per esprimere la lingua sumerica. Si diffuse presto in tutto il Vicino Oriente e fu adattata per esprimere lingue differenti. Nella seconda metà del II millennio a.C. non solo il cuneiforme, ma la stessa lingua babilonese divenne il mezzo utilizzato da tutte le cancellerie, compresa quella egiziana e ittita, per lo scambio della corrispondenza diplomatica. L’adozione degli strumenti per apprendere il cuneiforme portarono alla diffusione della cultura e della letteratura mesopotamica. Altri elementi di questa civiltà si diffusero con gli scambi commerciali o tramite le relazioni politiche, e le tracce di questa disseminazione nel Vicino Oriente e oltre sono documentate fin dalle fasi più arcaiche.
Alle soglie del I millennio a.C., ormai in posizione periferica rispetto alle nuove rotte commerciali e alle aree strategiche, prima fra tutte il Mediterraneo, la Mesopotamia si avvia verso una lenta decadenza. Alla perdita di indipendenza politica con la conquista persiana, seguono parallelamente altri fenomeni, in particolare la diffusione delle scritture alfabetiche e dell’aramaico che si affiancano e poi soppiantano nell’uso quotidiano e ufficiale la lingua assiro-babilonese e la scrittura cuneiforme. Gli scribi continueranno a trasmettere e comporre opere scritte in cuneiforme e in lingua babilonese, se non addirittura in sumerico, divenuta nel frattempo lingua liturgica, ma si tratta di opere destinate a una circolazione limitata.
L’influenza della Mesopotamia sulle fonti bibliche è un fenomeno molto complesso per il quale si deve tener conto del comune elemento linguistico, socio-culturale, geografico e, non da ultimo, i contatti costanti e prolungati. All’esilio babilonese si attribuisce la penetrazione di numerosi elementi mesopotamici nell’antico Testamento. La storia del diluvio mostra parallelismi con quella babilonese narrata nel Poema di Atra-hasis e ripresa nell’epopea di Gilgameš, per non parlare della torre di Babele che richiama direttamente l’edificio emblematico della cultura mesopotamica, la ziqqurat, e che per secoli ha ispirato la fantasia degli artisti occidentali.
Rispetto all’Egitto, affacciato e ancora protagonista nel nuovo scenario mediterraneo, le cui vestigia di pietra continuano a riecheggiare l’antico passato, l’immagine della Mesopotamia nelle fonti classiche appare sbiadita se non addirittura assente quando la si compari con la lunga e gloriosa tradizione delle epoche precedenti. Le ragioni di un simile destino sono diverse: di sicuro, intanto, la lontananza e l’assoggettamento al dominio persiano e partico ne hanno fatto un’area remota e esotica agli occhi dei greci e dei romani. La natura delle sue antiche vestigia fatte di mattoni cotti e crudi facili all’erosione degli agenti atmosferici ha anche favorito un rapido oblio e ne ha fatto un’area ignorata e considerata spoglia sino al XIX secolo, quando cominciò l’esplorazione sistematica della regione. Ma a queste ragioni va aggiunta la natura della documentazione mesopotamica: cosa sapevano i greci, per non dire i romani, di questa civiltà e quali erano le loro fonti?
Sopravviveva il ricordo degli ultimi imperi assiro e babilonese, delle loro capitali Ninive e Babilonia, e dei loro re divenuti personaggi mitici, di cui si ha traccia nei racconti biblici e in alcuni autori classici, ma della storia dei millenni precedenti, della letteratura e dei traguardi raggiunti rimaneva solo una pallida eco. È stato Erodoto a offrirci la descrizione più ampia dedicata all’antica Mesopotamia, ricca, tuttavia, di elementi favolistici e fonti di seconda mano mal comprese; il che lascia intendere quanto poco conobbero e compresero i greci della tradizione mesopotamica. Per colmare questa lacuna tra il IV e III secolo a.C. un sacerdote babilonese, Berosso, si preoccupò di redigere in greco una Storia di Babilonia (Babyloniaka): nell’opera, giuntaci purtroppo frammentaria e per fonti indirette, si raccontava la storia dell’antica Mesopotamia, dalla creazione del mondo a opera del dio Marduk fino agli ultimi re babilonesi.
Sebbene il culto di alcune divinità mesopotamiche si diffuse ed ebbe grande fama anche nei periodi tardi, fin dall’antichità, tuttavia, la Mesopotamia fu associata principalmente agli aspetti astrali della religione babilonese e alle eccezionali conoscenze astronomiche e astrologiche acquisite. Nella tradizione classica i sacerdoti caldei sono associati al culto astrale celebrato sulla sommità delle ziqqurat e i «caldei» si diffusero in tutto il mondo ellenizzato portando con loro conoscenze esoteriche e divinatorie, in particolare la conoscenza del moto degli astri. «Caldei» è il nome degli astrologi derisi da Cicerone nel De divinatione e da Plinio nella sua Historia naturalis.
Ma a parte gli elementi direttamente connessi con la tradizione mesopotamica cos’altro può essere considerato come sua «eredità» passata in altre tradizioni? L’anteriorità del dato scritto mesopotamico rispetto a quello di altre culture vicine o addirittura rispetto a culture prive di scrittura porta necessariamente ad attribuire tutta una serie di progressi e innovazioni alla Mesopotamia, che diviene di fatto la civiltà dei primati.
Inoltre, incombono sulla possibilità di una analisi corretta il dato della monogenesi, che fa corrispondere l’anteriorità del dato scritto all’origine di uno specifico elemento e quello del diffusionismo, che presuppone diramazioni di una civiltà per trasmissione o per contatto. Sono queste le prospettive che diedero vita, all’inizio del secolo scorso, alla corrente nota come panbabilonismo, che riportava l’origine di ogni religione e civiltà a quella Babilonese. Eppure il fenomeno della trasmissione e ricezione di elementi culturali è particolarmente complesso e deve tener conto non solo dell’elemento in sé, ma del momento e della ragione della trasmissione, della forma in cui l’elemento è stato recepito e come è stato rielaborato.
Nonostante Stephanie Dalley metta in guardia da questi modelli interpretativi, poi li adotta nel suo saggio: prendiamo, per esempio, il caso della scrittura cuneiforme, perché è un buon esempio dei rischi interni a possibili semplificazioni. Secondo Dalley la scrittura egiziana e quella micenea sarebbero derivate – la prima direttamente, la seconda per contatto – da quella cuneiforme; tuttavia nessuna evidenza parla in questo senso né l’ipotesi è confortata da qualche studio. Al contrario, sembra evidente che diversi sistemi di scrittura furono elaborati contemporaneamente o successivamente in aree contigue (Egitto, Mesopotamia, Cina) o molto lontane (Mesoamerica), dimostrando come si tratti di fenomeni paralleli e indipendenti.
Inoltre la diffusione della scrittura cuneiforme nelle aree vicine non fu un fenomeno uniforme né immediato. Nel III millennio l’Anatolia mantenne strette relazioni con la Mesopotamia, adottandone alcune innovazioni (per esempio il sigillo), ma non la scrittura.


Corriere La Lettura 26.6.16
Dall’homo erectus agli Hobbit: quando l’evoluzione torna indietro
Scoperte Nella storia dell’homo floresiensis rinvenuto in Indonesia restava un mistero:
chi erano i suoi antenati? Una campagna di scavi ha individuato un fenomeno, non nuovo in natura, di «regressione», avvenuto in 300 mila anni: il passaggio da figure alte 170 centimetri e dotate di un cervello di 9 etti a figure alte meno di un metro con un cervello di 4 etti
di Claudio Tuniz


Recentemente è tornato alla ribalta Hobbit, lo gnomo dell’età glaciale i cui resti ossei, appartenenti a diversi individui, furono scoperti dodici anni fa dall’archeologo australiano Mike Morwood, dopo avere scavato una fossa di 9 metri nella caverna di Liang Bua nell’isola di Flores, in Indonesia. Si trattava di una nuova specie umana, con caratteristiche sorprendenti, cui fu dato il nome di Homo floresiensis .
Mike era un vecchio amico e m’invitò a Giacarta per toccare l’Hobbit con le mie mani e a Liang Bua per vedere dove l’ominide aveva vissuto durante l’era glaciale. Io lo invitai a mia volta a Trieste per presentare la nuova «creatura» alla nostra comunità scientifica. Nei primi anni Novanta avevo aiutato Morwood a datare con il radiocarbonio le meravigliose pitture rupestri del Kimberley, in Australia, paragonabili per bellezza a quelle di Lascaux e di Chauvet in Francia. Nel corso di quel progetto avevamo anche pubblicato insieme un articolo su «Nature», nel quale deducevamo l’antichità delle pitture datando i nidi che certi tipi di vespa ci avevano costruito sopra. In seguito Mike ampliò le sue ricerche cercando l’arrivo di noi sapiens nelle isole indonesiane, per ricostruire la traiettoria della nostra dispersione dall’Africa verso l’Australia, e per studiare il nostro possibile incontro con Homo erectus (l’Uomo di Giava).
Nel 1998 egli trovò strumenti litici nel centro di Flores, risalenti a 850 mila anni fa. Furono subito attribuiti a H. erectus , l’unico umano che a quei tempi aveva sicuramente popolato quella regione. Altri reperti simili, risalenti a un milione di anni fa, furono trovati dai suoi collaboratori nella stessa area ma non apparve nessun resto umano che potesse essere a loro collegato.
Si trattava di strane scoperte perché l’isola di Flores si trova oltre la linea di Wallace, ovvero al di là di quella fossa oceanica che anche durante l’era glaciale (quando il mare era 100 metri più basso di quello attuale) separava la fauna di tutte le isole più a oriente (inclusa l’Australia) da quella del sudest asiatico. Fu sapiens , armato di pensiero simbolico, la prima specie umana a navigare e attraversare quella barriera. Tuttavia, anche se Mike non trovò a Flores i resti umani che cercava, né di sapiens né di erectus , si imbatté nei resti della nuova specie di cui abbiamo detto, raggiungendo così la notorietà.
L’occasione per portare finalmente Mike in Italia arrivò con una conferenza internazionale sull’uso della fisica in archeologia, tenutasi presso l’International centre for theoretical physics (Ictp) di Trieste nel 2006. Gli scienziati che vi parteciparono, in compagnia di qualche archeologo e paleoantropologo, pensavano forse di assistere a uno spettacolo fantasy. Sullo schermo della prestigiosa aula Budinich, dove Paul Dirac faceva lezioni di fisica teorica e Abdus Salam presentò la sua teoria dell’unificazione delle forze, passavano immagini di gnomi con un cervello minuscolo che usavano strumenti di pietra per cacciare elefanti nani, topi giganteschi e dragoni di Komodo. Mike sosteneva che gli Hobbit si erano evoluti da Homo erectus , ma andava dimostrato. Si sarebbe trattato di un noto fenomeno evolutivo: dove le risorse sono più scarse (come su una piccola isola) la selezione naturale favorisce un processo di rimpicciolimento. Questo fenomeno ci fa trovare resti fossili di elefanti nani in Sicilia e di piccolissimi mammut in Sardegna.
Sfortunatamente Mike ci lasciò nel 2013, prima di poter provare le sue idee, ma le ricerche da lui iniziate sono continuate. Alcuni mesi fa si è dimostrato che gli Hobbit si estinsero 50 mila anni fa, in coincidenza con l’arrivo di noi sapiens sulla loro piccola isola («la Lettura», 10 aprile 2016). Ma restava un mistero: chi erano gli antenati di H. floresiensis e da dove venivano? Sembra ora che l’archeologo australiano avesse proprio ragione. In un articolo pubblicato tre settimane fa su «Nature», in cui Morwood è giustamente incluso nella lista degli autori, si parla di quanto appena trovato nel sito di Mata Menge, a circa 70 chilometri da dove era stato trovato il primo Hobbit. Sotto alcuni metri di argilla e materiale vulcanico sono stati rinvenuti un frammento di mandibola e sei denti che appartengono ad almeno tre piccoli esseri umani, molto simili a quelli di Liang Bua.
La cosa interessante è che essi risalgono a 700 mila anni fa. Secondo i ricercatori australiani, giapponesi e indonesiani che hanno condotto la ricerca, il ritrovamento conferma che H. floresiensis fosse proprio un prodotto del cosiddetto «nanismo insulare». Gli strumenti litici di un milione di anni fa, scoperti da Morwood e collaboratori nel centro di Flores, appartenevano a degli erectus che potevano essere finiti sulle spiagge di Flores aggrappati a tronchi d’albero sull’onda di uno tsunami, fenomeno non raro in quella parte del mondo. La trasformazione evolutiva da umani del tipo erectus , alti un metro e settanta e con un cervello di nove etti, a piccoli gnomi, alti meno di un metro con un cervello di quattro etti o poco più, avvenne quindi in tempi relativamente rapidi: 300 mila anni, un fenomeno non nuovo in natura. Circa 100 mila anni fa, nell’isola di Jersey esisteva un cervo le cui dimensioni si ridussero, in soli 6 mila anni, a un sesto di quelle originarie dei suoi antenati comparsi sull’isola.
Ci si chiede quali altri esperimenti evolutivi riguardanti la specie umana siano avvenuti nel laboratorio delle migliaia di isole dell’arcipelago indonesiano nel passato, quando cambiavano rapidamente sia il clima che la biogeografia. Non è detto, infatti, che la storia umana possa essere raccontata tutta in base ai reperti rinvenuti in Africa. L’idea che vi sia stato un progresso lineare, capace di trasformarci da scimmie bipedi in uomini dotati di strumenti litici e poi in umani moderni, dotati di pensiero simbolico, può essere fuorviante o comunque ammettere numerose eccezioni.
I resti umani di Flores suggeriscono che non esiste una direzione evolutiva preordinata, legata alla crescita del corpo e del cervello, per descrivere la nostra storia, e che anche per gli umani ci può essere un «rovesciamento evolutivo», rispetto a quello dominante, che ammette varianti inattese e contribuisce alla biodiversità.

Repubblica 26.6.16
I tabù del mondo
Il fascino perduto del corpo nudo ai tempi del porno
Oggi tutto è permesso e non ci sono più confini
Però il desiderio per accendersi ha bisogno di immaginare ciò che intravede oltre i vestiti
Nascondere le parti intime è un’esigenza dell’uomo: il Dio biblico ricopre di pelli i corpi di Adamo ed Eva dopo averli cacciati dal Paradiso terrestre Ma se è il senso del pudore a distinguerci dagli animali che cosa succede quando non esistono limiti? Il rischio è che si esaurisca ogni slancio erotico
di Massimo Recalcati


Se il tabù definisce una zona proibita, inaccessibile, impossibile da violare è perché solamente dove esiste senso della Legge può esistere senso del tabù. Il corpo animale è privo di tabù. Innanzitutto di quello che ha per secoli dominato la vita individuale e collettiva dell’Occidente, quello della nudità. Il corpo animale è sempre nudo; non ha senso del pudore, né della vergogna. La nudità è per lui una condizione naturale e l’istinto la bussola che orienta senza incertezze la sua vita. Diversamente da quello dell’uomo il suo corpo non deve rispondere all’esigenza, socialmente condivisa, di ricoprire la nudità. È il corpo umano, che è assoggettato all’imperativo di ricoprirsi, abbigliarsi, vestirsi. È una delle condizioni basiche che definiscono il processo di umanizzazione della vita: non si può andare nudi per strada. L’”annientamento dell’animale”, il suo “sacrificio” – come direbbe Kojève lettore di Hegel – , traccia il cammino della vita che diviene umana. Sono i corpi di Adamo ed Eva che il Dio biblico ricopre di pelli con un gesto di tenerezza estrema dopo averli scacciati dal giardino terrestre. Al tempo stesso però, rovesciando i termini della questione, il corpo dell’animale essendo sempre nudo non è mai veramente nudo.
Se la nudità è qualcosa a cui si può giungere solo dopo una svestizione, se la sua manifestazione implica la caduta dei veli, allora il corpo animale non può incontrare mai il senso più profondo della nudità. Per questo nel mondo animale esiste una vita sessuale, ma non può esistere alcuna forma di erotismo. L’erotizzazione del corpo necessita la sua velatura. Il desiderio per accendersi esige una distanza, una lontananza dal suo oggetto. È quello che distingue l’immagine erotica – che è sempre almeno un po’ vestita – da quella brutalmente pornografica – che riproduce in primo piano la meccanica degli organi genitali. Il desiderio erotico non si mobilita dalla vista della nudità, ma solo dalla nudità intravista. È necessario che il corpo sia un po’ coperto per poter apparire davvero nudo. Un dettaglio scoperto del corpo è più attraente che la vista di un corpo nudo nella sua interezza. Il nudismo è totalmente privo di erotismo. Persegue illusoriamente un naturalismo che vorrebbe poter animalizzare l’uomo dimenticando che l’abito del linguaggio non è un abito che l’essere umano può togliere o mettere a suo piacimento. Il senso dell’osceno non scaturisce dall’erotismo – non c’è alcuna oscenità nella vita erotica –, ma nel corpo che vorrebbe manifestarsi come corpo nudo, libero dal linguaggio, corpo naturale. È quello che ritroviamo nel dipinto di Gustave Courbet L’origine del mondo dove appare un corpo anonimo di donna a gambe spalancate che mostra il proprio sesso senza alcun velo.
L’ideologia nudista non si accorge che nel nostro tempo l’oscenità non deriva più da una cultura repressiva che rende il corpo nudo un tabù, ma da un eccesso di nudità del corpo che rischia di estinguere lo slancio erotico del desiderio. È una constatazione facilmente condivisa: il nudo è divenuto un oggetto troppo prossimo per suscitare il desiderio. È il paradosso del tabù della nudità: quando il corpo nudo vuole essere nudo non è più un corpo nudo, ma solo una vita nuda, o, come direbbe Agamben, una “nuda vita”. Ne abbiamo una conferma in questa stagione dove le spiagge si popolano di corpi svestiti. Che cosa troviamo veramente osceno? Non certo l’erotismo o la bellezza del corpo, quanto piuttosto la presenza del corpo brutto, sgraziato, che, senza cura e senza alcun velo, si mostra placidamente perduto nella sua nuda vita: dormire, mangiare, sudare, esporsi al sole, bagnarsi nel mare. È quello che accade assai più traumaticamente negli ospedali dove la malattia strazia, aggredisce i corpi denudandoli senza pietà. Qui la vita, diversamente che nella routine confortevole della spiaggia, è davvero drammaticamente nuda. Come accade nell’atrocità della guerra quando la sua violenza “sveste” brutalmente i corpi: viscere scoperte, ferite, mutilazioni. Il corpo è davvero osceno quando diviene un presagio di morte. È quello che Schindler’s List di Spielberg ci ha mostrato nell’ammucchiata caotica dei corpi degli ebrei nei campi di sterminio spogliati e sospinti a forza verso il forno crematorio. Corpi che offrono il senso più radicale della nudità come inermità, vulnerabilità, passività, assenza di protezione; esposti inesorabilmente alla morte. Non è forse questo reale innominabile – quello della morte – che il sesso scoperto de L’origine del mondo di Courbet vorrebbe ricoprire? È quello che insegna un racconto di Lacan che un giorno ritornando dalla sua casa di campagna di Guitrancourt verso Parigi incontra, in una strada solitaria, verso sera, un coniglio cieco che staglia la sua sagoma sullo sfondo del tramonto e che ignaro gli appare senza difese rivolto ai fari dell’automobile in arrivo. Non è qui la nudità erotica ad essere in primo piano, ma quella dell’esistenza, della nuda vita. Un animale ferito, malato, ci appare sempre un po’ più umano. La sua vita non è più la vita piena dell’istinto, ma è vita mutilata, offesa, ferita dal linguaggio come accade per la vita umana. Non siamo tutti simili a conigli ciechi persi su di una strada di campagna e rivolti, smarriti, verso il tramonto?

Il Sole 26.6.16
Populismo e democrazia
Il popolo è sovrano se vota «come deve»
di Luca Ricolfi

qui

Corriere 26.6.16
Gianni Cuperlo
Matteo usa il lanciafiamme, io l’estintore»
Monica Guerzoni


ROMA Sulla ricerca di una via di scampo dal terremoto di Brexit, Renzi ha il pieno sostegno della minoranza. Sul governo e sulla crisi del Pd, invece, la sinistra non allenta la presa. «Un partito non è fatto di chi dirige e di chi rema contro — ha ammonito Gianni Cuperlo all’assemblea di Sinistradem, a Bologna —. È una caricatura che ha creato anche danni». L’obiettivo dichiarato non è defenestrare il premier o disarcionare il segretario, ma «dare una mano» per rafforzare il Pd. Da giorni filtrano indiscrezioni in vista del possibile ricambio in segreteria e Cuperlo riprende una battuta di Vasco Errani per invitare Renzi a leggere più in profondità la sconfitta: «Non si tratta di fare lo scambio delle figurine Panini. Qui è accaduto che una parte significativa delle persone che avevano votato a sinistra non hanno più fiducia in noi». Quindi basta scagliarsi «contro questo o quello, fosse pure il segretario», bisogna cercare le soluzioni assieme. E se Renzi aveva minacciato di impugnare il lanciafiamme, l’ex presidente del Pd reagisce con l’arma dell’ironia: «Abbiamo degli ottimi estintori...». La svolta choc della Gran Bretagna avrà inevitabili ripercussioni anche sul piano della politica interna. Roberto Speranza, anche lui a Bologna, promette «grande sostegno» e si aspetta dal premier «una battaglia vera» in Europa, in questi giorni decisivi per il destino dell’Unione. E Pier Luigi Bersani, con un post su Facebook carico di presagi e rimproveri, chiede al Pd di organizzare «una discussione seria» su come reagire alla Brexit: «Prendiamoci intanto una lezione. Quando i governanti si specchiano negli establishment , quando non sanno leggere la realtà e se la figurano secondo le loro comodità, allora preparano il disastro». La minoranza si aspetta che Renzi riveda la strategia rispetto al referendum costituzionale e non si stanca di chiedere al premier di cambiare la legge elettorale. «La combinazione tra referendum e Italicum non funziona — ribadisce Cuperlo —. Mi auguro che il segretario sappia raccogliere questo appello». Il che, per il leader di Sinistradem, renderebbe meno accidentato il percorso del referendum costituzionale. Sinistra Italiana sta raccogliendo le firme per il No e non guarda di buon animo alla possibilità di uno slittamento dei tempi. Alfredo D’Attorre chiede a Renzi di smentire «nella maniera più categorica» la presunta intenzione di rinviare il referendum, per convocarlo «quando più gli conviene».

Corriere 26.6.16
Rinasce il Pci tra falce e martello e no alle riforme

Vogliono ripartire da San Lazzaro, a Bologna, a meno di 10 chilometri da dove, 26 anni fa, il partito si avviò allo scioglimento con la svolta della Bolognina. Oggi all’Arci San Lazzaro si chiude la tre giorni di Costituente comunista. Obiettivo: ricreare il Pci. I 571 delegati sono arrivati da tutta Italia per eleggere il comitato centrale e, oggi, il segretario. In pole Mauro Alboresi, ex Cgil e Pdci: l’assemblea, spiega, è frutto di un appello di oltre mille persone che ha portato all’associazione per la ricostruzione del Pci e, dopo un anno e mezzo di iniziative sul territorio, alla costituente. Tra le bandiere rosse con falce e martello, nuove battaglie, come il no al referendum, incrociano gli sguardi di Lenin e Che Guevara. ( Ansa )

Repubblica 26.6.16
Walter Veltroni.
“Nazionalismi e paure la democrazia rischia e in Italia le divisioni non sciupino il Pd”
Pericolo guerra
C’è una parola che non vogliamo pronunciare: ma l’ha detta papa Francesco parlando di Terza Guerra Mondiale
Nei consensi ai Cinquestelle c’è anche tanta sinistra non sono voti perduti, a patto di sapere cambiare
intervista di Sebastano Messina


Walter Veltroni ha guidato il Partito democratico dal 2007 al 2009. In precedenza è stato sindaco di Roma dal 2001 al 2008. Ha ricoperto il ruolo di vicepremier nel governo Prodi del1996

“Bisogna farsi carico del disagio sociale e riuscire a progettare una società nuova Dal governo cose importanti, ma a Renzi dico di riflettere sull’Italicum”
Più inclusione. Lo dico a tutti, bisogna tornare ad agire in profondità e ad avere una maggiore capacità di inclusione

ROMA. Quando gli chiedo cosa pensi delle tempeste politiche che investono l’Europa, Walter Veltroni mi risponde aprendo un libro che ha sulla scrivania: «Vediamo distintamente come tutte le cose che una volta ci apparivano salde e sacre, si siano messe a vacillare: verità e umanità, ragione e diritto. Vediamo forme di governo che non funzionano più, sistemi di produzione che agonizzano. La rimbombante macchina di questo nostro tempo formidabile sembra in procinto di incepparsi». Poi posa il libro,
La crisi delle civiltà.
«Johan Huizinga scriveva queste parole nel 1933. Molti pensarono che esagerasse. Ma poi scoppiò la guerra, e lui morì nel 1945, prigioniero dei nazisti».
Lei pensa che il vento di follia che soffia sull’Europa sia lo stesso degli Anni Trenta?
«Ci sono dei momenti della storia in cui, per slittamenti progressivi, improvvisamente diventa plausibile l’implausibile. C’è una parola che non possiamo e non vogliamo pronunciare, ma l’ha pronunciata Papa Francesco quando ha parlato di una Terza Guerra Mondiale. L’Europa è stato il grande antidoto alla guerra: popoli che si erano fatti la guerra scoprivano la bellezza della pace, gli ex nemici si stringevano la mano. Ma oggi, purtroppo, le cose stanno cambiando. E quello che più mi spaventa è la totale assenza di quella che il cardinal Martini chiamava “l’intelligenza complessiva delle cose”. È come se ci fossero davanti a noi dieci indizi di un assassinio, e la politica fosse come l’ispettore Clouseau, che non riesce a metterli insieme. La vittoria di Trump alle primarie, il voto austriaco, la Brexit, l’ascesa di Marine Le Pen, i muri che risorgono nell’Est Europa. Che altro deve accadere, perché ci si renda conto che siamo in un tempo della storia nuovo, carico più di pericoli che di possibilità? ».
Qual è il principale pericolo che lei vede, leggendo questo quadro di indizi?
«La crisi della democrazia. Perché non è detto che la democrazia, che è necessariamente processualità e delega, in una società così frenetica, presentista ed emotiva sia la forma di governo considerata naturale. Nascerà alla fine un pericoloso desiderio di semplificazione dei processi di decisione ».
Cosa si può fare per allontanare questo pericolo?
« Accelerare nella direzione degli Stati Uniti d’Europa. Ma subito, perché i margini di tempo non sono infiniti. Altrimenti un’Europa fredda, lontana e censoria che non accende nessuna speranza verrà sancita ,nella sua fine, dal dilagare di questo virus nazionalista e antieuropeo».
Cosa c’è, nel vento di destra che soffia da una parte all’altra del pianeta?
«Oggi il mondo è dominato dalla precarietà e dalla paura. Un mix pericolosissimo. E se la politica non si rende conto che siamo all’alba di un nuovo mondo, continuerà a pensare che si possa essere di sinistra o di destra come lo si era nel Novecento. Oppure, errore ancora più grave, comincerà a pensare che non esistano destra e sinistra. È vero che l’orizzonte socialdemocratico è in crisi, perché è finita la società nella quale erano inscritte le idee del socialismo, del comunismo e della socialdemocrazia, ma non è finita la missione storica della sinistra: quella di essere giustizia sociale, equità, opportunità, diritti».
Ma a volte si ha la sensazione che sia la sinistra, per prima, a non rendersene conto… «Perché, finite le ideologie, ha smesso di immaginare un mondo diverso. E oggi è schiacciata sul presente, sembra una forza che garantisce la continuazione di una società che ha un livello di ingiustizia, di diseguaglianza, di precarietà, e dunque viene investita dalla protesta della gente. Ma è possibile che la sinistra non abbia l’intelligenza, la modernità, il coraggio di progettare una nuova società?».
Nel giro di cinque giorni abbiamo avuto la vittoria a sorpresa di Grillo nelle città e il voto inglese per l’uscita dall’Europa. Quale di questi due risultati è più allarmante, per un italiano di sinistra?
«Il secondo, senza dubbio. Diciamoci la verità: nel voto ai Cinque Stelle c’è tanto voto di sinistra».
È un voto perduto, per la sinistra?
«No, non lo è. È un voto che racconta di uno smarrimento, di una protesta, di una rabbia. Ma non è perduto. A condizione che la sinistra sappia cambiare».
Lei è stato il primo segretario del Pd, oltre che uno dei suoi fondatori. Il partito oggi è nella tempesta, e c’è chi minaccia di non votare più neanche la fiducia al governo Renzi. È svanito il sogno del Partito democratico?
«Io mi ostino a pensare che quel sogno non sia svanito. Penso che se non ci fosse il Pd il Paese sarebbe esposto a rischi molto maggiori. E allora, non da fondatore ma da italiano dico: non sciupate il Pd. Non dividetelo. Lo dico a tutti, a chi ha le massime responsabilità e a chi si oppone. E aggiungo tre cose. Primo, questo governo deve essere consolidato: se noi oggi avessimo in Italia una crisi di stabilità, le conseguenze sarebbero devastanti. Secondo, bisogna esercitare la funzione di guida del Pd, avendo una maggiore capacità di inclusione. Questo non è un momento in cui basta dire: io ho fatto. Bisogna farsi parte del disagio sociale. Bisogna farsi carico del fatto che c’è un dolore, un malessere, esteso in tutta la popolazione, e assumerlo dentro di sé».
E la terza cosa?
«Il Pd è il Pd. Non deve essere la prosecuzione dei vecchi partiti e delle vecchie correnti. È una cosa nuova, è la sinistra riformista del nuovo millennio».
Eppure perde voti. Perché?
«Per molte ragioni. Oggi perde voti chiunque è identificato col potere. Il governo ha fatto cose importanti, penso innanzitutto alla legge sulle unioni civili. Ma la recessione agisce in profondità. Ed è a quella profondità che la sinistra riformista deve tornare».
Per esempio facendo propria, magari rimodellandola, la proposta grillina del reddito di cittadinanza?
«Tutto quello che dà stabilità, sicurezza e tranquillità alle famiglie italiane in questo momento è da studiare . Il welfare va ripensato. Noi dobbiamo evitare che il cittadino moderno sia lo spettatore rabbioso di qualcosa che sente sempre più lontano».
Cosa dovrebbe fare Renzi per recuperare il consenso degli italiani?
«Per esempio evitare che un referendum sul rafforzamento della democrazia diventi un’elezione politica camuffata. È la prima cosa da fare. Anche perché altrimenti quelli che sono contro il governo finiscono con l’essere , numericamente, più di quelli a favore. Poi, alla luce di quello che sta accadendo, bisogna fare una riflessione sulla legge elettorale».
Lo dicono in molti, ma non tutti chiedono la stessa cosa. Come bisognerebbe cambiarla?
«Bisogna tener conto che oggi il Paese non è più bipolare ma tripolare. Le soluzioni possono essere diverse. Purché non venga meno il punto dal quale si è partiti: dalle elezioni deve uscire un governo, lo devono scegliere i cittadini e deve durare per cinque anni. Lo scettro deve tornare agli elettori, e non alle alchimie dei partiti. E’ la democrazia che deve rigenerarsi. Il ricorso alla democrazia diretta come fuga dalla responsabilità della politica è sbagliato. Immagini se Roosevelt avesse promosso un referendum per chiedere se i giovani americani dovevano andare a morire per la libertà dell’Europa…».

Corriere 26.6.16
«Così cambio i talk show. Raitre una rete del Pd? Basta con le appartenenze»
di Paolo Conti


Daria Bignardi, lei ha cominciato a fare tv con Angelo Guglielmi e ora sta cambiando la sua rete. Che identità avrà Raitre, in una Rai che sembra ancora alla ricerca di una strada? Sempre di sinistra, com’è nel Dna della rete?
«Raitre sarà la rete della realtà: e come tutte le reti Rai, forse di più, sarà profondamente di servizio pubblico, quindi dell’inclusione e della sperimentazione. Il pubblico di Raitre è fedele, colto, esigente e, mi si passi il termine, “impegnato”. Ha sempre avuto molto e molto bisogna continuare a dargli con un’offerta viva».
Ma Raitre resterà la rete «di riferimento» del Pd?
«Naturalmente non può esserci un’appartenenza diretta a un’area, soprattutto oggi che siamo usciti dalle divisioni manichee: le sembra facile indicare quali siano i valori esclusivi di un partito o dell’altro? Tutto è uscito dai vecchi confini rigidi e il racconto del Paese, e della politica, deve fluire liberamente...».
Lei ha decretato la fine di «Ballarò» chiamando, tra le critiche degli interni Rai, Gianluca Semprini, noto volto Sky. Carlo Freccero ha definito «un suicidio» l’idea di collocarlo contro Giovanni Floris su La7.
«Il talk show fiume di tre ore, che ingloba più e diversi temi, è una formula finita, lo disse per primo Michele Santoro che ne fu il fondatore. Massimo Giannini ha avuto il grande merito di tenere dritta la barra di Ballarò in un clima di emergenza. Ma ora occorre cambiare. Io ho avuto poco tempo per decidere. Studiare sperimentazioni richiede tempo, prove, valutazioni. Per rispetto della Rai dovevo andare sul sicuro. Semprini è una certezza professionale e umana. Guiderà una formula da 90 minuti agile, innovativa, in discontinuità coi vecchi talk show interminabili. Capisco l’obiezione di Freccero. Perderemo qualcosa in termini di share, a causa della lunghezza. Ma era tempo di cambiare rotta e credo che sia Rai3 a dover iniziare a farlo».
Massimo Giannini sembra perplesso, irritato e deluso.
«Non credo sia così. Stiamo mettendo a punto una proposta in una collocazione prestigiosa. Credo che per una personalità come la sua possa e debba esserci spazio nella Raitre che ho in mente».
E gli interni Rai? Sempre penalizzati? Il consigliere Franco Siddi spera che sia l’ultima volta in cui si punta a un «pronto subito» esterno a scapito degli interni...
«Stiamo preparando un nuovo programma autunnale dedicato alle elezioni americane che racconta gli elettori di Trump e di Hillary Clinton. Sarà condotto da Iman Sabbah di Rainews 24. E ho in preparazione almeno altri due progetti per eccellenti professionisti interni».
Fabio Fazio guiderà «Rischiatutto» il giovedì sera e terrà la domenica sera. E il sabato in prima serata?
«Tutti i cantieri di Raitre si stanno rinnovando, anche Fazio che lancerà il suo Rischiatutto del giovedì e proporrà una formula ripensata di Che tempo che fa la domenica sera con un ruolo nuovo per Luciana Littizzetto. Il sabato in prima serata arriverà Massimo Gramellini con una classifica delle dieci parole della settimana e un ospite in studio».
La nostra società è attraversata dal tema della diversità...
«Proprio della diversità, in tutte le sue declinazioni, parlerà Filippo Timi con Skianto , in seconda serata».
Lei darà molto spazio a «Gazebo». C’è il tentativo di intercettare il pubblico del web, che ignora la Rai?
«Esatto. In questo la squadra di Zoro è formidabile. Piena conferma della seconda serata il venerdì e striscia quotidiana martedì-venerdì dalle 20.10 alle 20.40 col racconto della giornata attraverso i social. Satira ma anche contro-informazione. Risorsa preziosa per intercettare nuovo pubblico: il nostro ha un’età media di 60 anni».
Gad Lerner guiderà «Islam Italia». Non teme critiche politiche?
«No, perché sarà l’analisi sul campo di un Islam europeo e italiano in tutte le sue differenze. Altrimenti si parla di Islam solo a causa del terrorismo. Invece quel mondo ci riguarda e dobbiamo comprenderlo».
E gli altri volti storici?
«Rappresentano le certezze: Lucia Annunziata, Milena Gabanelli, Riccardo Iacona, Alberto Angela, il ritorno di Corrado Augias. E poi il grande romanzo popolare di Federica Sciarelli. Tutte le questure europee ritengono Chi l’ha visto un punto di riferimento per le persone scomparse. Più servizio pubblico di così...».

La Stampa 26.6.16
Laura Boldrini
“In piazza, in tv, in periferia. Una mobilitazione generale per costruire un’altra Ue”
La presidente: stop austerità, ripartire da welfare e diritti
intervista di Ugo Magri


Presidente Boldrini, che ruolo possono avere i Parlamenti dopo Brexit?
«Devono avere un ruolo di primo piano e per questo ritengo che dobbiamo prendere l’iniziativa. È tempo di agire senza indugi. Dopo i risultati, ho sentito al telefono i presidenti del Bundestag, dell’Assemblea nazionale francese, della Camera lussemburghese. Con loro avevo promosso da settembre 2015 un documento comune per una maggiore integrazione europea. Abbiamo confermato l’intenzione di andare avanti lungo quella strada».
Soltanto voi quattro?
«No, il documento reca 15 firme, in rappresentanza di altrettante assemblee elettive. Sostiene che ci vuole più Europa, che occorre una politica economica più attenta all’impatto sociale e che superi le misure di austerità. Soprattutto, afferma che noi crediamo nel processo federale, in una vera federazione europea. È un’idea che ho maturato quando la Grecia rischiava di essere espulsa dall’Eurozona, mentre il mare si riempiva di cadaveri di migranti. Avevo sentito forte il bisogno di rilanciare il progetto europeo per dare una prospettiva ai nostri figli. Adesso il referendum britannico suona come un segnale di allarme, un “SOS Europa”. Quest’Europa o cambia o morirà. I Parlamenti hanno una responsabilità importante, e noi la vogliamo esercitare. Bisogna riuscire a coinvolgere le persone».
In che modo?
«Spiegando che non esiste solo questa Europa, quella sotto i nostri occhi: è una versione che non ci piace. Occorre invece ripartire da Ventotene, dove nacque l’idea di Spinelli degli Stati Uniti d’Europa: diritti, solidarietà, Stato sociale. Andrò là a fine agosto con i giovani federalisti che mi hanno invitato, e magari qualche altro presidente di assemblea si unirà a noi per discutere insieme del futuro dell’Europa e anche delle due velocità».
Lei è favorevole?
«Per me è quasi pacifico che si debba procedere a due velocità. Gli Stati che non vogliono fare un passo oltre, liberi di fermarsi. Ma non devono più impedire di andare avanti a coloro che invece credono in una Europa federale. Occorre un orizzonte politico diverso e per elaborarlo occorre coinvolgere i cittadini. Sul sito della Camera, da febbraio, ho lanciato una consultazione pubblica. Sette domande per chiedere che cosa non va dell’Unione e come si vorrebbero che fosse. Istituirò un comitato di saggi per rielaborare e rilanciare le proposte. Chi sta a guardare senza agire, diventa complice della disgregazione. Serve una mobilitazione generale, dobbiamo andare nelle scuole, nelle università, in tivù, nelle piazze, nelle periferie. È lì che dobbiamo riuscire a fare apprezzare la nuova idea di Europa. Ripartendo dalla lotta alle diseguaglianze, da quella per i diritti. Fondamentale sarà rovesciare le politiche di austerità alla base di questa crisi».
Che altro?
«Serve anche una gestione europea condivisa dell’immigrazione, contro i populismi xenofobi che spacciano ricette fasulle. Io dico no alla cultura dell’odio che snatura la politica e crea cortocircuiti. A maggio ho istituito a Montecitorio una commissione di deputati ed esperti contro l’odio nel discorso pubblico e contro le minoranze. Voglio dedicare questa commissione a Jo Cox, che dell’odio politico è stata vittima».
Nel 2017 saranno 60 anni dai Trattati di Roma. Tempo di celebrazioni?
«Spero che l’anniversario coincida con una vera occasione di rilancio. Per esempio, attraverso un piano straordinario di investimenti per creare lavoro. Introducendo un “Reddito di dignità” europeo, che significherebbe: l’Europa non lascia indietro nessuno. Ci vorrebbe una grande conferenza sul debito, e ridiscutere anche il “fiscal compact” e le ricette recessive fin qui adottate. Più che cerimonie, servono piani concreti. Per far capire a tutti che l’Europa è un valore aggiunto, rinunciarvi non si può e non si deve».

La Stampa 26.6.16
Se Londra mette in discussione l’idea di libertà
di Massimiliano Panarari


E terremoto è stato. Così, se la Brexit è il combinato disposto di una serie di nuove fratture sociali e politiche (oltre che anagrafiche) e di leadership miopi e dal fiato corto, per ritornare a nutrire un po’ di speranza occorre probabilmente rivolgersi alla filosofia. Nel senso letterale del termine, quello del pensiero, che in Gran Bretagna, nelle sue manifestazioni più alte, ha sempre riconosciuto la centralità della libertà.
Ora, voltare le spalle a un’Europa considerata terra di regolamentazioni e burocrazia ossessive, come hanno voluto fare i votanti del «Leave», può legittimamente venire ritenuta come una rivendicazione di libertà. Ma proprio la migliore filosofia britannica contiene una nozione di libertà alternativa, fondata su un’idea dell’interrelazione e dell’interdipendenza - oltre che della responsabilità - di qualità assai differente dalla volontà solipsistica di bastare a se stessi. Una visione, che si identifica nel liberalismo inglese capace di confrontarsi con quello continentale, nella cui elaborazione la libertà è salvaguardia dell’individuo da qualunque forma di coercizione - compreso il potere delle maggioranze - ed espansione delle libertà positive e dei diritti (la cui contrazione sta infatti pesando molto, in negativo, sulla fiducia nel futuro dei cittadini-elettori occidentali). Un liberalismo positivo per il quale, ancora, la democrazia è sempre stata governo di opinione e un insieme di contrappesi e garanzie rispetto alle ingerenze di uno Stato prevaricatore, ma nella piena consapevolezza dell’utilità dell’intervento pubblico per correggere le storture - precisamente come servirebbe oggi di fronte alle domande sociali pressanti che vengono da ceti medi impoveriti e da classi popolari che non riescono a beneficiare della globalizzazione, accomunati dalla richiesta di sicurezza e di politiche efficaci in materia di immigrazione.
La politica inglese ha sempre vissuto di un’oscillazione tra l’egoismo nazionalista (derivante anche dalla condizione di insularità) e una grande apertura (legata al suo essere una potenza marittima e commerciale). In questi giorni, malauguratamente, il pendolo si è fermato sul primo di questi poli e, allora, di fronte agli spaventati calcoli di corto respiro possiamo provare a rivolgerci ai pensieri lunghi. Perché, giustappunto, le matrici della filosofia inglese sono il pragmatismo, da un lato, e il realismo empirico (l’adesione al dato di realtà, e il confronto serrato con la scienza), dall’altro. Tutta la grande, e varia, tradizione del liberalismo britannico - da John Locke ad Adam Smith e Jeremy Bentham, da John Stuart Mill ai positivisti, da Bertrand Russell a Karl Popper (appunto non inglese di nascita) - si è ritrovata nel concetto di società aperta. A sua volta indissolubile dall’idea del mercato, che ha bisogno del talento, mentre alla politica spetterebbe il compito di ridurre la forbice delle disuguaglianze e scongiurare, coi fatti, il dilagare del senso di esclusione.
È di qui che il pensiero liberale deve ripartire per riaprire le frontiere (mentali e geografiche): rilanciando la battaglia per l’allargamento dei diritti, che valgono per tutti e non sono in competizione reciproca. E, così, aumenteranno le chances - e l’appeal - di realizzare una società dell’inclusione.

Repubblica 26.6.16
Un anno perduto
Nel mondo globalizzato chi ha più bisogno di frontiere è chi è più vulnerabile nella libera competizione delle merci
di Nadia Urbinati


LA lunga strada verso Brexit è cominciata insieme ai boat people e alle guerre civili che in questi ultimi anni hanno disintegrato paesi chiave del nord Africa e del Medio Oriente.
INSIEME ai disperati che per mare e per terra cercano scampo dalla fame e dalle guerre cercando rifugio nella ricca Europa. Povertà e mancanza di sicurezza sono beni irrinunciabili e non negoziabili, beni assoluti che siamo disposti a cercare altrove quando non sono disponibili vicino a noi. Nella speranza di trovare porte aperte e non ermeticamente chiuse. La storia dell’Europa del nostro tempo è legata inscindibilmente con quella di questa speranza e di questa disperazione. Dunque: le frontiere sono uno dei fattori che dobbiamo tener presente se vogliamo cercare di capire Brexit.
A partire dalla scorsa estate l’Ungheria ha iniziato — prima tra i paesi europei — a installare barriere di filo spinato per chiudere le frontiere con i paesi balcanici, quasi a farsi porta blindata dell’Unione Europea. Nessuno glielo ha impedito. I paesi dell’Unione hanno criticato quella decisione ma non sarà nei loro poteri quello di intervenire perché le frontiere dell’Europa sono ancora le frontiere degli stati-membri. Un tentativo di politica comune con Frontex — di respingimento dei migranti e, in casi di emergenza, soccorso — e poi un accordo con la Turchia, un paese autoritario e lesivo delle libertà civili e dei diritti umani, per pattugliare le porte ad Est, verso la Siria e i paesi distrutti e destabilizzati dai governi americani con gli alleati occidentali. Le frontiere sono la questione geopolitica sulla quale l’Europa rischia di disintegrarsi. Nata per abbattere le frontiere interne (il prossimo anno si festeggerà il Trattato di Roma che riconobbe ai cittadini di paesi ex-nemici di muoversi oltre le frontiere dei loro stati d’origine) le frontiere sono la sua damnatio memoriae.
Chi ha più bisogno di frontiere, nel mondo globalizzato, è chi è più vulnerabile nella libera competizione delle merci e della forza lavoro, la merce che può essere comperata a bassissimo costo quando le frontiere sono aperte ai disperati della terra, disposti per vivere a salari da fame e al lavoro quasi servo, senza diritti. Tutto questo avviene in Gran Bretagna e in tutti i paesi europei — dove l’Unione non si è in questi anni di crisi infinita impegnata a non far sentire la paura delle frontiere aperte, dove, al contrario, si è speculato sulla mano d’opera serva (pensiamo al bracciantato nelle campagne del nostro meridione).
La responsabilità di Brexit esce dalle frontiere della Gran Bretagna dunque, e non è semplicisticamente imputabile all’irrazionalità di chi l’ha votata — i cittadini impoveriti e ridiventati poveri non hanno tanto interesse a che il loro paese tenga le frontiere aperte. Sarebbe un errore sottovalutare questa legge eterna: la libertà non sta insieme alla destituzione. L’Unione Europea non può per questo andare avanti, oltre Brexit, come se nulla fosse cambiato, come se Brexit non mettesse in discussione la sua miope politica di austerità. Il problema è quindi un problema di frontiere perché è un problema di opportunità sociale ed economica. In questo ultimo anno si è pensato che la costruzione del filo spinato non solo all’esterno dell’Europa ma anche dentro l’Europa fosse la soluzione — una soluzione nazionalista e populista. La risposta non può però venire dalla continuazione dello status quo: il problema dei rifugiati e il problema dell’erosione del benessere dei cittadini europei sono ineludibili e sono legati tra loro. Richiedono un governo politico però.
Il lungo anno di incapacità dell’Europa di trovare una politica comune sulle frontiere e sulle politiche sociali è stato tra i fattori che hanno fatto maturare il sentimento di chiusura in Gran Bretagna e altrove. Sarebbe urgente che in risposta a Brexit l’Europa mostrasse anche la faccia politica e costruttiva oltre a quella bancaria e restrittiva.

Il Sole 26.6.16
In 2 milioni contro Brexit: «Rivotiamo»
Cresce di ora in ora la petizione che chiede la convocazione di un secondo referendum sulla Ue
di Leonardo Maisano


LONDRA La tumultuosa spinta dal basso cresce con ben più di due milioni di cittadini mobilitati per chiedere la ripetizione del referendum in un testacoda che la politica britannica ha già bocciato. I conservatori sono ripiegati su loro stessi, spaccati e incapaci di adottare qualsiasi misura, anche la sostituzione del commissario Jonathan Hill a Bruxelles che sarà scelto dal successore di David Cameron.
I laburisti fanno sapere che di referendum 2.0 non se ne parla. La petizione finirà comunque a Westminster come tutte quelle che raccolgono almeno 100mila firme e innescherà un dibattito destinato a riproporre il duello visto in questi mesi. Il testo è articolato e suggerisce di avviare un nuovo referendum sull’adesione all’Unione fissando la soglia minima al 60% con un quorum non inferiore al 75 per cento.
È lo scenario (vedi analisi) del pentimento, in realtà, poco apprezzato dalla politica britannica. Anche se in queste ore le leadership dei partiti del Regno sono scosse dal rischio dell’azzeramento. L’uscita di scena di David Cameron apre lo scontro fra il leader di Leave, Boris Johnson, il ministro degli interni Theresa May favorevole a Remain ma poco incline alla Ue, il ministro della Giustizia Michael Gove che con l’ex sindaco di Londra ha pilotato il “no” all’Unione. Sono i tre candidati più quotati alla guida dei Tory e alla poltrona di premier, mentre il Cancelliere George Osborne, fino al 22 giugno papabile numero uno, è scivolato in fondo alla lista per l’inevitabile associazione al destino del primo ministro uscente. Gli allibratori lo danno a 30 volte la posta.
Lo scontro sarà tanto duro quanto l’eredità che attende il vincitore, chiamato a sciogliere la matassa europea, muovendosi fra le acrobazie di un partito che ha una forza parlamentare favorevole a Remain e una base elettorale divisa fra pochi eurofili e tanti euroscettici. L’alta tensione sull’Europa indebolisce i Tory, troppo divisi su un tema centrale qualora si arrivasse a elezioni anticipate nei prossimi mesi con quattro anni di anticipo sulla data prevista. E l’incertezza genera sospetto con voci ricorrenti anche sull’autenticità dell’antieuropeismo di Boris Johnson. L’ex sindaco ha approccio estremamente flessibile verso la convinzione politica, riuscendo a modellare attorno all’aria che tira le sua ambizioni di potere. E la sua ambizione è arrivare a Downing Street assai prima di guidare le truppe fuori Bruxelles. Cinico, insomma, molto oltre la media che la professione impone.
Il vincitore rischia di misurarsi con un fantasma. Sul destino di Jeremy Corbyn, leader dell’opposizione laburista, c’è incertezza. Quattro deputati hanno annunciato mozioni di sfiducia per scatenare una nuova corsa alla leadership. Le ragioni, formalmente, sono nello scarso impegno di Corbyn a sostegno di Remain. Non è mai stato troppo convinto dell’Ue, anzi più spesso fortemente critico. Non sull’adesione in sé stessa, ma per le posizioni assunte dai Ventotto nella storia recente.
Il sospetto è che Corbyn abbia trattenuto ogni slancio, frenato ogni emozione, fatto insomma il minimo indispensabile per convincere la sua base a votare Remain. Troppo poco come dimostra l’esito in bastioni storici del Labour e quindi i deputati gli si stanno rivoltando contro.
Sotto traccia riesplode nel partito laburista un conflitto antico, quello fra l’anima più radicale e socialista e l’anima blairiana, brutalmente estromessa da Ed Miliband prima e da Jeremy Corbyn poi. «Non vedo per quale motivo dovrei dimettermi», ha fatto sapere ieri il leader del Labour per poi aggiungere «se ci fosse una nuova sfida sono pronto a candidarmi di nuovo».
Se ci sarà davvero una nuova sfida – e l’andamento del referendum offre un’opportunità unica – lo sfidante più popolare è il blairiano Chukka Ummunna che fece un passo avanti prima della discesa in campo di Corbyn per poi indietreggiare rapidamente. Aveva già avvertito l’aria che tirava sul Paese ? Probabilmente sì. Il naso politico non gli manca.

Il Sole 26.6.16
Un Regno disunito. La leader Nicola Sturgeon decisa a «proteggere il nostro posto nell’Unione», anche a costo di convocare un secondo referendum sull’indipendenza
La Scozia vuole trattative «immediate» con la Ue
di L.Mais.


LONDRA La dissoluzione del Regno Unito accelera mentre Londra cerca di rallentare la procedura di distacco dall’Unione Europea, riaffermando di non avere alcuna fretta di muovere il passo formale.
I nuovi sussulti del terremoto britannico muovono dall’estremo sud al profondo nord, fino alle contee più occidentali, unendo in un triangolo Scozia, Londra e Irlanda del Nord. Avevano detto subito di non poter subire la volontà anglo-gallese, maggioritaria per qualche centinaio di migliaia di voti e ieri gli annunci sono divenuti passi concreti. Nicola Sturgeon first minister del governo autonomo di Edimburgo ha riunito il suo esecutivo e ha confermato che «avvierà subito colloqui con Bruxelles per capire come proteggere il posto della Scozia nell’Unione europea». Nel frattempo ha confermato che cominciano «i lavori per preparare un secondo referendum» sull’indipendenza di Edimburgo. Scenario «altamente probabile», ha detto la leader nazionalista. La strategia messa a punto da Edimburgo è quindi chiara: se non sarà possibile preservare la condizione di membro Ue della Scozia, lowlands e highlands andranno la seconda volta al voto per la secessione dal Regno Unito. L’azione si muoverà in parallelo. Via subito ai colloqui con Bruxelles e via, al tempo stesso, alle procedure parlamentari per mettere a punto la legislazione necessaria per un nuovo referendum nelle terre oltre il Vallo. Nicola Sturgeon ha già chiarito che il quadro creato dalla consultazione del 23 giugno con “sì” all’Europa di scozzesi, nordirlandesi, londinesi e il “no” di inglesi e gallesi, crea «quel contesto di materiale cambiamento» utile e sufficiente per indire un altro referendum sull’indipendenza di Edimburgo.
Molto più problematico resta il contesto dell’Ulster. La chiamata di Martin Mc Guinness, ex comandante della colonna di Derry dell’Ira, esponente di punta dello Sinn Fein e vice premier nel governo locale, per un referendum sulla riunificazione con Dublino, non avrà vita semplice visto il “no” degli unionisti democratici partner nel governo locale e fedeli alla volontà di Londra. La complessità riguarda il riemergere delle tensioni sopite proprio dall’osmosi creata anche dalla Ue fra il fianco sud repubblicano e indipendente e quello nord, sotto la corona britannica, dell’isola. Se lo Sinn Fein insisterà per il referendum si andrà verso una nuova radicalizzazione del clima in Irlanda del Nord. Per il momento Martin Mc Guinness non intende cedere e come Nicola Sturgeon insiste per partecipare alle trattative con Bruxelles ricordando a tutti che l’Ulster vuole restare (57% contro 43) nella Ue.
Un posto al tavolo dei negoziatori lo rivendica anche Sadiq Khan il sindaco di Londra, successore di Boris Johnson. E lo fa mentre una sollevazione popolare sta lentamente trasformandosi da divertissement di un popolo in preda a ripensamenti in un fenomeno significativo. Ci riferiamo alla petizione per dare l’indipendenza a Londra. Change.orgpetition ha raccolto più di 130mila firme di londinesi che si allineano alla richiesta del giornalista James O’Malley di riconoscere uno status particolare alla capitale per consentirle di restare nell’Unione. Divertissement o quasi, per il momento. Diverso è invece l’atteggiamento di Sadiq Khan, assolutamente consapevole che la metropoli britannica non solo produce un quarto del pil nazionale, ma finanzia pezzi importanti del Regno Unito. Il sindaco insiste per partecipare alle trattative con Bruxelles con l’obiettivo esplicito di tenere Londra all’interno del single market. Scenario assai improbabile a meno che la Gran Bretagna non si adegui al modello norvegese (Spazio economico europeo). Un’ipotesi finora esclusa perché la costringerebbe ad accettare le regole del mercato interno, immigrazione compresa e a versare quote importanti al budget Ue, senza avere il potere e il peso di oggi. Eppure Londra è opportuno che cominci a fare i suoi conti perché proprio Oslo rischia di essere l’unica alternativa che le resta. La partenza annunciata di banchieri – da Morgan Stanley a Jp Morgan – verso Dublino o Francoforte si conferma essere ipotesi più che possibile dopo che dalla Banca centrale europea sono giunte ieri altre prevedibili conferme sull’esigenza di possedere il “passaporto” Ue per poter operare nei servizi finanziari del continente. Ovvero essere parte integrante del mercato interno che implica l’adesione alla Ue o l’adozione della costosa via norvegese.

Corriere 26.6.16
La previsione di Soros: disintegrazione inevitabile
di Federico Fubini


Da qualche mese George Soros, a 85 anni, era tornato a gestire attivamente larghe parti del suo fondo speculativo da circa 30 miliardi di dollari, convinto com’era che sui mercati finanziari si sarebbe scatenata una nuova fase d’instabilità. Ha dimostrato di non aver perso la capacità di analisi con la quale aveva previsto la crisi della lira e della sterlina nel 1992: le posizioni che ha preso nelle scorse settimane sull’oro, il bene-rifugio per eccellenza, hanno generato forti guadagni giovedì notte e venerdì.
Ieri però Soros si è dedicato a un’altra attività, quella di commentatore. Su Project Syndicate, il portale che raccoglie gli interventi di quasi tutti i principali commentatori economici del mondo, il finanziare ha descritto il quadro europeo, così come lo vede dopo lo choc di Londra. «Lo scenario catastrofico che molti temevano si è materializzato — scrive Soros su Project Syndicate — rendendo la disintegrazione dell’Unione Europea praticamente irreversibile». La prima vittima del referendum sulla Brexit sarà la Gran Bretagna stessa, a suo parere, ma gli effetti economici e politici sono destinati ad allargarsi a macchia d’olio sul resto del continente: «I mercati finanziari in tutto il mondo resteranno probabilmente in agitazione fino a quando il complicato processo di divorzio politico ed economico dalla Ue non sarà negoziato. Le conseguenze per l’economia reale saranno comparabili solo alla crisi finanziaria del 2007-2008».
Soros si è però convinto che è in particolare in Europa e nell’area euro che si concentreranno i problemi più acuti. «Le tensioni fra gli Stati membri hanno raggiunto il punto di rottura — scrive — non solo sui rifugiati, ma anche come risultato delle tensioni eccezionali fra Paesi debitori e creditori all’interna della zona euro». È qui che il finanziere americano si concentra in particolare sulla situazione dell’Italia, oggi considerata da molti sui mercati il più importante anello debole su cui rischia di scaricarsi l’impatto del referendum inglese. «In Italia la caduta del 10% del mercato azionario in seguito al voto sulla Brexit segnala chiaramente la vulnerabilità del Paese a una crisi bancaria conclamata, che potrebbe portare al potere il movimento populista 5 Stelle già l’anno prossimo ».
La risposta più efficace sarebbe un rilancio immediato dei principali governi: un rapido accordo fra Francia, Italia e Germania per creare un meccanismo finanziario di assicurazione europea all’interno dell’Unione bancaria, e almeno l’inizio di un bilancio comune dell’area per sostenere le economie colpite da uno choc o una recessione. Ma Soros è scettico: la situazione attuale, scrive, «non promette bene per un serio programma di riforme dell’area euro, che dovrebbe includere una reale unione bancaria, una limitata unione di bilancio e meccanismi molto più forti di delega e responsabilità democratiche. E il tempo non è dalla parte dell’Europa».
Inizierà a diventare più chiaro nei prossimi giorni se la lettura di Soros, ancora una volta, sarà stata corretta. Oggi la Spagna torna al voto dopo sette mesi di paralisi politica e nei giorni seguenti i leader europei dovranno dire se sono pronti a ridare credibilità all’architettura europea, e come. Affiancare alla vigilanza bancaria europea dei meccanismi di sostegno europei davvero accessibili è forse il passaggio più urgente (ma per ora bloccato dalla Germania). La sola alternativa per mettersi al sicuro da una crisi bancaria in Europa sarebbe rendere meno punitivi per gli investitori i salvataggi pubblici. In queste ore è intervenuto in proposito Olivier Blanchard, fino a pochi mesi fa capoeconomista del Fondo monetario internazionale e ora al Peterson Institute di Washington. «Le sofferenze bancarie sono salite costantemente e sono tenute a bilancio a valori sostanzialmente superiori ai prezzi di mercato — osserva Blanchard nel suo blog —. Il governo italiano si è dimostrato molto riluttante ad applicare le regole del bail-in», ossia colpire investitori e risparmiatori in caso di aiuto di Stato. L’ex capoeconomista del Fmi conclude: «La credibilità delle regole è in gioco. Vanno applicate, oppure modificate in modo credibile». Uno dei temi, presumibilmente, sul tavolo dei leader europei nei prossimi giorni.

Corriere 26.6.16
Amartya Sen
In democrazia deve decidere chi governa
intervista di Alessandra Muglia


«È un momento storico molto spiacevole, non mi aspettavo questo risultato: capisco la disaffezione per l’Unione Europea, ma uscirne è folle». Assiste sconsolato a un terremoto annunciato, Amartya Sen. Il Nobel indiano per l’economia, con residenza (anche) nella Cambridge britannica, aveva previsto un collasso economico in caso di Brexit. «Questo voto ha conseguenze disastrose soprattutto per la Gran Bretagna —spiega al telefono —. Il crollo storico della sterlina è soltanto un aspetto. C’è il venire meno di tutti gli accordi commerciali sottoscritti da Londra come membro Ue: per reimpostarli occorre tempo, intanto la disoccupazione aumenterà e ci sarà un indebolimento dell’industria e una grande pressione sulla Bank of England, che non a caso si era espressa a favore del “remain”».
Gli avvertimenti degli esperti evidentemente non hanno fatto abbastanza presa su quanti si sentono esclusi dal benessere che l’appartenenza all’Ue avrebbe dovuto portare. Perché?
«La stampa popolare britannica, con quotidiani come il Sun e il Daily Mail , tutti schierati apertamente a favore della Brexit come i loro proprietari, ha remato contro e diffuso l’impressione di un Paese invaso dai migranti».
Basterà questo terremoto economico e finanziario a scoraggiare altri Paesi dal seguire l’esempio della Gran Bretagna?
«L’Unione deve essere molto determinata e chiarire che in Europa o si è dentro o si è fuori e che chi esce non può negoziare per ripristinare i vantaggi di cui godeva prima. Fare concessioni a chi se ne va sarebbe deleterio. Non credo che questo referendum in Gran Bretagna porti necessariamente a un effetto domino. Dipenderà da quanto intelligentemente Bruxelles gestirà l’uscita di Londra».
Come dovrebbe reagire l’Europa per combattere la sfiducia e mantenere la sua integrità?
«Dopo aver affrontato la tempesta Brexit, credo che nel lungo periodo l’Ue debba rivedere le sue politiche e riconsiderare la sua missione, anche alla luce del Manifesto di Ventotene del 1941: le priorità del movimento federalista europeo non erano le banche e la moneta, ma la pace e una graduale integrazione politica e sociale. Credo che la Ue in passato abbia fatto molti errori, incluso quello di adottare l’euro prima di avere un’unione fiscale e politica. La moneta unica non è stato un buon modo per iniziare a unire l’Europa. Ma su questo ritengo che non si possa tornare indietro. Invece all’errore delle politiche di austerità, soprattutto nei confronti della Grecia, si può rimediare».
Come? «Innanzitutto la leadership europea deve riconoscere il fallimento di queste politiche: la teoria che l’austerità avrebbe portato alla crescita non ha funzionato. Credo che le politiche di austerità siano all’origine della grande disaffezione verso Bruxelles in molti Paesi europei, dalla Grecia all’Italia».
Lei ha votato contro la Brexit: ma in presenza di questioni così complesse il referendum non rischia di degenerare in una sorta di abuso populistico della democrazia?
«Bisognerebbe ricorrere al referendum soltanto per questioni semplici e isolate, sennò si potrebbe venire consultati anche per ridurre le tasse, come proposto qualche anno fa in California. In democrazia certe questioni devono essere decise da chi governa ma dopo aver avviato una discussione pubblica, con controllo dei fatti. Negli Usa ci sono delle organizzazioni preposte a questo (i watchdog , ndr ), assenti però in Europa».
C’è chi ritiene che l’Europa senza Londra sarà più forte perché più libera di rafforzare il suo processo federale.
«Senza Londra l’Unione sarà più debole. Economicamente e politicamente. E comunque la non collaborazione del Regno sull’euro è stata una scelta illuminata».

Corriere 26.6.16
Michel Onfray
Ue spazzata via e la colpa è delle élite
di Stefano Montefiori


Il celebre e controverso filosofo francese Michel Onfray, critico feroce — da sinistra — del governo socialista e delle élite europee, ha risposto per email ad alcune domande del Corriere .
Se fosse stato un cittadino britannico, lei avrebbe votato «remain» o «leave»?
«Avrei votato per l’uscita da questa macchina liberale che distrugge tutte le conquiste sociali ottenute da due secoli di lotte sindacali e di progresso sociale. Una macchina che chiamiamo falsamente l’Europa, quando è in effetti un club capitalista che si presenta travestito da grande idea generosa, umanista e progressista. Quel che il capitalismo non è riuscito a fare finché il socialismo totalitario esisteva all’Est, ha potuto farlo grazie alla burocrazia e all’amministrazione di questa Europa del denaro. Il liberalismo si trova paradossalmente imposto in modo autoritario da questa macchina che ha dalla sua parte le élite politiche, mediatiche, industriali, finanziarie, bancarie, mercantili, ma non il popolo che fa le spese di questa dittatura liberale».
Nel campo euro-scettico molte voci, in primis Marine Le Pen, chiedono un referendum anche in Francia e in ogni Paese dell’Ue. Lei è favorevole?
«Fare riferimento a Marine Le Pen mostra che ci si rifiuta di pensare e che si vuole intimidire. Marine Le Pen non è la pietra di paragone rispetto alla quale prendere posizione. Me ne infischio di Marine Le Pen che è la Tsipras francese, stessa cosa con Jean-Luc Mélenchon (leader del Parti de gauche , ndr). Sono a favore di questo referendum, ma vorrei ricordare che in Francia l’abbiamo già avuto, chiesto da Chirac nel 2005: ha avuto esito negativo e Sarkozy dell’Ump e Hollande del Ps hanno disprezzato la scelta del popolo imponendo poi tramite le camere riunite quel che il popolo aveva rifiutato».
Dopo il No del 2005, la Francia torna il Paese chiave?
«La Francia oggi è Hollande e Hollande è un elettrocardiogramma politico piatto. Per ora non ha che un’unica preoccupazione, essere rieletto. Si serve della Francia, non la serve. Se lo riterrà utile da un punto di vista di tattica politica, prenderà delle iniziative. Ma non ha lo stesso peso di Merkel che è l’uomo forte di questa Europa liberale».
Il tema dominante della campagna è stata l’immigrazione. È stato forse un voto soprattutto contro la globalizzazione e l’immigrazione?
«Questa domanda coinvolta e militante assimila il voto contro il liberalismo a un voto contro gli stranieri. L’Europa di cui abbiamo vantato i meriti all’epoca di Maastricht ha fallito: doveva portare la piena occupazione, la fine delle guerre, l’amicizia tra i popoli, il progresso della civiltà; ha prodotto il contrario: messa in concorrenza dei lavoratori, disoccupazione di massa, quattro anni di assedio a Sarajevo, esacerbazione dei nazionalismi, regressioni culturali».
I giovani hanno votato per lo più «remain», mentre gli anziani «leave». Si può parlare di una vittoria della paura contro la speranza?
«Anche questa domanda è militante, partigiana e orientata. Lascia credere che votare contro il liberalismo sia votare contro l’Europa, e anche per la xenofobia, dunque per il razzismo, e quindi significa essere vecchi, dunque antiquati, fuori dal tempo. Si potrebbe aggiungere, perché anche questo fa parte della panoplia che gli euro-beati e gli euro-latri usano contro gli euro-lucidi da loro chiamati euro-scettici , che i pro-Brexit sono anche sotto-istruiti, rurali, ritardati mentali, alcolizzati quando non — è stato detto in Francia — assassini di deputati pro-Ue (riferimento all’uccisione della laburista britannica Jo Cox, ndr ). Da parte mia parlerei di una vittoria di quanti hanno esperienza e memoria contro coloro che, fabbricati da questa Europa che ha gettato la cultura e la storia alle ortiche, si bevono la propaganda che cola dai media di massa».
Qual è stato il peso del populismo in questo risultato?
«Rifiuto questa terminologia. È populista oggi chiunque abbia deciso di dare la parola al popolo, di rendergli il potere che gli appartiene, di ascoltare quel che dice quando gli si chiede in un referendum quel che pensa. Coloro che ricorrono alle parole populisti e populismo sono di solito dei populicidi , in altre parole degli assassini di popoli. Il termine è del rivoluzionario Gracchus Babeuf… Se non volete ascoltare quel che il popolo vuole dirvi, non chiedetegli quel che pensa. Oppure fate come in Francia, chiedeteglielo e poi non tenetene conto. La democrazia è il governo del popolo, attraverso il popolo, per il popolo. E l’Europa liberale è una oligarchia di burocrati al servizio del capitale, non una democrazia: è quel che dicono i popoli quando li si sollecita».
Qual è la portata complessiva di questo voto? Quali conseguenze prevede per l’Occidente?
«Ho appena finito di scrivere un libro di mille pagine che si intitola Decadenza. Vita e morte della civiltà giudaico-cristiana . L’Europa è morta, ecco perché gli uomini vogliono farla, ma non hanno capito che l’Europa era finita dall’apertura delle porte di Auschwitz. Quel che sta accadendo in Gran Bretagna, sono le prime pietre dell’edificio che cadono. Preparate il requiem».

Repubblica 26.6.16
L’ipoteca dei vecchi sul futuro dei giovani
di Alessandro Rosina


DAVANTI a un mondo che cambia e diventa sempre più complesso si può reagire rimpiangendo vecchie sicurezze o impegnandosi a generare nuove opportunità. Le vecchie generazioni tendono a sovrastimare i rischi e a sottostimare il valore delle nuove sfide, ma faticano anche a trasmettere ai giovani stimoli e motivazioni per viverle essi stessi da protagonisti. Questo produce due conseguenze negative, l’ostilità verso i processi di cambiamento da parte dei più anziani e la mancanza di strumenti per orientare positivamente le scelte dei più giovani. Brexit è un esempio di decisione determinata dal peso dei primi ma destinata a pesare sul futuro dei secondi, i quali subiscono in parte impotenti e in parte inconsapevoli.
Chi ha vissuto gli effetti delle guerre mondiali, aveva in mente un’Unione in grado di garantire pace e stimolare relazioni di collaborazione. Gli accordi commerciali e l’allargamento ad Est dopo la caduta del muro di Berlino sono stati impegni accolti con favore dalle generazioni vissute durante la guerra fredda. Acquisiti questi risultati, ci troviamo oggi con un progetto non più sorretto dai motivi iniziali, non più appassionante per le generazioni più mature, non aiutato a diventare coerente con le sfide dei tempi nuovi e con le aspettative delle nuove generazioni.
I dati di varie indagini mostrano in modo concordante come esista un forte atteggiamento critico dei giovani su come è stato sinora realizzato il progetto europeo. Anziché però essere la generazione che lo vede crollare vorrebbero essere quella che lo aiuta a realizzarsi in modo compiuto facendogli acquisire centralità nel mondo. La maggioranza dei giovani vedrebbe positivamente un’evoluzione verso gli Stati Uniti d’Europa, non come insieme di paesi vincolati a stare uniti, ma come casa comune nella quale è più facile costruire relazioni positive ed è promosso attivamente il confronto tra culture ed esperienze diverse.
I dati di un approfondimento internazionale condotto a luglio 2015 nell’ambito del “Rapporto giovani” dell’Istituto Toniolo, mostrano come questo tipo di Europa sia visto favorevolmente anche tra gli under 30 inglesi: quasi il 60 per cento considera importante la possibilità di viaggiare senza vincoli e fare esperienze di studio e di lavoro in altri paesi europei. Gli stessi dati evidenziano però anche la presenza di una fascia consistente di giovani che si sente esclusa dalle nuove opportunità e che di fronte alla crisi, alle difficoltà occupazionali, all’impatto dell’immigrazione, non ha visto dalle istituzioni europee risposte rassicuranti e convincenti.
La Gran Bretagna può anche rimanere fuori dall’Unione ma non possiamo lasciare le nuove generazioni fuori dal futuro che desiderano costruire. Il trauma di Brexit ci suggerisce allora di agire con più determinazione in due direzioni. La prima è quella di migliorare non solo l’inclusione dei giovani, ma ancor più la possibilità di coinvolgerli come parte attiva nella costruzione di un nuovo modello sociale comune. Il punto di partenza è un servizio civile europeo fortemente orientato alle competenze sociali e interculturali.
La seconda è la necessità di allentare il vincolo che impone che il voto di un ottantenne valga come quello di un ventenne su temi che condizionano soprattutto il futuro di quest’ultimo. Tanto più in un’Europa che invecchia e che vede il peso elettorale dei primi aumentare e quello dei secondi diminuire. Varie soluzioni sono possibili, difficili però non solo da realizzare ma anche da prendere semplicemente in considerazione in una società in cui la difesa di vecchie sicurezze fagocita tutto, compreso il futuro dei giovani.
Twitter: @ AleRosina68 L’autore è docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano e curatore del “ Rapporto giovani 2016” dell’Istituto Toniolo

La Stampa 26.6.16
La rabbia irlandese contro Londra
“Tornate a dividere la nostra isola”
La paura dei commercianti: temono il ritorno dei dazi e nuove tensioni
di Maria Corbi


Newry è incastonata tra le Mourne Mountains, uno spettacolo naturale che ha ispirato il mondo fantastico delle cronache di Narnia. Ed è qui, in questo embo verde di confine dell’Irlanda del Nord che si manifesta, dopo il ”Leave” alla Ue, in tutta la sua forza, la riapertura di una ferita antica, la divisione di un popolo, la frustrazione di non essere mai diventati una nazione unica. Poca strada separa l’Europa dalla Repubblica di Irlanda: un confine che fino a venerdì sembrava invisibile, dando a tutti gli irlandesi la sensazione di essere un popolo unito, non sotto la Union Jack, non sotto il tricolore della Repubblica, ma sotto le stelle e il blu dell’Europa. Da molto tempo ormai divisioni e differenze apparivano solo nel cambio delle sterline in euro e nel rispetto dei limiti di velocità, fissati in miglia e chilometri. Pendolari britannici e irlandesi lo attraversano ogni giorno con la sensazione di condividere la stessa isola, la stessa patria: l’Europa.
In una terra dove i giorni della settimana sono ricordo e monito, da quella maledetta “Bloody Sunday” (la “Domenica di sangue” del 30 gennaio 1972 in cui i parà britannici uccisero 14 dimostranti pacifici) al “Good Friday Agreement”, l’accordo del Venerdì Santo, firmato il 10 aprile del 1998 che garantì la pace in Irlanda del Nord. Adesso il ”black friday” , che ha svegliato gli irlandesi fuori dalla Ue, rischia di cambiare scenari e orizzonti politici. E di minare un processo di pace che ha avuto del miracoloso, con la regina Elisabetta che nel 2012 ha stretto la mano a Martin Mc Guiness , vice primo ministro dell’Irlanda del Nord, pur conoscendo il suo passato nell’Ira. «So che cosa la Regina rappresenta», disse Mc Guiness. «E lei conosce la mia storia, ma entrambi eravamo pronti per andare oltre».
Adesso con Brexit si torna indietro, gli equilibri rischiano di saltare. Lo Sinn Fein, ex braccio politico dell’Ira, l’Esercito Repubblicano Irlandese, ha subito chiesto la convocazione di un referendum sull’unificazione con l’Irlanda e l’uscita dal Regno Unito. E Martin Mc Guiness ha dichiarato che «Il voto mostra che la decisione degli elettori inglesi trascina noi e la Scozia fuori dell’Unione europea quindi abbiamo il diritto di esprimere la nostra opinione». Così quella pace faticosamente conquistata e che ha lasciato sul campo 1500 cadaveri, rischia di essere compromessa. «I nazionalisti inglesi hanno messo una bomba sotto il processo di pace», titola l’Irish Times. E qui, a Newry e dintorni, la preoccupazione è tanta. Declan Mc Chesney, commerciante di scarpe da tre generazioni, è diventato un po’ un simbolo di questa paura. «Sono diventato famoso tra voi giornalisti», scherza senza traccia di gioia. «Ho visto morti, violenza, paura e non voglio tornare indietro», dice con la voce rotta. «Sono distrutto dopo questo voto, io non sono inglese, non sono irlandese, sono europeo. Importo scarpe che poi vendo da Italia, Spagna, Portogallo, in un giorno è cambiata la mia vita e le prospettive di affari. Cosa succederà ora ai miei figli? Chi si comprerà le mie scarpe nell’Irlanda del Sud se saranno meno convenienti a causa dei nuovi dazi? E come verrà la gente a comprarsele da me se ci sarà di nuovo la frontiera?». Preoccupazione reale visto che Brexit è stata dettata dalla paura dell’immigrazione e dalla volontà del popolo, una parte di esso, di riprendere il controllo dei confini. E il confine a nord è proprio qui, tra Newry e Dundalk, tra Letterkenny e Derry. Tornerà l’esercito a vigilare come durante i ”troubles”? Per adesso basta il confine percepito a rendere la situazione preoccupante. E non solo per l’economia (che pure è stata abbondantemente foraggiata dall Ue), ma per la pace, visto che negli ultimi 40 anni la Ue ha speso più di un miliardo di euro in queste zone di confine. Fondi che potrebbero essere perduti. A Belfast è stato costruito il Titanic, la nave che si trasformò da sogno a incubo e che potrebbe diventare , qui, una triste metafora della Brexit.

Corriere 26.6.16
«Il paradosso dell’inglese che resta la lingua ufficiale nei palazzi a Bruxelles»
di Dino Messina

«La “Brexit” — dice il professor Giovanni Iamartino, presidente degli anglisti italiani — ha prodotto un paradosso: l’inglese continuerà a essere la lingua più importante dell’Europa, così come lo è nel resto del mondo, mentre la Gran Bretagna è fuori».
Sarà così anche nei palazzi delle istituzioni a Bruxelles e a Strasburgo?
«Le regole dell’Ue prevedono che i documenti ufficiali vengano tradotti in tutte le lingue dell’Unione, mentre le discussioni si svolgano in inglese, tedesco o francese. È difficile che la situazione cambierà e che l’inglese venga bandito come lingua, perché, mi scusi il bisticcio, l’inglese non è più degli inglesi».
Che cosa pensano i suoi colleghi, italiani e inglesi, della Brexit?
«Sono tutti scioccati e si strappano le vesti. Una collega mi ha scritto sconsolata: d’ora in poi per consultare un libro alla British library ci chiederanno il visto? Ma al di là dei professori, pensi a tutti gli studenti dell’Erasmus che non potranno più andare in Inghilterra. Una vera rivoluzione nel nostro costume».
Ne risentirà anche la ricerca?
«Sicuramente. Cesseranno i finanziamenti europei verso i dipartimenti delle grandi università britanniche. I colleghi di Oxford, Cambridge e di altre prestigiose istituzioni erano bravissimi a chiederli e a ottenerli».
Forse è per questo che tra i giovani e i laureati ha vinto il voto favorevole al Remain...
«Sì, ma non è bastato. Si è affermato lo spirito interpretato da una famosa battuta di fine Ottocento: nebbia nella Manica, il continente isolato. I risultati del referendum sono la prova che gli inglesi si ritengono superiori al resto del mondo».
Irlandesi del Nord e scozzesi non sono d’accordo...
«Nell’Irlanda del Nord protestante potrebbe ripetersi quel che è già avvenuto nella cattolica Scozia: un referendum per staccarsi dalla madre patria e restare in Europa… E anche in Scozia, nonostante nel recente referendum i separatisti siano stati sconfitti ci potrebbero essere ripercussioni».
Quale personaggio letterario oggi sarebbe contento per l’affermazione della Brexit?
«C’è un personaggio inventato agli inizi del Settecento dal giornalismo inglese che si chiama John Bull: la perfetta incarnazione dello scetticismo, del sano buon senso, del patriottismo, del malcelato disprezzo inglese nei confronti dello straniero. Un po’ saggio, un po’ ottuso».
E quale sarebbe invece oggi addolorato?
James Boswell nella sua biografia del critico Samuel Johnson, fa dire al suo protagonista che il perfetto gentiluomo inglese, per dirsi tale, deve aver viaggiato nei Paesi del Mediterraneo, culla della civiltà occidentale. Se invece vogliamo restare nella fiction, al di là dei personaggi di Shakespeare, penserei a David Copperfield di Charles Dickens, un orfano che prima di ottenere il suo riscatto viaggia in lungo e in largo per l’Europa».

Il Sole 26.6.16
La narrazione della propaganda
Il fascino perverso del «ritorno alla storia»


Il divorzio della Gran Bretagna dall’Unione europea, sancito da un referendum popolare, è il risultato, in pratica, di un processo di rinazionalizzazione in corso negli ultimi anni, del sopravvento sempre più evidente della ragion di Stato e dei calcoli d’interesse nazionali, che ha finito anche in altri Paesi per incrinare la causa europeista rispetto ai suoi ideali politici e valori fondanti originari. La “rivincita” degli Stati e l’irruzione sulla scena di pulsioni nazionalistiche intrecciatesi a un’ondata di populismo xenofobo hanno determinato infatti, attraverso un “ritorno alla storia” per fini eminentemente strumentali, una rilettura del passato, che, volta alla riscoperta di particolari tradizioni e tratti identitari (quale mai prima d’ora è riecheggiata così tanto nei discorsi pubblici), viene utilizzata a sostegno di prospettive antitetiche alla ragion d’essere dell’Europa comunitaria o a supporto di determinate logiche unilaterali nella governance della Ue. Perciò non importa affatto ai fautori dell’una o dell’altra tendenza che questa sorta di “revanscismo” storico non abbia nulla a che vedere con i criteri peculiari dell’analisi storiografica. Per loro la cosa importante è di trovare comunque il modo di puntellare e divulgare le proprie tesi e suggestioni.
Così appunto è avvenuto ora nel caso eclatante quanto di grave portata della Brexit, i cui alfieri erano giunti a sostenere che la Gran Bretagna, tornando padrona del proprio destino, avrebbe briconquistato un ruolo di forte prestigio nazionale e migliori condizioni economiche e di benessere sociale. Ma, per ritrovare simili prerogative e potenzialità dell’Union Jack, bisognerebbe risalire, di fatto, assai indietro nel tempo, quando il Regno Unito, arroccato nel suo “splendido isolamento”, vantava un grande Impero e una posizione politica preminente su scala internazionale, e non certo al periodo antecedente il suo ingresso nel 1973 nella Comunità economica europea. Ci si chiedeva pertanto come fosse possibile concepire e propagare, in un universo multipolare e globalizzato, un miraggio altrettanto abbagliante quanto anacronistico come quello insularista e autoreferenziale messo in piazza dai paladini della Brexit: se non, appunto, per opportunismo politico e subornazioni demagogiche di facile maneggio. Ma è quanto ora è purtroppo accaduto.
D’altra parte, a proposito di un uso della storia in chiave autoreferenziale, per corroborare in questo caso la propria strategia in sede europea, va detto che la Germania fa ormai testo non da oggi. Poiché ha convertito un episodio saliente della propria esperienza fra le due guerre in un paradigma ferreo di valore generale. L’ossessione per la stabilità finanziaria, che l’ha portata a consacrare un indirizzo di rigida austerità in una sorta di dogma categorico per l’Eurozona, riflette infatti la sua sindrome dell’iperinflazione, un trauma mai dissoltosi del tutto nella “memoria storica” dei tedeschi, da quando negli anni Trenta il dissolvimento del marco in carta straccia concorse alla caduta della Repubblica di Weimar e all’avvento del regime nazista. Da allora sono trascorsi più di ottant’anni ed è quindi lecito chiedersi se il corso della Comunità europea debba ancor oggi essere condizionato da questo specifico retaggio radicato nella cultura politico-sociale della Germania e trapiantato, per opera della Bundesbank e dell’establishment tedesco, nell’assunto dottrinario e pedagogico di una rigorosa ortodossia contabile.
Quanta influenza stiano esercitando certe versioni della propria storia riscritta e proposta in funzione di obiettivi politici contingenti d’immediata risonanza, lo si può riscontrare in ordine alla cesura che è andata manifestandosi recentemente fra alcuni paesi dell’Est e quelli euro-occidentali.
Se è del tutto naturale e plausibile che in Polonia come in Ungheria si voglia riportare alla luce e valorizzare certi tratti distintivi della propria storia, altrimenti rimossi e cancellati durante il lungo periodo della loro satellizzazione al Cremlino, ben diversa è invece la piega che ha assunto negli ultimi tempi quest’opera di recupero e reintegrazione del proprio passato. Poiché ha finito col prevalere, sotto la spinta di una politica anti-immigratoria e di uno strisciante euroscetticismo, una reviviscenza di acri idiosincrasie nazionalistiche associata a quella di vetusti pregiudizi e tradizionalismi culturali. Mentre in Croazia si è arrivati a un passo da una riabilitazione del regime degli “ustascia” a costo di riaprire ferite che si pensava fossero state cicatrizzate dalla storia, in Austria è rispuntata, dopo il successo dell’ultradestra alle elezioni presidenziali, la nostalgia, mai del tutto sopita, per un Tirolo di nuovo unito.
A giudicare da questi e altri casi di “risacca” che è dato riscontrare (come quelli noti delle fortune politiche del Front National e del Partito delle libertà in Olanda), stiamo perciò assistendo, non già alla maturazione di un appropriata coscienza storica per la comprensione dei moventi che hanno portato alla costruzione di una nuova Europa segnata da un disegno omogeneo e da un sentire comune, ma purtroppo al suo esatto contrario, e quindi al rischio di una deriva della Comunità europea.

Il Sole 26.6.16
La violenza cresce nella società ineguale
di  Armando Torno


Chi sono gli agenti dei recenti crimini di massa? Dal 13 novembre 2015, dopo le stragi di Parigi, via via sino a quanto è accaduto nella discoteca Pulse di Orlando pochi giorni or sono, senza contare gli attentati in Medio Oriente o altrove, il più delle volte conosciuti attraverso informazioni sommarie, la domanda se la sta ponendo ogni uomo civile. Se le risposte possono essere diverse e variare tra confessioni religiose e tendenze di parte, di certo siamo dinanzi a qualcosa che i sociologi non avevano previsto, i politici non supponevano e i fedeli mai avrebbero creduto. Eppure tale fenomeno legato alla violenza non è isolato. Sta diventando, con le paure e il suo carico tragico, il problema con cui dobbiamo fare i conti. Continuamente.
Qualcuno sostiene che la violenza è incancellabile nei fatti umani nonostante i progressi di biologia e genetica e che, nonostante gli sforzi tentati, essa continui a trovare ragioni per esprimersi e giustificarsi. D’altra parte non possiamo dimenticare che un secolo e qualche anno fa, nel 1909, uscivano anche in Italia le “Considerazioni sulla violenza” di Sorel, con una introduzione di Benedetto Croce: in quell’opera una parte era dedicata appunto alla “moralità della violenza”, o se si vuole al suo uso “lecito”. Le guerre, del resto, l’avevano legalizzata. E anche taluni movimenti culturali, primo fra tutti il futurismo, mai avrebbero pensato di condannarla. Nemmeno il socialismo lo aveva fatto. Per i massimalisti e per coloro che si ritroveranno in Russia nel primo Stato comunista, la violenza restava «la levatrice di ogni società antica, gravida di una nuova società» (così Marx nel XXIV capitolo del I libro de “Il Capitale); ed anche Engels non lo contraddisse esaltando nell’”Antidühring” la «funzione rivoluzionaria della violenza». È pur vero che dai padri del socialismo o dalle idee di Sorel tanta strada è stata percorsa, e figure come Tolstoj o Gandhi lo dimostrano, ma nei fatti la violenza resta.
Alain Badiou, pensatore e intellettuale francese nato in Marocco, uno dei teorici dell’”antifilosofia”, è convinto che i recenti massacri altro non siano che i «sintomi di una grave malattia del mondo contemporaneo nel suo insieme». Invita nel saggio “Il nostro male viene da più lontano” (appena tradotto da Einaudi, pagg. 96, euro 12) a «pensare le radici» di questa patologia per cercare di comprenderla, senza «cedere a scelte irrazionali». Difficile non essere d’accordo con lui, anche se passare dai propositi ai fatti resta la cosa più difficile quando è in gioco la violenza. Non è un mistero: il pacifismo va sempre considerato un percorso in salita e il secolo scorso ha dimostrato nuovamente che la politica e la guerra mantengono legami, anche quando sussistono le migliori intenzioni. L’Europa oggi crede di non avere più nemici e rifiuta, almeno nelle intenzioni, l’idea di violenza; di fatto la sta subendo, mentre non si capisce quale sia la sua politica. Potrà sembrare un paradosso, ma la realtà è facilmente comprensibile analizzando la semplice cronaca.
Di certo Badiou, del quale riporteremo qualche tesi, offre alcune riflessioni che possono essere poste in evidenza per il loro interesse. I terroristi che stanno facendo vivere quasi in uno stato di guerra aeroporti e luoghi d’incontro, nella loro pulsione distruttrice vogliono reprimere il desiderio di Occidente anche in loro stessi. E l’Occidente, da parte sua, ha sempre più castigato e impoverito la classe media, motore di buona parte dell’economia, che sopravvive tra la speranza di realizzare un modello di società ormai in via di estinzione e la paura dell’arrivo dei diseredati. L’islamismo di chi semina il terrore è considerato, almeno da Badiou, un fattore estrinseco delle loro azioni. Non ne avrebbero bisogno per giustificarle, giacché la violenza nasce dal vuoto della politica e dai continui egoismi, senza contare disorientamenti utopistici e altri dettagli della globalizzazione.
È pur vero, aggiungerà qualcuno, che è l’economia a scrivere l’agenda delle cose da fare, ma il suo lavoro è sempre meno supportato da personalità politiche che sappiano lasciare traccia in un’epoca. E la nostra è quella in cui la popolazione mondiale sta raggiungendo i sette miliardi e mezzo di persone, di cui «il cinquanta per cento non possiede nulla». Un proletariato già fortemente internazionalizzato sta interessando l’intero nostro pianeta, dalla Corea al Bangladesh, dal Mali agli arrivi in Europa. Si muove, chiede, si adatta o protesta, cerca migliori condizioni. Siamo sicuri che tutto può svolgersi senza violenza?

il manifesto 26.6.16
«Sì se puede». Il popolo di Unidos Podemos ci crede
Spagna al voto. Il segreto di Podemos: rileggere la storia spagnola sotto un altro punto di vista, capace di creare quell'attivazione emozionale che oggi porta Unidos Podemos a costituire un esempio di «sinistra» vera e maggioritaria
Pablo Iglesias in un momento di relax sabato alla Complutense di Madrid
© Francisco Seco - AP
di Simone Pieranni


MADRID L’atmosfera di festa unita alla certezza di poter compiere un cambio storico, è già riscontrabile sulle carrozze della metropolitana nei dintorni di Legazpi, la stazione vicina al luogo dove si è svolto l’atto conclusivo della campagna di Unidos Podemos.
Il colpo d’occhio fa effetto: decine di migliaia di persone affollano la spianata di Madrid Rio, pronti a seguire con attenzione tre ore di comizio nel quale si alternano i leader della confluenza di sinistra che oggi sfida alle urne il partito popolare e il partito socialista. Tutti sembrano convinti che il momento più importante sia giunto: in un colpo solo si può superare il Psoe, ottenendo così «il sorpasso» come viene definito in Spagna, e porre in grave difficoltà Mariano Rajoy e il Pp, identificato con corruzione, politiche di austerità e malgoverno.
Nello spiazzo ci sono bandiere viola, per lo più, ma è nutrita anche la presenza di Izquierda Unida e del partito comunista spagnolo. Il pubblico – come sempre agli eventi di Podemos – mischia generazioni, identità politiche e un coro continuo: «Sì se puede». Ci si prova a riparare dal caldo torrido sui lati del palco, contornato da piante di lavanda che fanno estate e voglia di ozio accompagnata da birra ghiacciata.
Ma intorno è tutta un’altra atmosfera, perché si respira la certezza di vivere un momento storico. C’è la volontà di compiere l’ultimo sforzo, il traguardo è lì vicino, o almeno così appare.
Sul palco, alle 21, in un’ottica organizzativa puntuale e che non lascia niente al caso arrivano i protagonisti accompagnati da una musica in crescendo (sottofondo dello spot emozionante ambientato in un teatro): arrivano Pablo Iglesias, leader e candidato alla presidenza del consiglio dei ministri spagnolo e il numero due della formazione politica, Íñigo Errejón. Quest’ultimo è giovanissimo (è del 1983) e gigantesco nella sua preparazione teorica.
Le malelingue lo danno in contrasto, neanche troppo velato, con Iglesias e c’è chi giura che in caso di risultato negativo alle elezioni potrebbe diventare il numero uno. Di sicuro Íñigo Errejón non ama Monedero uno dei fondatori di Podemos che ieri era in prima fila, ma sotto il palco. Salirà solo alla fine, ricordato da Iglesias insieme ad altri che hanno «indicato il cammino».
Insieme a Iglesias ed Errejon c’erano anche la responsabile del programma di governo, Carolina Bescansa, la stella nascente di Podemos, classe 1988, Irene Montero e poi il sindaco di La Coruna Xulio Ferreiro (di Marea Atlantica), Monica Oltra vice presidente della comunità valenciana e Alberto Garzón, leader di Izquierda Unida.
Prima degli interventi, Ada Colau da Barcellona ha salutato in video la folla.
C’erano tutti per l’atto conclusivo di una campagna che – come è stato ricordato – dura ormai da due anni e ha finito per logorare molti. Non Unidos Podemos che tra video e spot elettorale regge l’urto di tre ore di parole e interventi, in un crescendo che si conclude con l’intervento finale di Pablo Iglesias. Prima di lui i suoi compagni e compagne avevano già ricordato gli argomenti salienti della volata finale. Innanzitutto il voto contro il Pp e  la corruzione di un partito che presenta Unidos Podemos come «los malos» e come forza anti sistema.
In secondo luogo sono stati ricordati i punti fermi del programma elettorale: transizione energetica, politiche sociali, del lavoro e di accoglienza per i rifugiati, insieme alla volontà di garantire i servizi essenziali pubblici per tutti: educazione e sanità. Nel cambio attenzione particolare è riservata ai temi del femminismo. Grande protagonista il poeta valenciano Miguel Hernandez, pluricitato.
Il primo momento rilevante della serata è stato senza dubbio l’intervento di Alberto Garzón di Izquierda Unida.
Mentre il pubblico ha cominciato a intonare cori repubblicani, «España mañana sera republicana» (un argomento di tensione rispetto a Podemos che non ha mai spinto troppo sulle istanze anti monarchiche), Garzón ha ricordato che «ci hanno detto che siamo contro il sistema, ma è il sistema che è contro di noi» e ha portato parecchio in avanti il discorso: «Da domani, ha detto, la mobilitazione popolare non deve fermarsi, perché dovremo essere per strada a difendere un governo (un eventuale governo di Unidos Podemos ndr) che sarà ostacolato dalle oligarchie di questo paese».
Il processo di confluenza tra partito eventualmente al governo e forze e pulsioni popolari, sull’esempio sudamericano bolivariano, in Spagna ormai è un dato acquisito. Le persone al comizio finale, tanti i giovanissimi molti dei quali con i genitori, si esaltano alle parole di Garzón perché è chiaro a tutti che se la vittoria è «sulla punta delle nostre dita», come sottolineerà Errejon da lì a poco, è anche chiaro che le forze che si muovono contro questo cambiamento sono tante e subdole.
Ma quello che sorprende – oltre al seguito inter generazionale di questa forza politica – è la capacità di rendere popolari e mainstream teorie e pratiche politiche che da noi vengono ancora definite «radicali» e vengono relegate a un nicchia politica ormai completamente irrilevante. Ieri al comizio finale i toni si sono accesi: contrariamente agli interventi televisivi i leader politici hanno parlato con la volontà di convincere gli ultimi indecisi e con la forza di inchiodare la propria visione politica e futura in un ambito ben preciso della sinistra.
Gli interventi di Errejon e di Iglesias sono stati da manuale e dovrebbero essere ascoltati (è tutto in streaming e disponibile on line) da chi ancora oggi si ostina a paragonare Podemos al Movimento Cinque stelle o altre forze populiste e fondamentalmente di destra che si muovono nel panorama europeo.
Unidos Podemos, innanzitutto, ed è emerso chiaramente ieri, è anti fascista. La memoria storica in Spagna è ancora vicina, il franchismo è caduto solo quarant’anni fa.
Dire «fascismo» in Spagna è quindi qualcosa di «mostruoso» che ancora oggi viene percepito come differenza politica fondamentale rispetto ad altri partiti. E sulle politiche dell’accoglienza la differenza, ad esempio con i Cinque stelle, è lampante: ieri tutti i discorsi hanno sottolineato la necessità di rendere tutti i migranti cittadini con pari diritti come gli spagnoli.
Ma Iglesias si è spinto ancora più in là con un intervento che oggi tutti i quotidiani spagnoli sottolineano per la sua forza ideologica. Iglesias ha provato a collegare Unidos Podemos alla storia spagnola «di cui siamo orgogliosi». Fin dai tempi della resistenza a Napoleone, per arrivare a quella anti franchista. In questo senso Iglesias ha reso popolari e comprensibili a tutti i tre significanti vuoti di Laclau: «patria, ordine e legge».
Sono concetti complicati per la sinistra, ma non in Spagna. Perché Unidos Podemos li ha riempiti di significati su cui ha finito per giocare tutta la sua comunicazione. C’era uno striscione esemplificativo ieri a Madrid: «La patria es la gente».
Non si tratta quindi di minimizzare, di semplificare, anzi: è il contrario. Unidos Podemos ha caricato di significato parole che in Spagna sono sentite, percepite, comprendendo che per arrivare al potere bisogna parlare a tutti, sottolineando le proprie radici: popolari, socialiste, libertarie, anti franchiste.
Il tutto appoggiato su un partito organizzato, disciplinato, capace di gestire più livelli di comunicazione e creare un’attenzione su cui poi riversare tutto il peso ideologico di politiche di sinistra.
Iglesias ha ricordato come l’unico voto utile del 26J sia quello di Unidos Podemos, ha nuovamente ricordato al partito socialista la volontà di formare un governo che sia davvero del cambio e ha esaltato il pubblico quando ha ricordato il 15M – il giorno degli indignados – come un potenziale giorno di festa nazionale.
Sta qui forse il segreto: rileggere la storia spagnola sotto un altro punto di vista, capace di creare quell’attivazione emozionale che oggi porta Unidos Podemos a costituire un esempio di «sinistra» vera e maggioritaria. E lo scarto con altre forze considerate populiste e anti sistema è evidente e lampante.
E se non fosse sufficiente basti la frase finale di Allende con cui Iglesias ha chiuso il suo intervento: «la historia es nuestra y la hacen los pueblos».

il manifesto 26.6.16
Alleanza di sinistra, non populismo o nazionalismo
di Massimo Serafini, Marina Turi


La notizia della Brexit inglese, riporta in primo piano il tema dell’Europa nelle urne spagnole, dove il popolo, uno fra i meno delusi della scelta europeista, può dare una risposta forte alla dissoluzione dell’Unione europea.
Lo può fare dando forza all’impegno assunto da Unidos Podemos, se governerà, di fare della Spagna il principale protagonista del cambiamento delle politiche liberiste che governano l’Europa, unica possibilità di rilancio del progetto europeo sempre più in crisi. Un chiaro no al tentativo ricattatorio della destra, Pp e Ciudadanos, ma anche del Psoe, che votare Unidos Podemos porterebbe la Spagna alla stessa fine degli inglesi.
L’onda del referendum inglese può contrastare l’opinione diffusa che la ripetizione delle elezioni avrebbe incrementato la disaffezione popolare verso sistema dei partiti e istituzioni, soprattutto perché tutte le inchieste prevedono un risultato abbastanza simile a quello dell’ultima volta.
Riproponendo la stessa alternativa fra larghe intese e governo delle sinistre, su cui è già naufragata la precedente legislatura, la Spagna sarebbe condannata a instabilità e ingovernabilità. In realtà la situazione è meno bloccata di quanto appaia, almeno a stare ai sondaggi recentemente effettuati, dai quali emerge una novità importante: la modifica dei rapporti di forza fra i partiti della sinistra, con il Psoe largamente superato da Unidos Podemos, la lista unitaria promossa da Izquierda Unida e Podemos.
Il sondaggio assegna il 29% al Partito Popolare con 114 seggi, seguito a soli tre punti, con un 26% e 93 seggi, da Unidos Podemos, e i socialisti scesi al terzo posto con un 20,5% e 82 seggi, seguiti da Ciudadanos con una percentuale di 14,5 e 39 seggi.
È evidente che se questi dati venissero confermati dal voto, la possibilità che la Spagna possa essere governata da una coalizione delle sinistre cresce notevolmente. Contrariamente ai socialisti, che hanno preferito inseguire un’intesa con un partito di destra come Ciudadanos, la coalizione Unidos Podemos, senza maggioranza parlamentare, ha già dichiarato che vuole trovare l’accordo con il Psoe. Una intesa che disporrebbe nel nuovo parlamento di 175 seggi, solo uno in meno dei 176 richiesti per la maggioranza assoluta, necessaria per legge perché il candidato premier proposto dal re possa essere nominato e governare.
Si tratta solo di sondaggi e quindi la prudenza è d’obbligo perché spesso nel passato le previsioni sono state smentite dalle urne. È però significativo come tutti i sondaggi effettuati negli ultimi mesi confermino la modifica dei rapporti di forza fra i partiti della sinistra a favore dell’alleanza Unidos Podemos.
Qualche considerazione è possibile farla già ora. In primo luogo sul fatto che l’intesa nazionale raggiunta a sinistra fra Podemos e Izquierda Unida, confermando tutte le intese territoriali precedentemente raggiunte da Podemos in Catalogna, Galizia e Valenzia funziona, manifestando che una più chiara identità di sinistra, a scapito della trasversalità, non è un freno, ma un moltiplicatore del consenso popolare. Non è complicato prevedere una crisi per il Psoe di difficile soluzione, in caso di sorpasso a sinistra.
Una crisi che viene da lontano e che affonda le sue radici nell’incapacità del gruppo dirigente socialista di dare rappresentanza alla nuova Spagna che il movimento 15M disegnò quattro anni fa. Una rottura da parte dei socialisti con le domande di nuova Europa, di giustizia sociale e ambientale, di scuola e sanità pubblica, di autodeterminazione delle donne, di nuovi diritti di cui proprio quel movimento 15M era portatore, che si è consumata definitivamente dopo le ultime elezioni con la scelta praticata dai socialisti di chiudere a sinistra.
Non era questo che undici milioni di spagnole/i avevano chiesto col loro voto e proprio per questo la voglia di cambiamento delle spagnole/i da oggi potrebbe essere affidata a Unidos Podemos.
In questi ultimi giorni di campagna elettorale il leader di Ciudadanos chiede con insistenza ai socialisti di svelare con chi intendono ricercare accordi dopo le elezioni. È una richiesta strumentale, ma legittima, perché solo il Psoe continua a lasciare nel vago le possibili alleanze di governo, lacerato tra larghe intese e sinistra.
Se oggi si materializzerà il sorpasso di Unidos Podemos sui socialisti sarà un segnale forte e chiaro, destinato ad aprire una crisi anche per altri socialismi europei, che rischiano un declino inarrestabile per la scelta di subalternità, finora fatta, a questa Europa di politiche liberiste.
Una scelta che ha lasciato un vuoto di rappresentanza che in Spagna potrebbe essere colmata da una alleanza a sinistra e non da populismi o nazionalismi. Non resta che aspettare, con un poco di impazienza, i risultati delle urne.

La Stampa 26.6.16
Madrid, incubo ingovernabilità
L’ipotesi della grande coalizione
Oggi la Spagna vota. Rebus alleanze. Nel Psoe diviso c’è chi apre ai popolari
di Francesco Olivo


Mancava un mese alle elezioni e Pedro Sánchez, il leader socialista rassicurava un potente circolo di economisti nei dintorni di Barcellona: «Non ci saranno terze elezioni». Le frasi del capo del Psoe, ripetute agli imprenditori presenti, non erano scontate. La Spagna oggi torna al voto con una grande incognita: i risultati potrebbero somigliare molto a quelli dello scorso dicembre, ovvero allo scenario che ha portato a un’inedita paralisi. Stanotte, i seggi chiudono alle 20, con tutta probabilità il Paese non avrà un governo. E se negli ultimi sei mesi il Paese ha vissuto con relativa calma questa instabilità politica, la pazienza ora è finita e una terzo turno non è un’ipotesi accettabile, specie con una Borsa colpita duramente dalla Brexit. 
Da domani partiranno trattative, i veti incrociati della campagna elettorale dovranno cadere. Quattro i partiti in campo: in testa, secondo gli ultimi sondaggi, è il Partito Popolare, lontanissimo però dalla maggioranza assoluta. I tre avversari, Pedro Sánchez (Partito Socialista), Pablo Iglesias (Podemos) e il centrista Albert Rivera (Ciudadanos) non sentono ragioni: nessun appoggio al Pp. Ciudadanos potrebbe affiancare il centrodestra solo a una condizione: la testa del premier Mariano Rajoy, per ora non disposto a farsela tagliare. Incompatibili, per promessa reciproca, i due nuovi movimenti, Podemos e Ciudadanos. Difficile un dialogo anche tra socialisti e Podemos. E se è vero quello che Sanchez ha detto agli imprenditori, come se ne esce?
La grande coalizione è un’ipotesi lontana, per ragioni storiche (non si è mai fatta a nessun livello) e politiche, «mai e poi mai», ha ripetuto il leader socialista, il quale però, davanti a un risultato negativo del suo partito potrebbe lasciare. Se Sánchez negherà fino alla morte ogni appoggio (anche passivo) alla destra, i colonnelli del suo Psoe mettono veti dall’altro lato, ovvero a Podemos. «Non governeremo con i populisti», ha detto venerdì Felipe González, patriarca socialista, mai stanco della politica. La voce di Felipe continua ad avere un peso enorme nel partito (quella di Zapatero è pressoché irrilevante), per accorgersene più che a Madrid bisogna spingersi a Sud, a Siviglia, la città dell’ex premier. In Andalusia, la regione con più disoccupati d’Europa, i socialisti hanno il bacino di voti storico e ormai quasi unico. Qui governa la vulcanica Susana Díaz, avversaria di Sánchez, con aspirazioni nazionali. La sua campagna è stata chiara: botte a Podemos e ai nazionalisti catalani, ovvero due dei possibili partner di Sánchez a partire da stanotte. Tagliare i ponti al segretario, potrebbe voler dire aprire le porte, se non alla grande coalizione, almeno a un accordo per lasciare governare la destra, magari con una legislatura corta. È la teoria del «comanda il più votato», enunciata proprio da Felipe. Mentre si montano i seggi si comincia già a parlare di un «re straniero», un Mario Monti alla spagnola, capace di mettere d’accordo tutti e capace di farsi intendere a Bruxelles.

Repubblica 26.6.16
I 4 leader e l’incognita dei comunisti
Dopo 6 mesi di ingovernabilità Podemos spiazza tutti con l’alleanza con Izquierda Unida
Rajoy gioca la sua ultima carta oggi per riottenere consensi dopo il crollo di dicembre
di Omero Ciai


MADRID. Mariano Rajoy è l’inossidabile che oggi lotterà per non perdere neppure uno dei seggi, 122, che conquistò sei mesi fa. Albert Rivera, volto pulito della destra, è il nuovo che non sfonda, anche lui afferrato ai 40 seggi del 20 dicembre 2015. Pedro Sanchez e il Psoe ne ottennero 90, il peggior risultato dagli anni Ottanta. Podemos, il movimento figlio degli “indignados” contro i partiti tradizionali, ne ebbe 69.
In questa sorta di secondo turno del voto spagnolo tutti ripartono da lì, dal giorno che per la prima volta certificò la frantumazione dello scenario politico, storicamente bipolare fra destra e sinistra, in quattro partiti, due vecchi e due nuovi. Ora saranno variazioni minime nell’attribuzione dei seggi con la legge D’Hontd, quella che finora ha favorito il bipartitismo, a dirci stasera chi potrà cantare vittoria e chi sarà sconfitto.
Nessun partito ha preso davvero atto di quel che accadde sei mesi fa, una situazione inedita di fronte alla quale era necessario accettare patti e fare concessioni. Qualcuno dice perché l’idea del “compromesso” non esiste in spagnolo, è un concetto estraneo alla cultura locale.
Il 20 dicembre, Mariano Rajoy, il leader del partito popolare, perse in una sola notte 64 seggi e l’ampia maggioranza assoluta che aveva avuto nel 2011. Chiunque al suo posto avrebbe restituito l’incarico, lasciando spazio a dirigenti nuovi e meno coinvolti negli scandali che hanno tormentato il Pp. Lui, invece non s’è mosso di un millimetro, trasformandosi in quello che oggi tutti considerano “il tappo” che ha impedito la nascita di un nuovo governo. Se perde voti e seggi stasera il suo destino è segnato ma l’effetto panico del risultato del referendum britannico potrebbe paradossalmente aiutarlo. La paura del futuro fa votare i brand sperimentati.
Le stesse cose si potrebbero dire di Pedro Sanchez, il candidato del Psoe meno votato di sempre, rimasto alla guida di un partito molto litigioso, molto diviso, e soprattutto molto indeciso sulle scelte da fare in una politica di alleanze.
L’unico stratega sulla scena è il professore di Podemos, lo spregiudicato Pablo Iglesias, che ha avuto l’idea geniale di rimettere in gioco i comunisti di Izquierda Unida. La formazione più radicale del panorama vale un milione di voti ma, per la legge maggioritaria, ha ottenuto solo due seggi sei mesi fa. Ora, nell’alleanza con Podemos, può regalare una quindicina di seggi all’audace Pablo.
Nasce da qui l’unica possibile svolta del voto di oggi. Mentre sei mesi fa sia la destra (Pp e Ciudadanos), sia la sinistra erano lontani dal numero magico dei 176 seggi, ora i socialisti e Unidos Podemos (Podemos + Iu), possono sfiorarla. E più vi si avvicineranno, più sarà difficile per il partito di Sanchez sottrarsi all’abbraccio di Podemos. Se, insieme, arriveranno a 170, sulla carta il nuovo governo già c’è, basterà il sostegno, anche esterno, di un partito regionale moderato come quello dei nazionalisti baschi (Pnv).
L’incognita, che sveleremo stasera, è lo shock del “sorpasso”. Non nei voti ma nei seggi. Ne avrà più Sanchez o ne avrà più Iglesias? Nel primo caso il patto a sinistra sarà più facile, nel secondo un po’ meno.

Repubblica 26.6.16
Pp e Psoe sperano che le paure post-referendum li avvantaggino contro Podemos
Alle urne in Spagna con le bandiere Ue fuori dalle finestre Effetto Brexit sul voto
di Concita De Gregorio


BARCELLONA È nel paese più europeista d’Europa che si misurano oggi, a settantadue ore dal referendum inglese, gli effetti di Brexit sull’elettorato. Non c’è paese nell’Unione più unanime: a Barcellona e Bilbao anche chi non si sente spagnolo si sente europeo. È la storia della democrazia post-franchista, è cultura diffusa e cresciuta generazione dopo generazione nella culla degli Erasmus. Dunque, è sull’onda di un vero shock che si vota. La reazione è l’enigma della vigilia: ritorno agli ovili politici o contagio da spallata referendaria. Lo scenario, in bilico, può cambiare radicalmente nell’una o altra ipotesi. La situazione oggi è questa.
La Spagna torna al voto dopo sei mesi: il risultato di dicembre ha reso impossibile la formazione di un governo. I primi quattro partiti sono tutti sotto il 30 per cento e nessuna alleanza si è rivelata possibile. I sondaggi della vigilia, per quello che valgono e comunque realizzati prima di Brexit, dicono: stabili il Pp di Mariano Rajoy, partito di governo, al 29 per cento e il Psoe al 21. In crescita Podemos (25) e Ciudadanos (16) formazioni nate negli ultimi anni in chiave di rinnovamento. Più radicale Podemos, forte di una base popolare visibilissima e rumorosa, più moderata Ciudadanos, un partito più di uffici che di piazza che raccoglie la media borghesia silenziosa, delusa da destra e sinistra tradizionali. Ma questo prima dello schiaffo inglese all’Europa, appunto. La domanda oggi è quale effetto Brexit sul voto: effetto tutto emotivo, parliamo di tre giorni.
Nessuno dei quattro principali partiti è antieuropeista, al contrario: la Spagna ha storicamente guardato all’Europa come ad una soluzione, fin dalle battaglie dei democratici sotto la dittatura. Né esiste, in Spagna, una destra radicale euroscettica del genere Ukip, tutto il residuo franchismo essendosi riparato e riciclato nel Pp.
Il risultato del referendum è stato tuttavia sbandierato ad uso interno nei comizi finali, venerdì sera: per alimentare la paura da parte di Psoe e Pp, che sperano di far leva sul timore del caos per rastrellare voti. Per denunciare «il pericolo dei referendum» che, ha detto il leader del Psoe Pedro Sanchez, «delega ai cittadini decisione che spettano ai politici».
L’antipatia antireferendaria si tinge qui di storia patria: i partiti favorevoli all’indipendenza della Catalogna, reduci da un referendum vinto e annullato, sono oggi alleati con Podemos. Ma il voto inglese potrebbe sortire anche l’effetto opposto: anziché ricompattare Pp e Psoe potrebbe causare una sorta di “contagio” popolare e chiamare alle urne, con Podemos, anche coloro che non sarebbero andati a votare. In sintesi: Rajoy e Sanchez sperano che Brexit danneggi Podemos («ora più che mai c’è bisogno di ordine e stabilità», ha detto sabato Rajoy) mentre Podemos denuncia «l’ineleganza di chi si serve di Brexit per strappare un paio di voti» e, unico, difende lo strumento referendum con l’argomento del dito e della luna: «Il problema non è che i cittadini votino ma le ragioni per cui votano in quel modo. Nessuno vorrebbe uscire da un’Europa giusta e solidale». Del resto Podemos è l’unica fra le quattro formazioni principali che ha accreditato un delegato in Inghilterra, a Manchester, a sostenere materialmente la campagna per Remain.
Quindi: non siamo in Francia né in Olanda nè in Italia, non c’è nessuna forza politica, qui in Spagna, che voglia cavalcare Brexit per uscire dall’Europa. Il voto di oggi è da leggersi tutto nel segno degli equilibri interni. Molto delicati, molto mutevoli. Vediamo.
Il Pp dell’incolore Rajoy non potrà comunque governare da solo: Brexit fornisce l’utile leva della paura ma arriva tardi, all’indomani dell’ennesimo scandalo che vede coinvolto il ministro dell’Interno e il magistrato a capo dell’autorità Anticorruzione. Potrebbe allearsi con Ciudadanos, contrario all’indipendenza della Catalogna. Non basterebbe, con un sistema elettorale proporzionale, senza premio di maggioranza. Il Psoe di Pedro Sánchez, nonostante la camicia bianca e le maniche arrotolate, ha ottenuto a dicembre il peggior risultato della storia post franchista. Balla tra il 20 e il 21 e giusto sabato il grande vecchio del partito, l’ex premier Felipe González, è sceso in piazza a dire che mai e poi mai il Psoe dovrà allearsi «coi populisti». Mai con Podemos, insomma. Del resto Iglesias ha già scartato al primo giro, a dicembre, l’ipotesi di un’alleanza col Psoe e cavalca piuttosto il grande successo delle amministrative: le sue sindache governano Madrid e Barcellona, tra gli altri. Il comizio di chiusura a Madrid ha visto sabato notte una folla come in Spagna non si vedeva da tempo: «Dicono che siamo populisti e antisistema perché hanno paura. Gli antisistema sono quelli che privatizzano la scuola e l’educazione. Noi difendiamo la legge, l’ordine, la giustizia sociale». Podemos in effetti ha vinto le amministrative non “contro” la vecchia classe politica ma “per” una società più equa in senso economico e sociale. La sua debolezza sta nella vaghezza sul come pensi di governare, con chi. Se il re desse l’incarico a Iglesias, potrebbe farlo coi socialisti spaccando il Psoe. Può darsi. Molto dipenderà dalla forza del risultato: su Podemos pesa la diffidenza che nella parte più moderata del suo elettorato hanno suscitato le polemiche sul caso Venezuela: sarebbe stato Chávez, col quale molti dell’attuale classe dirigente di Podemos hanno collaborato negli anni in cui Pp e Psoe hanno chiuso le porte alle nuove leve della politica, a finanziare il movimento. Alle sue origini e non solo.
Ultima ipotesi: una possibile soluzione Monti. Un economista di fama (in alternativa, un servitore dello stato bipartisan) alla guida di un governo di scopo, un accordo di legislatura che cambi il sistema elettorale non adatto allo scenario quadripartito. Sarebbe un governo della nazione: Pp, Psoe e Ciudadanos. Gli avversari di sempre, quando gli schieramenti erano due, uniti per governare nonostante Podemos. Tutto il mondo è paese.
Nessuno sa però come reagiranno gli spagnoli alla “ferita inglese”. Ieri su più di un balcone sono comparse bandiere dell’Unione. Case di studenti, ma non solo Erasmus. «Prima europei, poi spagnoli, dicono gli alleati catalani di Podemos ». Col cuore in tasca, si vota.

Corriere 26.6.16
Un’altra sfida per Bruxelles: il voto spagnolo
Socialisti in difesa.
Spagna di nuovo ai seggi, dopo appena sei mesi, alla ricerca di un governo stabile per reggere l’impopolarità dell’austerity chiesta dall’Ue e con un occhio al terremoto post Brexit. A sinistra chi interpreta meglio lo scontento è Podemos, alleato a Sinistra Unita, ma potrebbe risultare ancora primo Mariano Rajoy, premier uscente del Partido Popular.
di Andrea Nicastro


MADRID Si vota oggi in Spagna, ma il risultato darà anche il grado di febbre dell’Europa orfana di Londra. Dopo appena sei mesi il regno di Felipe VI torna ai seggi perché nessun partito è riuscito a formare una maggioranza. Tra la prima e la seconda campagna elettorale i cordoni della borsa si sono rilassati e il deficit ha ricominciato a galoppare. Ci vuole un esecutivo stabile per reggere l’impopolarità delle politiche di austerità che chiede ancora Bruxelles, almeno fino a che non diano risultati più tangibili di quelli che si sono intravisti fino ad ora. C’è crescita, ci sono nuovi assunti, ma la diseguaglianza cresce e il lavoro, se c’è, resta precario. Purtroppo la macroeconomia non si mangia come le tapas . Una ricerca Nielsen dice che nel 2009 gli spagnoli spendevano al bar 100 euro al mese, oggi solo 67. Difficile convincere chi deve rinunciare ad uscire la sera che le cose siano andate a posto.
Chi interpreta meglio lo scontento è Podemos, il partito di Pablo Iglesias. Il professore di scienze politiche con il suo codino fa parte di quella ondata di nuova sinistra «anti sistema» cui apparteneva anche il greco Alexis Tsipras (lui solo senza cravatta) prima di chinare il capo ai diktat europei. Iglesias dice apertamente che l’austerità è sbagliata, che bisogna ricominciare ad indebitarsi e spingere così, keynesianamente, la crescita. Dice anche che la Spagna non è la Grecia, che il suo peso economico e politico permetterà di influenzare le decisioni europee anche grazie ad altri governi che stanno abbandonando la via del rigore: dal Portogallo, alla Francia, all’Irlanda, alla stessa Italia.
Rispetto alle elezioni di dicembre Iglesias si presenta con sondaggi ancora più favorevoli. Merito principale è l’alleanza con lo storico partito comunista di Izquierda Unida (Sinistra Unita). La sigla che ne è nata è già un capolavoro di marketing politico: Unidos Podemos, uniti ce la possiamo fare.
Gli altri protagonisti sembrano giocare in difesa. Lo storico partito socialista operaio spagnolo, Psoe, mantiene la candidatura del giovane e telegenico Pedro Sánchez. Promette anche lui meno austerità, ma ha alle spalle il peccato originale di un partito che all’inizio della Grande Crisi sposò i sacrifici. Ora propone più tasse per i ricchi, più scuola e regole sul lavoro meno favorevoli alle imprese. I sondaggi dicono che non basterà per recuperare l’egemonia sull’elettorato di sinistra che rischia di passare a Podemos. Il «sorpasso» è una possibilità. Un Psoe terzo partito sarebbe la pietra tombale della Transizione, la fase storica di uscita dal franchismo dominata dall’alternanza di una destra e una sinistra istituzionali.
In calo anche Albert Rivera, leader di Ciudadanos. Il partito arancione è nato come alternativa pulita al Partido Popular macchiato dagli scandali. In questa campagna si è spostato più a sinistra, verso un liberalismo sociale che sembra aver scontentato parte del suo elettorato.
Sembrerebbe poter restare primo Mariano Rajoy. Il premier uscente, leader del Partido Popular, fa leva sulla paura di un salto nell’incertezza se dovesse prevalere Podemos. Chiede continuità, rivendica i successi del suo governo che ha ereditato dal Psoe un Paese in bancarotta con migliaia di disoccupati in più ogni giorno ed è stato capace di stabilizzarlo e rilanciarlo, senza cancellare lo Stato sociale. Il suo è un elettorato fedele e ha il vantaggio di non avere nessuno a destra.
L’economia non è l’unico tema della campagna. Altrettanto sentito è il rischio della frammentazione nazionale. L’indipendentismo catalano ha avuto l’appoggio di Podemos che ha promesso un referendum indipendentista. Sul carro di Iglesias potrebbero salire anche i nazionalisti di Paesi Baschi e Galizia.

La Stampa 26.6.16
Nella (ex) roccaforte dei socialisti
Podemos verso lo storico sorpasso
Il quartiere rosso Vallecas si tinge di viola: “Sanchez? È come Rajoy”
di Marco Bresolin


«Puente de Vallecas è rimasto l’unico bastione del Partito Socialista a Madrid». Il giorno dopo le elezioni del 2011, quelle del post-Zapatero che portarono Mariano Rajoy al governo, i giornali avevano lo stesso titolo. Ma in meno di cinque anni è caduta anche l’ultima roccaforte socialista nella capitale. Vallecas la rossa si è tinta di viola: qui, dove il Psoe è sempre stato il primo partito (nel 2004, per dire, era al 61%), a dicembre c’è stato il sorpasso di Podemos (con i socialisti crollati al 25%). E oggi lo stesso potrebbe accadere a livello nazionale: il Psoe di Pedro Sanchez rischia di perdere il primato nella sinistra spagnola. Quasi sicuramente in termini di voti, molto probabilmente anche nella conta dei seggi: per effetto della legge elettorale non è detto che le due cose coincidano, ma in ogni caso sarebbe un fatto clamoroso.
A Puente de Vallecas, quartiere popolare a sud-est della città, sono in molti a credere che andrà a finire così. Perché il Partito Socialista ha deluso. Sia quando era al governo, ma ancor di più negli ultimi anni passati all’opposizione. «Molti elettori di sinistra che dopo la crisi del 2008 hanno visto peggiorare la loro condizione socio-economica - spiega Pablo Simón, politologo dell’università Carlo III di Madrid - credono che ci sia una responsabilità condivisa tra Partito Popolare e Partito Socialista. Li mettono sullo stesso piano, non vedono più le differenze perché considerano che ci sia stata una sorta di continuità nelle politiche degli ultimi anni».
Il distretto di Puente de Vallecas è il secondo più popolato della città di Madrid: 244 mila abitanti e 22.765 cani, secondo l’ultimo “censimento” ufficiale. Uno ogni dieci persone. Ma non è solo il tasso canino pro-capite a segnare un record: la disoccupazione è la più alta della Capitale (è al 23%, contro una media del 16% a Madrid e del 21% a livello nazionale), il tasso di analfabetismo pure e un quinto dei suoi abitanti vive sotto la soglia della povertà. «È nelle cinture urbane, più che nelle zone rurali, che il Psoe ha perso il suo elettorato - prosegue il politologo Simón -. Perché la crisi, oltre alla disoccupazione, ha portato precarietà e mancanza di prospettive tra i giovani». Terreno fertile per Podemos, primo partito tra gli under 35, il cui leader è cresciuto proprio a Puente de Vallecas.
Per trovare la casa di Pablo Iglesias bisogna salire tra le viuzze del parco Cerro del Tío Pío, dove svettano i palazzoni del Fontarrón, un complesso residenziale costruito negli Anni 70 con casermoni di 13-14 piani per un totale di 1300 appartamenti. A cui si può invidiare la splendida vista su Madrid e poco altro. «Pablo? Ultimamente qui lo si vede poco», dicono due anziani seduti ai tavolini del bar con birra fresca e “tapa” di patatine fritte e alici.
Più giù, nel cuore del quartiere, la vigilia elettorale è un sabato come tanti altri. La via principale, Avenida de la Albufera, è deserta: i più sono fuggiti in centro a Madrid. In una traversa, calle de la Concordia, spunta la bandiera socialista sulla facciata della Casa del Pueblo, sezione locale del Psoe. A 24 ore dal voto, dentro non c’è nessuno. «È inutile che bussi, quando serve quelli non ci sono mai» dice con un sorriso beffardo Ramón, 45 anni portati male e una maglietta degli Iron Maiden che ha visto più di un concerto. «Li ho sempre votati, fino a due o tre elezioni fa. Ci credevo, ora non più. Adesso credo solo nel Rayo Vallecano». Che poi sarebbe la terza squadra di Madrid, appena retrocessa in seconda divisione, tra i principali simboli dell’identità di quartiere. Tanto che un gruppo come gli Ska-P, che negli Anni 90 è partito da queste strade per poi far ballare migliaia di giovani in Europa e Sudamerica, gli ha dedicato una canzone. «Né con il Real né con l’Atletico», dicono alla birreria “2Boca2” dietro lo stadio. Dove l’astio verso le due squadre è ormai paragonabile a quello per il Pp e il Psoe.

Corriere 26.6.16
«Promesse disattese sullo Stato sociale»
Critiche all’architettura europea insufficiente
di A. Ni.


MADRID Pablo Bustinduy, 33 anni, professore di filosofia, è una sorta di ministro degli Esteri ombra di Unidos Podemos. È stato lui l’unico politico spagnolo ad essersi speso nella campagna contro la Brexit facendo campagna per l’Unione a Manchester.
C’è un nesso tra Brexit e voto spagnolo?
«Se l’Europa avesse mantenuto le sue promesse sullo Stato sociale, sui diritti, sulla fratellanza, in sostanza su ciò a cui gli europei pensavano quando pensavano all’Unione, tutto questo non sarebbe successo. Con il voto la Spagna risponde alla stessa domanda degli inglesi: qual è l’orizzonte europeo? Dove vogliamo andare?».
Qui però non ci sono destre xenofobe o razziste.
«Perché c’è Podemos, un movimento apertamente europeista, schierato in difesa dei diritti umani, che però non vuole né schierarsi a difesa dello status quo né di un’architettura istituzionale europea che si è dimostrata insufficiente, quando non addirittura anti democratica. L’Europa ha di fatto smantellato un’idea di convivenza basata su servizi pubblici e garanzie per tutti nata nel Dopoguerra».
Di chi è la responsabilità?
«Si è cominciato negli anni 90 quando la socialdemocrazia di Blair e Schröder ha imboccato la via neoliberista. L’accelerazione è arrivata nel 2008 con la crisi finanziaria. È stato allora che l’Europa ha imposto privatizzazioni, tagli ai bilanci statali, restrizione fiscale. E l’ha fatto calpestando la volontà democratica espressa nelle urne da popoli interi. In questo modo l’alternativa politica è sfumata. Invece di vedere due partiti, uno più conservatore uno più riformista, è diventato impossibile distinguerli. Dopo il 2008, su 19 elezioni generali, 18 governi che erano in maggioranza sono stati spazzati via. L’elettorato ha cercato l’alternativa, ma il governo che è subentrato ha detto di dover fare la medesima politica per colpa di Bruxelles».
Si poteva fare diversamente?
«Certo. Le politiche imposte erano di per sé illogiche. Dovevano allo stesso tempo ridurre il debito, il deficit e riattivare il ciclo economico. In tutte le società invece il debito è aumentato, la disoccupazione è peggiorata e i consumi sono crollati. Anche la Germania che è solitamente accusata di tirare le fila del progetto ci ha rimesso: ha il tasso di diseguaglianza più alto della sua storia, così come la povertà, mentre il tasso di investimento produttivo è il più basso dalla guerra. I tedeschi soffrono come gli altri europei».
Soffrono le persone, non le società.
«L’establishment non soffre da nessuna parte. In Spagna c’è un 40% di milionari in più che nel 2008, le aziende della Borsa di Madrid hanno moltiplicato i profitti del 70%. C’è gente che ha guadagnato in questi anni durissimi. Ma l’irresponsabilità è stata macroeconomica. In un mercato tanto intrecciato, far crollare l’economia della periferia ha danneggiato i Paesi più forti».
Ci ha già provato la Grecia a contestare l’austerità. Ha dovuto fare marcia indietro.
«I risultati dei cosiddetti salvataggi greci si vedono infatti adesso. Tutti gli indicatori puntano alla recessione. La differenza è che la Spagna non è un Paese fallito, noi possiamo finanziarci sul mercato da soli e siamo la quarta economia dell’euro e, soprattutto, adesso è molto cresciuto il numero di attori politici, ideologici e sociali molto diversi che hanno riconosciuto la necessità di cambiare rotta. Ci sono i portoghesi, i francesi, gli irlandesi, voi italiani. Il primo ministro Matteo Renzi ha fatto dichiarazioni anche più dure delle nostre sul dogmatismo di bilancio. I tempi sono più maturi oggi al cambiamento rispetto a quando fu eletto Tsipras in Grecia».

Corriere 26.6.16
La Russia e la Chiesa. La fede religiosa di Putin
risponde Sergio Romano


A cena con degli amici, abbiamo parlato di Putin e della «sua» Russia. C’era chi affermava che la sua estrazione comunista lo fa sempre ragionare con questa visione ben piantata in testa; chi invece (come il sottoscritto) sosteneva che gli ideali della internazionale socialista/comunista lui li ha abbandonati da tempo, abbracciando piuttosto un’impronta che chiamerei nazionalista/fascista. I sostenitori delle due tesi sono stati concordi nel chiedere a lei un parere dirimente.
Iginio Zanini

Caro Zanini,
Non credo che Vladimir Putin rimpianga il regime comunista. Mi sembra troppo realista per sognare la restaurazione di un sistema defunto. Penso piuttosto che il presidente russo sia dominato da alcune preoccupazioni. In primo luogo conosce i punti deboli del suo Paese: un territorio immenso, privo di forti frontiere naturali; una vasta costellazione di gruppi etnici e religiosi; molte spinte secessioniste che riappaiono puntualmente ogniqualvolta il potere centrale lascia intravedere segni di debolezza. In secondo luogo Putin è afflitto da una sindrome storicamente radicata nella classe dirigente russa: la convinzione che le fragilità nazionali possano essere sfruttate da nemici vicini e lontani per mettere in discussione l’unità nazionale e la centralità dello Stato. L’allargamento della Nato a una grande parte dell’Europa Centro-Orientale e le sanzioni decretate dalle democrazie occidentali dopo l’annessione della Crimea hanno rafforzato questi timori.
Come tutti coloro che hanno governato la Russia dalle mura del Cremlino, Putin è convinto che lo Stato russo, per continuare ad esistere, abbia bisogno di una giustificazione ideologica e morale. Questa giustificazione è stata per alcuni secoli politica e religiosa. La Russia si considerava legittima erede dell’Impero bizantino, distrutto dagli Ottomani nel 1453, e custode della cristianità ortodossa. In questa prospettiva Mosca era, dopo la Roma sul Tevere e quella sul Bosforo, la «terza Roma». Più recentemente, dopo la Rivoluzione d’ottobre, il comunismo ha dato allo Stato russo il sentimento di una missione internazionale.
Putin ha dovuto adattarsi ai tempi. Sa che il comunismo, sconfitto dalla storia, non può conferire alcuna legittimità allo Stato russo, ma crede che questa legittimità possa derivare dalla vittoria dell’Urss nella Seconda guerra mondiale. È questa la ragione per cui il presidente russo non può rompere definitivamente con il passato comunista del Paese. Stalin non è soltanto il feroce assassino di alcuni milioni di uomini e donne. È anche il vincitore di Stalingrado, di Kursk, di Berlino.
L’altro pilastro ideologico su cui poggia lo Stato di Putin è l’Ortodossia. Il tenente colonnello del Kgb ha ricreato con il clero russo quel rapporto che a Costantinopoli, durante l’era imperiale, veniva definito «sinfonia». La Chiesa moscovita è ancora, come nel passato pre-sovietico, chiesa di Stato, anima del Paese, braccio spirituale di tutte le Russie, partner insostituibile dei poteri pubblici. Putin ha conferito credibilità a questo connubio comportandosi come un devoto credente: visita i santuari, si fa il segno della croce, rende omaggio alle icone, si confessa e si comunica. In un bel saggio su « La Russia del terzo millennio» pubblicato da Jaca Book, Stefano Caprio scrive che alla domanda di un giornalista televisivo americano sui suoi sentimenti religiosi, Putin ha risposto che sua madre, alla vigilia di un viaggio in Israele, gli dette una piccola croce perché la facesse benedire al Santo Sepolcro. Decise di portarla sempre con sé quando la sua dacia andò in fiamme e la croce riapparve, intatta, fra le macerie fumanti della casa distrutta .

Repubblica 26.6.16
Kip Thorne
L’astrofisico Usa candidato al premio dopo la scoperta delle onde gravitazionali
“Non sono un eroe in corsa per il Nobel ma so che l’universo non avrà più segreti”
intervista di Luca Fraioli


Molti miei colleghi dubitano che la politica americana voglia finanziare ancora esperimenti di Big science
Mi fu concesso di andare e tornare da Mosca nonostante la Guerra fredda Mai la Cia e l’Fbi me ne chiesero conto
Kip Stephen Thorne, 76 anni, è professore emerito di fisica teorica al California Institute of Technology, noto tra gli appassionati di fantascienza
Le teorie di Thorne sui tunnel spazio-temporali sono alla base del film Interstellar di Christopher Nolan (2014), a cui lo scienziato ha collaborato

ROMA. «Il prossimo Nobel per la fisica? Va certamente assegnato alle onde gravitazionali, ma non spetta a me. I veri eroi di questa vicenda sono i fisici sperimentali che hanno risolto tutti i problemi pratici di un esperimento molto complesso, rendendo possibile la scoperta. E io non sono tra loro ». L’onestà intellettuale di Kip Thorne è pari solo al suo talento. Settantasei anni, decano degli astrofisici americani (in questi giorni è a Roma ospite dell’Agenzia spaziale italiana) non si è mai vergognato di dire non ho capito. Ora nega di aver avuto un ruolo cruciale nella scoperta delle onde gravitazionali. Eppure, quando a febbraio è stato annunciato che i due osservatori Ligo (Laser interferometer gravitational observatory) in Louisiana e nello Stato di Washington avevano catturato un’onda gravitazionale tutti hanno pensato che a Stoccolma sarebbero andati in tre per ritirare il Nobel: Ronald Drever, Reiner Weiss e Kip Thorne, i tre fisici che nel 1984 idearono il progetto Ligo.
Professor Thorne, come ha saputo che un’onda gravitazionale era stata finalmente captata da Ligo?
«Il 14 settembre ero nella mia casa di Pasadena, in California. Appena sveglio ho controllato l’e-mail e c’era il messaggio di uno dei miei colleghi: mi invitava ad andare su una pagina web dell’esperimento Ligo. In effetti c’era un segnale gravitazionale. Ho richiamato il collega e gli ho detto: di sicuro è una blind injection, un segnale artificiale introdotto dal team che lavora per mettere alla prova tutto lo staff. Lui mi ha risposto: “Kip, io faccio parte del team della blind injection e ti assicuro che non siamo stati noi”. Allora ho capito che ce l’avevamo fatta».
Che sentimenti ha provato in quel momento?
«Molti di noi erano felicissimi ed eccitati. Per me è stato un po’ diverso: la mia era una profonda soddisfazione perché sapevo che prima o poi avremmo visto quell’onda gravitazionale generata da due buchi neri che girano uno intorno all’altro. Avevamo fatto una grande battaglia per convincere la National Science Foundation e il Congresso americano che aveva senso investire un miliardo di dollari in questo progetto».
È stata una lunga caccia, ma quando esattamente nacque l’idea di Ligo?
«Non fu tutto merito nostro. I primi a immaginare un interferometro laser per captare le onde gravitazionali furono nel 1962 due fisici teorici russi. Qualche anno dopo anche in Occidente si cominciarono a fare progetti simili. Un contributo fondamentale è venuto da Ray Weiss nell’ eliminazione del rumore di fondo in questo tipo di rilevatori».
Sarebbe possibile oggi negli
Usa finanziare un progetto di Big science come Ligo?
«Molti miei colleghi sono piuttosto scettici, come se la politica non volesse più rischiare in grandi avventure scientifiche. Eppure proprio la rivelazione delle onde gravitazionali potrebbe invertire questa tendenza».
Lei ha iniziato a lavorare a questo progetto negli anni Sessanta e i risultati sono arrivati 50 anni dopo. Uno scienziato deve essere un visionario o solo molto paziente? «Bisogna avere una visione, riuscire a condividerla con una comunità. Ma occorre anche sapere che ci vorrà tempo, per esempio due generazioni di interferometri, prima di raggiungere lo scopo. Ed essere così bravi da farlo capire alla politica».
Nella cosmologia sembra sempre più difficile immaginare esperimenti capaci di confermare o confutare le diverse ipotesi.
«Per molti anni è stato vero per la Relatività Generale e per le onde gravitazionali. Poi però abbiamo trovato il modo di verificare la predizione di Einstein. Nel caso della gravità quantistica o della teoria delle stringhe, in effetti, non abbiamo ancora conferme sperimentali. È solo una questione di tempo. Ci sono poi casi in cui ci si imbatte in fenomeni del tutto inattesi: ad esempio la materia oscura. Non era stata prevista, ma è stata osservata e questo ha aperto tutto un nuovo campo di ricerche».
Da giovane scienziato lei lavorò molto con alcuni ricercatori russi. Fu difficile in piena Guerra fredda?
«La scienza può aiutare a dialogare. Funzionò tra sovietici e americani. Io fui fortunato: mi fu concesso di andare e tornare dalla Russia nonostante la Guerra fredda, trascorrevo un mese all’anno a Mosca e mai una volta la Cia o l’Fbi sono venuti a chiedermi conto di quanto stavo facendo ».
Ora che le onde gravitazionali sono state catturate, cose le piacerebbe scoprire?
«Qualcosa di totalmente inaspettato. È vero le abbiamo scoperte, ma sappiamo ancora pochissimo delle onde gravitazionali, delle informazioni che trasportano, di come potremo usarle. Nei prossimi vent’anni dovremo costruire rivelatori capaci di captare tutto lo spettro di frequenze delle onde gravitazionali, così come oggi abbiamo telescopi che esplorano la radiazione elettromagnetica dall’infrarosso ai raggi gamma. Allora potremo vedere cose oggi invisibili. Come il momento esatto in cui nacquero le forze fondamentali, la separazione tra la forza nucleare debole e la forza elettromagnetica: pochi istanti dopo il Big Bang si generò un’onda gravitazionale la cui eco è ancora presente ».

Repubblica 26.6.16
Intellettuale dove sei?
Quel che resta della figura che metteva ordine nel racconto del mondo
Secondo Gramsci, quello “organico” aveva il compito di modellare un nuovo spirito del tempo. Ma oggi, mentre prevale la politica del risentimento incarnata da Donald Trump, ha ancora senso parlare di “egemonia culturale”? E quali sono i filosofi e gli scrittori che sono in grado di costruire una narrazione efficace della realtà che stiamo vivendo?
di Christian Salmon


Ma dov’è finito l’intellettuale organico, dopo il 2008 e la crisi finanziaria? Bisogna cercarlo (ripescarlo) a sinistra, dov’è sprofondato corpo e anima insieme al muro di Berlino? Oppure si nasconde a destra, in qualche think tank o in qualche agenzia di lobbying? Nell’immediato dopoguerra, l’”intellettuale organico” in occidente era rappresentato dalla corrente keynesiana, che elaborò, sceneggiò e diffuse la grande narrazione fordista del welfare state. Inutile soffermarcisi, conosciamo già la trama e i personaggi. Ma dietro le quinte, un altro “intellettuale organico” era in gestazione: l’intellettuale organico neoliberista. Incubatrice e laboratorio, ma anche bottega di scrittura, fu la Mont Pelerin Society. Creata nel 1947, fra gli altri, da Friedrich Hayek, Karl Popper, Ludwig von Mises e Milton Friedman, la Mont Pelerin Society (dalla località termale svizzera di Mont-Pèlerin) elaborò la narrazione di un nuovo ordine sociale, “neoliberale”, che poco a poco si sarebbe imposto in tutte le cerchie del potere, dei media e infine del grande pubblico, prima di trionfare alla fine degli anni Settanta gettando il discredito sul welfare state, ma soprattutto proponendo una nuova trama, un nuovo eroe: non più il consumatore incantato della società dei consumi, ma l’”imprenditore di se stesso”. Questa visione nuova dell’homo oeconomicus avrebbe ispirato un nuovo modo di vedere lo Stato, l’azione di governo, i rapporti sociali e internazionali, insomma una “narrazione-maestra” neoliberista che avrebbe trovato i suoi grandi interpreti in Ronald Reagan e Margaret Thatcher. «L’economia è il mezzo», dichiarò quest’ultima nel 1988. «Il fine è cambiare l’anima delle persone». Sostanzialmente, l’obiettivo è stato raggiunto: gli ingegneri dell’anima neoliberisti hanno portato a termine il loro lavoro e si è affermato un nuovo soggetto, le cui caratteristiche e valori sono la flessibilità, l’agilità, l’adattabilità, la capacità di cambiare strategia in funzione delle circostanze, un nuovo io instabile, imperniato sul breve termine e libero dal peso dell’esperienza passata. Un tipo ideale incarnato alla perfezione dai due nuovi eroi dei tempi postmoderni: l’agente di Borsa e la modella.
Il concetto dell’”intellettuale organico” così come l’aveva definito Gramsci si può dunque riconoscere nella sua capacità di trasformare un corpus di idee e di valori che modella una nuova soggettività, un nuovo spirito del tempo, quella che Gramsci chiamava “egemonia”. Cosa rimane quindi dell’intellettuale organico e dell’egemonia dopo la crisi del 2008?
Nello spazio limitato di questo articolo, non posso far altro che proporre qualche ipotesi: 1. Prima ipotesi: l’intellettuale organico non sta dove crediamo. Da Alain Finkielkraut a Éric Zemmour, le figure mediatiche di un pensiero di destra incentrato sulle questioni dell’identità nazionale, dell’immigrazione e della laicità occupano gli schermi televisivi e le pagine degli editoriali dei giornali, ma sono assolutamente inoperanti se si tratta di ragionare sulle questioni della sovranità, del potere e delle nuove forme di governance. Questi scrittori che vengono definiti filosofi, pubblicisti ed editorialisti non sono in alcun modo una specialità made in France, sono parte di un fenomeno che propongo di definire “trumpizzazione degli spiriti”. La trumpizzazione degli spiriti (“lepenizzazione” o “salvinizzazione” degli spiriti, nelle forme locali di Francia e Italia) non ha nulla a che vedere con l’egemonia culturale, per varie ragioni.
2. Seconda ipotesi: la “trumpizzazione degli spiriti” non è una corrente di idee, è l’espressione di un risentimento, un’esasperazione indistinta che prende di mira sia gli stranieri che le élite, sia i religiosi che gli atei, sia gli emarginati che i miliardari. Il suo successo nell’opinione pubblica non ne fa un pensiero egemonico, perché non si propone di creare una nuova soggettività, ma si accontenta di fare da cassa di risonanza a dei risentimenti. In questo senso gli intellettuali “trumpisti” non sono “organici” ma “allergici”, perché si accontentano di coltivare e alimentare la nostalgia della narrazione perduta (la grandezza della nazione, bianca, cristiana, monoculturale e monolingue, la sua cultura, il suo impero e i suoi satelliti o colonie). Un pensiero reattivo più che reazionario, che svolge tutt’al più la funzione di sfogo del “malessere identitario” che agita le società di tutta Europa e degli Stati Uniti. Un pensiero allergico (che agisce come i neuroni che liberano la sostanza che produce l’orticaria), ma di certo non regolatore, per restare nella metafora organica che utilizzava Gramsci per immaginare l’egemonia culturale.
3. Terza ipotesi: l’egemonia culturale di una corrente di pensiero non si misura solamente in base alla sua influenza o alla sua audience, ma in base alla centralità nel funzionamento e nella legittimazione del sistema sociale. L’”intellettuale organico” è colui che opera in favore della costruzione e del consolidamento di un’egemonia, producendo attraverso discorsi, concetti e strumenti di governance, oggi diremmo narrazioni, un nuovo “ordine” narrativo in grado di ispirare e “condurre le condotte” (Foucault), vale a dire prescrivere e legittimare i comportamenti.
Comprendere l’egemonia presuppone dunque partire non dalle idee e dalla loro influenza, bensì da una descrizione di questo sistema, dei suoi ingranaggi fondamentali. Una recente inchiesta della nuovissima rivista Le Crieur (n. 3, edizioni La Découverte) disegna il ritratto di uno di questi praticanti e produttori di idee, che fabbricano i concetti e le tecniche del neocapitalismo globalizzato. L’autore di questa inchiesta, il sociologo Razmig Keucheyan, ha incontrato uno di loro, Emmanuel Gaillard. Nel 2014, la rivista Vanity Fair l’ha classificato al sedicesimo posto fra i “francesi più influenti del mondo”, subito dietro Xavier Huillard, l’amministratore delegato di Vinci (e prima dell’attrice Eva Green!). Il ritratto di questo “intellettuale discreto al servizio del capitalismo” sconvolge molte idee consolidate sull’egemonia. Gaillard è un esperto di operazioni di arbitraggio internazionale. La sua grande opera è un austero trattato di teoria del diritto intitolato Aspetti filosofici del diritto dell’arbitraggio internazionale.
Non ha nulla di un Sartre o di un Foucault! Da quale punto di vista può essere definito “intellettuale organico”? L’arbitraggio internazionale risponde a un problema cruciale del neocapitalismo: come gestire gli inevitabili attriti o conflitti prodotti dalla globalizzazione del capitale? Più in generale, come fare per produrre uno spazio globale scorrevole, dove il capitale possa circolare senza intralci? Gaillard è un “cortigiano” del capitalismo. Facendosi intermediario fra diverse culture giuridiche, lui e quelli come lui operano in favore della globalizzazione del capitale attraverso il diritto.
4. Quarta e ultima ipotesi: l’egemonia dell’intellettuale organico non poggia sull’ortodossia ideologica, la consistenza propria a uno schieramento, ma al contrario sull’eterodossia, la strumentalizzazione, il bracconaggio concettuale. Attinge la sua forza, in una sorta di “hacking ideologico”, dai contestatori del capitalismo.
Un esempio: nelle sue lezioni al Collège de France, nel 1979, Michel Foucault insisteva sul fatto che il neoliberismo non coglie gli individui come consumatori, ma come produttori, e mira a «sostituire a un homo oeconomicus votato allo scambio un homo oeconomicus imprenditore di se stesso». Le idee di Foucault hanno ispirato molti teorici del neoliberismo. Emmanuel Gaillard, da parte sua, si è ispirato a… Pierre Bourdieu, uno degli intellettuali più radicali di fine Novecento! «L’arbitraggio», dichiara Gaillard, «è diventato un vero e proprio campo sociale nel senso di Bourdieu: è caratterizzato da una lotta fra soggetti che possiedono “capitali” economici, sociali e culturali differenti». «La profondità della conoscenza delle teorie di Bourdieu del mio interlocutore», scrive l’autore dell’inchiesta, «è stupefacente. Ne fa un uso accurato e creativo, sfruttando i concetti del sociologo per spiegare l’evoluzione attuale dell’arbitraggio ».
Gaillard si spinge perfino a citare uno studio sociologico ispirato ai lavori di Bourdieu, incentrato sul “capitale sociale” degli arbitri internazionali, che dimostra che oltre il 90 per cento degli arbitri nominati è di sesso maschile e di razza bianca, e proviene, in oltre la metà dei casi, dai sette paesi più ricchi del mondo. Una bella contraddizione con il modello di arbitraggio indipendente fondato su valori universali! Gaillard riconosce la realtà di questo “comunitarismo” e afferma che l’istituto dell’arbitraggio internazionale dev’essere maggiormente diversificato, se vuole mantenere una certa legittimità. Questo esempio di bracconaggio ideologico è uno dei tratti distintivi di un pensiero egemonico. «Cogliere e sfruttare le idee dell’altro schieramento consente di arrivare a un livello di comprensione e autoconsapevolezza superiore, integrando e “superando” la critica». Consente anche di disinnescare l’elemento sovversivo di quelle idee integrandole al blocco di idee egemonico. È a questo livello che si gioca, oggi, la guerra delle narrazioni per l’egemonia culturale.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
L’autore è scrittore e membro del Centre de Recherches sur les Arts et le Langage  CNRS). Tra i suoi saggi
La politica nell’era dello storytelling pubblicato in Italia da Fazi

Repubblica 26.6.16
Non è mai troppo tardi Ogni fine è un altro inizio
La psicoanalista inglese Isca Salzberger-Wittenberg ribalta il senso comune e spiega che invecchiando può cominciare una nuova fase
di Marco Belpoliti


«Nascere, lasciare il corpo della madre e cominciare a vivere nel mondo esterno è sia una fine sia un inizio». Così scrive Isca Salzberger- Wittenberg, psicoanalista inglese, nel libro Sulla fine e sull’inizio (Astrolabio). L’autrice ha novant’anni; si è occupata di bambini come psicoterapeuta presso la clinica Tavistock di Londra, ha insegnato e ascoltato le persone. Ma non c’è solo questo. Isca ha nove anni quando Hitler sale al potere in Germania. Di famiglia ebraica, padre rabbino internato in un lager, nel 1939 riesce a lasciare la sua patria per approdare in Inghilterra. Come straniera non ha vita facile; riesce a studiare grazie a borse di studio e vive lunghi periodi separata dai cari. A novant’anni scrive: «Essere trattata da emarginata mi portò al desiderio di costruire ponti». Isca appartiene a quella genia di ebrei che sanno trasformare le disgrazie in qualcosa di positivo: capacità di tendere l’orecchio al dolore degli altri, cercare di cambiare. E essere ben poco conformista. La paura di morire le fa compagnia sin da bambina, eppure fa sua una frase di Donald Winnicott: «Oh Dio! Possa io essere vivo quando muoio!». Fine e inizio sono posti da lei in un ordine rovesciato rispetto al comune sentire. Sarebbe logico pensare che c’è un inizio e poi una fine. Salzberger-Wittenberg ribalta la sequenza e traccia un percorso che va dalla nascita come cambiamento catastrofico, separazione dalla madre, fino alla morte, passando per vari stadi dell’esistenza, ognuno visto come un nuovo problematico inizio: svezzamento, diventare bambino, andare all’asilo, frequentare le scuole, l’università, lavorare, sposarsi, diventare genitore, vivere i lutti, invecchiamento, morte. Fine e inizio sono intimamente legati, così che «ogni fine ci obbliga a venire a patti con ciò che abbiamo perduto e a cominciare qualcosa di nuovo». Ricava la vita dalla fine. Molti inizi, scrive, implicano l’abbandono di qualche aspetto della vita e il ribaltamento di visioni precedenti. Il bambino nasce nel panico; ha la sensazione di essere abbandonato. Paura, ansia, angoscia sono aspetti consueti della vita e Salzberger-Wittenberg ne descrive i passaggi sino ai momenti finali dell’esistenza: lasciare il lavoro e andare in pensione, invecchiare, morire. Ogni passaggio produce un’angoscia catastrofica da fine del mondo. L’esperienza più consueta è quella dell’impotenza a rintracciare una via di salvezza verso un territorio conosciuto. Nell’invecchiamento emergono angosce primitive precedenti mai digerite e connesse alla perdita e all’abbandono, eppure queste recano con sé anche «una disponibilità a esplorare in profondità il dolore emotivo ». La novantenne migrante lo ripete con forza: non è mai troppo tardi per imparare a vivere. Anche la fine è un inizio.
SULLA FINE E SULL’INIZIO di Isca Salzberger-Wittenberg ASTROLABIO, TRAD. DI L. RIOMMI BALDACCINI PAGG. 201, EURO 21

Repubblica 26.6.16
Dimmi cosa sogni e ti dirò chi sei
di Claudia Morgoglione


“Dimmi cosa sogni” è il sottotitolo di Immaginario, bellissimo libro spagnolo pubblicato qui in Italia da Nord-Sud. “E ti dirò chi sei”, viene da aggiungere dopo averlo letto. Perché la suggestione che attraversa ogni pagina, in un mix perfetto di parole e immagini, è che sono le aspirazioni che abbiamo da piccoli a farci diventare ciò che siamo. A permetterci di raggiungere gli obiettivi, i traguardi, a cui teniamo di più. E per dimostrarlo, i due autori dei testi Cristina Núñez Pereira e Rafael R. Valcárcel, insieme a una nutrita squadra di disegnatori, ricorrono a esempi concreti. Raccontando la vita e le passioni di ventotto personaggi realmente esistiti. Presentati in base a ciò che sognavano, e alle imprese che poi hanno compiuto: da Amelia Earhart, pilota che attraversò l’Atlantico nel 1933, a May French Sheldon, che nel 1891 raggiunse le cime del Kilimangiaro; da tenniste come Gabriela Sabatini o Martina Navratilova al grande navigatore James Cook (uno dei rarissimi uomini citati, tra la stragrande maggioranza di donne).
Ma non ci sono solo i casi concreti. Il volume infatti si presenta come un dialogo ininterrotto con i giovanissimi interlocutori. Sollecitati con domande, suggerimenti pratici, riflessioni mai noiose, a capire il senso di quelle vite straordinarie. E poi ecco il capitolo finale, annunciato da una scritta azzurra che dice “Goditi il tuo sogno”. Seguita da alcune pagine bianche: perché cosa ciascun piccolo lettore vuole diventare, è un capitolo ancora tutto da scrivere.
Età: dai 7 anni.
Immaginario di AAVV Nord-Sud, trad. di C. Scalabrini pagg. 78, euro 16,90

Repubblica 26.6.16
Renzo Piano Inseguo la grande bellezza
di Massimo Minella


GENOVA C’È LA LUCE DEL SUO MEDITERRANEO a far vivere le periferie a cui, da tempo, dedica ormai quasi tutte le energie. Renzo Piano parla del suo mestiere di architetto come di un «lavoro difficile, pericoloso, perché se lo fai male il risultato continua a restare lì». Da Parigi è volato ad Atene, dove è appena stato inaugurato il centro culturale della Fondazione Stavros Niarchos, una collina artificiale di periferia che sale dolcemente restituendo al quartiere la vista del mare che si era perduta. Presto ritornerà a New York, per il nuovo campus universitario di Harlem, altra periferia.
Perché nel suo lavoro torna con questa insistenza la periferia, quasi un concetto ancor prima di un luogo fisico?
«Nella domanda c’è già gran parte della risposta. Perché le periferie sono zone lontane, prima che dal punto di vista geografico da quello culturale ed economico. La periferia, quasi per definizione, oggi equivale a una zona lontana, negletta».
Per questo ha scelto di firmare a Kallithea, quartiere di Atene, il suo ultimo lavoro?
«Questo progetto è il paradigma del ragionamento che ho appena fatto. Kallithea è distante pochi chilometri, tre-quattro, dal centro di Atene. Ma nel corso dei secoli la sua bellezza naturale era stata cancellata, il vecchio porto del Falero interrato, la percezione del mare oscurata da case e palazzi. Questo vuol dire periferia. Noi abbiamo ridato la vista del mare, abbiamo riportato, spero, bellezza, abbiamo restituito centralità».
E ora a quale periferia si dedicherà?
«Il nuovo palazzo di Giustizia di Parigi, a nord della città.
Si trasferirà lì tutto il tribunale, una zona tornerà a vivere. Poi New York, per il nuovo campus della Columbia University, nel West Harlem. Attenzione, non stiamo parlando di luoghi così distanti dal centro della città, ma di aree che nel passato non hanno goduto dell’affetto che avrebbero meritato. Diciamo che hanno un po’ patito la sindrome dell’abbandono. E non potremmo dire lo stesso per l’Auditorium di Roma? O per lo Shard di Londra? Luoghi che sono sempre stati percepiti come periferie prima che trovassero nuova vitalità. E sa che cosa può favorirla? Il fatto di intervenire attraverso edifici pubblici. I luoghi pubblici portano urbanità. E possono essere ospedali, tribunali, università, scuole. Noi ci inseriamo in questo grande tema urbano, cercando di centrare il risultato».
Ci riesce sempre?
«Il mestiere dell’architetto è pericoloso per te stesso e per chi riceve il servizio. Se si sbaglia, resta per sempre. Anche il vostro mestiere di giornalista lo è. Per questo credo che ci voglia una coscienza sociale e civica, anche se al tempo stesso si deve essere inventori. Noi architetti ci muoviamo in una terra che è sempre molto fragile, dobbiamo esplorarla ragionando in termini di consumi energetici, di sostenibilità. Insomma, mi passi il termine, essere anche un po’ uomini di scienza».
Lei è nato a Pegli, quartiere del ponente genovese: quanto ha inciso nel suo lavoro la periferia da cui proviene?
«Mi ha insegnato a interpretare lo spirito del luogo in cui sono nato. Sento molto forte, molto profonda la mia mediterraneità. Genova, come Atene, ha il mare a sud. E questa non è una cosa banale: perché anche il sole è a sud e dona al mare increspature luminosissime. È questo il motore di tutto. Il Mediterraneo è una specie di registratore che per secoli ha raccolto le voci della gente, i profumi, gli odori, le tragedie. È una zuppa di cultura».
E se dovesse trovare un elemento di riferimento in questo suo percorso professionale e umano che l’ha condotta fra le tante periferie del mondo?
«Direi la luce. È la luce che dà energia e che gioca a rimpiattino con l’ombra. Vede, la luce nelle periferie è il materiale più importante con cui lavorare. Certo, non è quello che tiene su gli edifici, ma è la nota distintiva, l’elemento su cui far leva nella progettazione».
La luce della sua Genova?
«Sì, se vogliamo, la luce che ti resta dentro e che quando puoi, a un certo punto della tua vita, senti il desiderio di ritrovare. Diceva Calvino che i genovesi si dividono in due categorie, quelli attaccati come le patelle a uno scoglio e quelli che non vedono l’ora di andarsene. Ecco, io ho fatto parte della seconda categoria, ma ora mi ritrovo un po’ anche nella prima, mi sento un po’ patella anch’io. Sono di Genova. Continuo a guardare al mare, alla luce, come a punti di riferimento».
La sua professione continua ad affascinarla, forse con un’intensità ancora maggiore, ha spiegato di recente. Che cosa non le piace, invece?
«Sa che cosa mi dà davvero fastidio? Quando ti chiamano “archistar”. Il nostro è un mestiere serio, mentre con quella definizione si sposta l’attenzione sull’aspetto mondano, frivolo. Non lo accetto, non mi pare giusto. Si può mettere in preventivo di essere conosciuti, quindi popolari e apprezzati per il lavoro che si fa. Benissimo. Ma porre l’accento su questo, sbilanciare tutto quanto non è corretto».

Il Sole Domenica 26.6.16
Atene
L’Acropoli di periferia
Il nuovo complesso di Renzo Piano è sospeso su una collina artificiale da cui si vede il mare da un lato e il Partenone dall’altro
di Fulvio Irace


L’Acropoli è lontana vista dal porto del Falero e dunque per renderla più vicina se ne poteva forse solo costruire un’altra: moderna naturalmente, capace di parlare dei sentimenti del nostro tempo come quella di Pericle raccontava la classicità.
Il Centro Culturale Stavros Niarchos, inaugurato due giorni fa con l’avvio di un intero programma di festeggiamenti popolari, è la nuova Acropoli dell’Atene di periferia, un’opera che ci si poteva aspettare solo dall’architetto-senatore che sulle periferie italiane sta scommettendo il senso della sua più recente attività: Renzo Piano.
Senza pauperismi, però, o falsi moralismi: al contrario con l’idea di investire su questa parte perduta di Atene il messaggio di una bellezza non solo possibile, ma necessaria “Kalòs kagathòs” – bello e buono – insomma secondo l’antica espressione greca che attribuiva alla bellezza un valore morale e non solo estetico o formale.
Il progetto della Fondazione ha una storia lunga alle spalle, che parte nel 2008 tra New York (dove risiede il suo direttore Andreas Dracopoulos, nipote di Stavros Niarcos ) e Zurigo (dove avviene la scelta finale su una rosa di tre finalisti): nasce dunque prima del “grande freddo” della crisi economica, quando l’architettura era ancora espressione della finanza rampante. Ma sin dall’inizio il punto di partenza è stato chiaro: bisognava risarcire la cesura tra città e mare, “rammendare” la periferia, creare una realtà aumentata con il sostegno di un’architettura “no frills”.
Il primo schizzo corrisponde fedelmente all’idea finale: più che coup de théâtre , una trovata. Ma semplice e geniale come l’uovo di Colombo. Il programma comprendeva la costruzione di due imponenti complessi - l’Opera Nazionale Greca (con una sala da 1.400 posti e un teatro sperimentale da 400) e la Biblioteca Nazionale(in grado di ospitare 750mila volumi) – che avrebbero da soli occupato più della metà dell’intera area disponibile, rendendo difficile la realizzazione di un parco panoramico a disposizione dell’intera città.
«Il quartiere in cui doveva sorgere – racconta Piano – si chiama Kallithea – la bella vista: ma, per una tragica ironia, delle ragioni del suo toponimo da qualche secolo si erano perse le tracce. Prima la costruzione di una tangenziale ha separato le case da mare, poi il porto si è progressivamente insabbiato perdendo la sua forma originaria, sostituito dall’incalzare di nuove costruzioni. Bisogna allora riguadagnare la vista del mare; ma come? Un giorno sono salito sul tetto di un ospedale lì vicino: dall’altezza di 30 metri non solo si vedeva perfettamente il mare, ma il gioiello di Atene,l’Acropoli. Ho pensato allora che si potesse sollevare il terreno come il bordo di un tappeto e metterci sotto i due edifici a formare una collina lievemente inclinata. In tal modo si può salire lentamente, come passeggiando nel parco e trovarsi sulla sommità avendo davanti il mare e alle spalle la vista dell’Acropoli».
Il mare è l’ossessione costante dell’uomo Piano oltre che dell’architetto; e dall’alto dell’ospedale deve aver reagito come i reduci greci dalla guerra di Persia, che a trenta miglia dalla costa, salutarono l’odore della patria col grido “Talassa Talassa”: il mare il mare, identità della Grecia .
L’architettura coincide dunque con la conquista del punto di vista: un atto concettuale prima ancora che spaziale, che si può comprendere e sperimentare quando si raggiunge l’apice della collina artificiale che Piano ha battezzato la «lighthouse», perché è come un faro, ma anche una casa trasparente che offre una vista a 360 gradi su Atene e congiunge in un potente asse visivo il Porto e il Partenone. Da qui partono i pilastri sottili d’acciaio che sorreggono la grande “tenda” che scherma dal sole e allo stesso tempo ne assorbe l’energia grazie alla superficie superiore interamente ricoperta da pannelli fotovoltaici che rendono il centro energeticamente indipendente.
«Il Canopy – confessa sempre Piano – è la seconda cosa di cui sono contento se non orgoglioso. È un guscio sospeso di 10mila metri quadri che, grazie a una tecnologia sofisticatissima, si muove seguendo la spinta del vento, delle escursioni termiche e delle scosse di terremoto. È l’omaggio personale al genio di Nervi, di cui riprende la tecnica del ferrocemento, da lui usata anche per il disegno di una barca, e che tuttora rimane la soluzione perfetta per una struttura monolitica e leggera».
L’effetto è stupefacente, anche per la perfezione dell’esecuzione e la delicatezza delle proporzioni che fanno sembrare “volante” anche le macchine più pesanti: per provarlo basta salire la scala che ci fa entrare nella “pancia” del Canopy. Improvvisamente si ha l’idea di passar dalla tolda della nave alla sala macchine: dall’ebbrezza del vento alla solidità dei muscoli d’acciaio che fanno lievitare la pensilina come i muscoli della mano il movimento delle dita.
Si dice – giustamente- che l’architettura di Piano diffida dall’invenzione: ma solo da quella formale, perché in realtà essa è una continua “reinvenzione”. Così dentro la Fondazione Niarchos si sente la macchina di Beaubourg, ma anche l’olimpica postura del museo Beyler; la “tenda” rimanda alla “bolla” sul Lingotto di Torino; l’”agorà” – cioè lo spazio all’aperto su cui si fronteggiano l’Opera e la Biblioteca – la piazza dl County Museum di Los Angeles e, ovviamente, il prato inclinato dell’Academy di San Francisco. Persino il canale artificiale (alimentato con l’acqua del mare filtrata) che corre lungo tutta la lunghezza del Centro, ricorda lo scorrere dell’acqua in Postdammer Platz a Berlino.
Ogni architettura è un pezzo a sé, ma ognuna ha in sé qualcosa delle altre, come una catena evolutiva dove le idee forti sopravvivono al tempo perché in grado di rigenerarsi e di combinarsi in inedite versioni. «Mi piace il senso dell’opera ben fatta – dice ancora Piano -, la soddisfazione che viene dalla perfetta esecuzione. È come nei grandi cantieri delle cattedrali: scuole d’apprendimento e di sperimentazione, dove si misurano i materiali, si valutano peso e colore, si giudica la messa in opera, perché la perfezione deriva dal fatto che ogni cosa trova il suo giusto posto. E poi, la qualità è contagiosa e la bellezza non è una cosa da contemplare soltanto, ma fa venire voglia di far meglio».
Stavros Niarchos Foundation Cultural Center , Atene , Kallithea

La Stampa Tuttolibri 26.6.16
Giulio Guidorizzi
Il colpo di fulmine di Elena è il dilemma dell’amore
Nei comportamenti degli eroi omerici c’è l’anima dell’Occidente: dal potere (Agamennone) alla pietà per il nemico (Priamo/Achille)
intervista di Maurizio Assalto


«Sono stato preso dal gran fiume di Omero. Come una barchetta che segue la corrente». E seguendo la corrente, nel suo Io, Agamennone, Giulio Guidorizzi, professore di Letteratura greca all’Università di Torino, intrepido navigatore nel mare magnum del mito, ha riscritto la storia della guerra di Troia, dal punto di vista del signore di Micene, e sviluppando tutti quei punti che nell’Iliade sono lasciati in sospeso. «La mia idea iniziale era di scrivere un’introduzione a Omero per il pubblico ampio, che contenesse gli elementi della sua antropologia. Quindi ho concepito un po’ follemente un saggio-racconto, che via via è diventato più racconto che saggio». Il gran fiume del cantore cieco, appunto. «Ho usato un linguaggio paratattico, frasi brevi, frequenti divagazioni - proprio come lui - per cercare di riproporre il tessuto orale della sua poesia. E così sono diventato un piccolo piccolissimo Omero. Un rapsodo».
Agamennone non è un personaggio molto simpatico: perché ha incentrato il suo racconto su di lui?
«Per alcune ragioni. Perché offre un panorama completo di tutta la guerra di Troia - mentre Achille muore, Ettore muore... Poi perché rappresenta la prospettiva della regalità: è quello che dall’alto della gerarchia sociale osserva ed è però anche attore dell’azione. E infine proprio perché è un personaggio antipatico ai più: e invece leggendo l’Iliade ci si rende conto che ha uno spessore psicologico».
Cioè?
«In apparenza è arrogante, borioso, pretende di governare il destino degli altri. Però ci sono degli squarci in cui appare un’altra persona, che palpita per il fratello ferito, si prende cura della comunità, sa anche ammettere le sue colpe. Come tutti gli eroi ha due facce: una scura e una luminosa. Perché Omero non è soltanto un narratore epico che racconta una storia: è anche capace di far venire fuori l’interiorità dei suoi personaggi. E nessuno è uguale agli altri».
Oltre a Omero, e ovviamente all’Agamennonedi Eschilo, di quali fonti si è servito?
«Ho usato le mie letture, che mi hanno aiutato a dare colore ai personaggi. Per esempio c’è un briciolo di Thomas Mann, Giuseppe e i suoi fratelli, nell’impianto mitico, nel modo di narrare. C’è anche qualcosa di Tolstoj: quando racconto l’innamoramento di Elena, il colpo di fulmine all’arrivo di Paride, dico che lei - senza ancora avvedersi che le sta nascendo dentro la passione, a cui non può opporsi, perché è stata prescelta da Afrodite - si accorge per la prima volta che suo marito Menelao ha alcuni fili bianchi nella barba e ride troppo forte: come Anna Karenina, quando arriva alla stazione dopo che Vronskij le ha rivelato il suo amore e si accorge che il marito ha delle orecchie strane - da un dettaglio insignificante, il primo accenno del disamore».
Una volta nei banchi di scuola ci si divideva tra fan dell’Iliadee fan dell’Odissea: lei a quale partito appartiene?
«Al primo. Perché l’Iliade dà un quadro sublime di una società eroica, contiene tutto il modo di essere e il modo di pensare di una società guerriera in cui, è vero, ognuno combatte con l’altro, ma in realtà ognuno combatte contro il suo destino».
Non le pare tuttavia che l’Odissea, in quanto racconta un mondo «fluido», privo di riferimenti stabili, in cui l’eroe deve di continuo mettere alla prova la propria capacità di far fronte agli imprevisti, possa parlare di più all’uomo contemporaneo?
«La mia sfida è far parlare all’uomo contemporaneo anche l’Iliade, far capire che dietro a questa crudeltà inesorabile c’è una visione alta, disperata dell’esistenza, che è molto vicina a noi. L’Iliade parla di quel blocco di emozioni, passioni e forze che si agitano nell’anima umana - la sfida, la morte, l’amore -, forze possenti contro cui tu puoi solo opporre la tua volontà, ma sapendo che ne sarai travolto. L’Odissea ci mette a contatto con un modello di uomo che ci è lontano, perché vive in un mondo favoloso, ma al tempo stesso vicino, perché il soggetto umano è già circoscritto, c’è un io. L’io dei personaggi dell’Iliade non è così: è un io dilatato dalla volontà di autoaffermarsi, dalle passioni e da questo senso veramente tragico, la consapevolezza che la vita inizia e finisce, come spazio di luce, tra due eternità di buio. Cioè, la radice della tragedia è nell’Iliade, come sapeva Aristotele. L’Odissea è più vicina al romanzo».
Qual è il suo eroe preferito?
«Mah, direi tutti. Io convivo con questi personaggi da cinquant’anni ed è come se li sentissi miei amici. Ognuno ha la sua risposta da dare di fronte alla moîra, al destino che sfugge al controllo umano, e ognuno lotta con la propria sorte istante per istante come se fosse l’ultimo momento della sua vita. È un mondo che non conosce trascendenza, perché la morte spazza via tutto, ogni cosa si gioca qui e ora. E questi eroi mostrano - ognuno a suo modo - che non possono sfuggire al destino, nessuno può».
Un episodio memorabile?
«Uno su tutti: l’incontro di Priamo e Achille. Qualcosa di meraviglioso: riconoscere sé stesso in un nemico. Ciò che li accomuna è la pietà, perché ognuno comprende nell’altro il proprio dolore. Io credo che pochi passi nella letteratura mondiale siano più commoventi di quello in cui questi due personaggi si abbracciano, ognuno nel proprio dolore, e Achille vede in quel vecchio il proprio padre, e Priamo riconosce nel dolore di Achille la sua stessa perdita. Le loro lacrime si mescolano: solo Omero può usare un’immagine così bella, così forte. È un passo quasi filosofico, dove si raggiunge la consapevolezza dell’appartenenza a un destino comune, in cui tutti gli uomini si costituiscono come tali in contrapposizione agli dèi, e hanno la dignità e l’orgoglio della propria sofferenza».
Dopo avere riscritto l’lIiade, ora lei si appresta a curarne una nuova edizione in sei volumi, per la Fondazione Valla, a capo di un’équipe internazionale. Ci saranno problemi di traduzione?
«Tanti. A partire dalle espressioni formulari, che una volta i traduttori tendevano a stemperare, ma che sono state opportunamente reintrodotte da Rosa Calzecchi Onesti, per me la più grande traduttrice di Iliade e Odissea. Poi c’è il fatto che tanti concetti omerici non hanno una precisa corrispondenza nel sistema semantico italiano, e quindi occorre fornire una versione - come dire? - antropologica, che cerchi di mantenere lo splendore dei versi ma anche di dare l’idea di un mondo culturalmente altro. Per esempio, psyché non è solo l’anima, è la vita, certe volte è il soffio, l’ultimo respiro. E poi vorrei che alcuni termini fossero resi mantenendo il suono meraviglioso della lingua greca. Speriamo che gli dèi ci aiutino: Atena, soprattutto, ma anche gli altri».

La Stampa Tuttolibri 26.6.16
A Montale e Gadda la lingua dei classici poteva bastare?
Le riflessioni di un “continuista” sulla modernità colpita dai mezzi di comunicazione di massa
di Angelo Guglielmi


Lettere non italiane di Giorgio Ficara dedicato alla letteratura italiana del Novecento è un bel libro di oltre 300 pagine,se amaro per la sorte attuale delle nostre lettere, ricco di sapere e di ottima scrittura . Per riferirne ho a disposizione non più di 5mila caratteri, così sono costretto a andare per le spicce rinunciando a soffermarmi sulle tante delizie che la riflessione ficariana offre - dagli straordinari libri di saggistica letteraria, di filosofia, di storia, di antropologia con cui l’autore sostiene il suo discorso e l’eleganza e la passione cui affida i suoi ragionamenti:
Ficara (eccelso lettore e analista di stanza a Torino di testi poetici e narrativi) è un «continuista» (la definizione è sua) e cioè predica e ritiene che l’importanza (e grandezza) di Montale e di Gadda (le due luci del nostro più maturo Novecento - ancora oggi traditi punti di riferimenti per poeti e romanzieri) risiede nel fatto che siano rimasti fedeli e in linea con la lingua dei grandi classici di ieri (anzi di sempre) rinnovandone e ripetendone la solennità e l’interezza in risposta alla decadenza della realtà colpita dall’esplosione dei mezzi di comunicazione di massa.
è proprio così? Walter Benjamin ci dice che in concomitanza con una serie di avvenimenti storici (il supposto primato della scienza, lo spirito nazionalistico, la nascita di Stati indipendenti ecc..) ai primi dell’800 (nei paraggi della rivoluzione francese) scattò un movimento che ha travolto non tanto la realtà (che è una presenza obbligatoriamente stazionaria) ma la Cultura occidentale tagliandola in due con un prima e un dopo (da allora non più pensabili come un unicum). Certo ha frantumato anche l’idea di realtà ma più ancora ha reso obsoleta l’idea di «uomo come capacità di pensare la totalità» trasformandolo in «individuo capace solo di pensare se stesso». Dunque ha modificato il suo modo di manifestarsi, di esprimersi, ha cambiato il suo modo rivolgersi agli altri, dunque la sua lingua.
E quali le conseguenze per un poeta pittore o musicista moderno (intendo l’aggettivo «moderno» nella sua estensione più ampia) e, più in genere, per un artista? E’ costretto a abbandonare la lingua che ha ricevuto dalla tradizione (quella che era insieme comunicativa e espressiva e serviva tanto all’artigiano per procurarsi i ferri del mestiere che all’artista per raccontare i suoi pensieri e emozioni) e inventare una nuova lingua (non importa se sghemba) che gli permetta di dialogare pur a fatica con la realtà oggi così sfuggente e equivoca pur sapendo che questa nuova lingua gli servirà per scrivere i suoi poemi o dar corpo alla sua immaginazione visiva (per esempio il volto umano dipinto da Picasso o i bambini raffigurati da Cattelan) ma non per comunicare a tavola con i suoi ospiti.
Certo, poi, Picasso non è Cattelan (adopero due artisti figurativi perché corrispondono a immagini presenti anche tra il pubblico comune); e è altrettanto certo che la potenza di Guernica – come Ficara giustamente pretende da un’opera d’arte – sta nella sua capacità di «riscontrare cose, umanità mondo» alla stessa maniera de I ciechi di Bosch o Il Cristo di Piero della Francesca; ma per riuscire nella sua gloriosa impresa Picasso ha dovuto rinunciar (anzi protestare) il linguaggio figurativo della rappresentazione e metterne a punto uno assolutamente inedito non lineare e astratto che se sopporta qualche analogia è solo con le maschere negre dei primi millenni del mondo (di cui non rimangono che reperti museografici). E così anche per gli Ossi di Montale o il Pasticciaccio di Gadda, i cui autori, constatando la non adeguatezza del linguaggio disponibile proveniente dalla tradizione nella quale aveva imperato fino a cento anni prima (e addirittura se pur per gioco oggetto da parte di Gadda di beffe e sfottò), si scoprirono nella necessità di avviarne uno che sfuggiva alle regole della coerenza e consequenzialità sfidando la facile comprensione e la comunicazione diretta. Un linguaggio per così dire einsteniano, capace di riflettere l’ invisibile (non più avvertibile attraverso le apparenze).
E se l’intensità presente negli Ossi e nel Pasticciaccio è certo della stessa qualità di quella che vibra nei Canti di Leopardi o nei Promessi Sposi di Manzoni tuttavia è ottenuta non con stili diversi (come accadde p.e. tra Petrarca e Boccaccio) ma con strumenti (una lingua) appartenenti a una cultura (e civiltà) non in continuità ma in dissonanza con quella precedente. Se questa evidenza non gli fosse sfuggita Ficara forse avrebbe evitato alcuni clamorosi errori di giudizio p.e. a proposito di Umberto Eco e Edoardo Sanguineti.
E infine in alcune cartacce di Svevo si dice che Joyce era orgoglioso della novità dell’Ulisse e ne accompagnava la consapevolezza (e il compiacimento) con la malinconia di essere stato Joyce e non aver potuto, come avrebbe voluto, scrivere come Balzac.

La Stampa Tuttolibri 26.6.16
Quando Thomas Mann smascherò i piani del diavolo
In un romanzo olandese, lo scrittore prende la “Decisione” di denunciare il nazismo: un scelta pericolosa che lo condanna all’esilio
di Luigi Forte


Per Thomas Mann furono tre giorni terribili, in attesa della pubblicazione della lettera consegnata il 31 gennaio del 1936 al quotidiano Neue Zürcher Zeitung. Era il suo chiaro e irrevocabile j’accuse al nazismo, la sua denuncia della Germania hitleriana. In tanti glielo chiedevano da tempo: i figli Erika e Klaus, gli intellettuali antifascisti, l’opinione pubblica internazionale. Finalmente si era deciso, nel volontario esilio svizzero, ma col passare delle ore perplessità e dubbi aumentavano. La sua storia personale e quella della Germania erano indissolubili, come per il suo grande modello Goethe. Ma ora i nazisti avrebbero messo all’indice i suoi libri privandolo dei lettori tedeschi e gli avrebbero tolta la cittadinanza. E che ne sarebbe stato della casa di Monaco e dei diari che là custodiva con le sue più intime confessioni? Non poteva fare a meno di pensare alla frase del giornalista e premio Nobel per la pace Carl von Ossietzky: «La voce di chi emigra suona vuota nel suo paese». Ma, a causa di quella lettera, non rischiava di tacere del tutto? Incertezza e ansia lo tormentano giorno e notte, mentre l’intera vita gli scorre davanti. Per lo meno è quanto, nel gioco di una finzione letteraria ben documentata, ci racconta l’avvocato olandese di origine tedesca Britta Böhler nel suo scorrevole e incalzante romanzo La decisione pubblicato da Guanda nella bella traduzione di Laura Pignatti.
Non era certo facile penetrare nella mente e nella quotidianità del grande Thomas Mann, il mago, come lo chiamavano i figli, ma l’autrice, alla sua prima esperienza letteraria, se l’è cavata egregiamente. In quel drammatico weekend, cadenzato con un andamento musicale, il lettore ha modo di seguire le mille peripezie mentali del Premio Nobel, di affacciarsi nella bella casa sul lago di Zurigo sulla vita familiare con la moglie Katia con i figli Elisabeth e Michael, e tra vivaci flashback tornare ai felici anni di Monaco, alla passione per la musica wagneria, al primo viaggio in America, dove ad Harvard incontra Einstein e va a cena da Roosevelt alla Casa Bianca. Sullo sfondo resta la nostalgia del suo paese sedotto dalla figura demoniaca di Hitler e le terribili notizie che giungono da Berlino. Passato e presente si frammischiano in quelle poche ore. Afflitto e stanco, Mann ritrova tuttavia la sua statura morale nella consapevolezza che spirito e arte non possono essere separate dalla politica.
Un pensiero che non lo abbandonerà più e che, sotto il peso della tragedia tedesca, riemerge nel suo ultimo, grande romanzo, il Doctor Faustus, scritto fra il 1943 e il 1947 durante l’esilio americano. Possiamo ora ripercorrere la drammatica vicenda esistenziale del compositore di musica dodecafonica Adrian Leverkühn, nella splendida edizione tradotta e commentata da Luca Crescenzi per i Meridiani Mondatori che contiene anche La genesi del Doctor Faustus, il testo che rielabora in forma narrativa le annotazioni diaristiche risalenti al tempo della stesura.
L’autore dei Budenbrook e della Montagna incantata superò se stesso scrivendo il romanzo della propria epoca: la vita del musicista Leverkühn, narrata, dopo la sua morte, dall’amico umanista Serenus Zeitblom, accompagna il triste declino della Germania e richiama, attraverso il mito faustiano, l’incompatibilità di vita e arte. Lo scrittore si duplica nei suoi due protagonisti così diversi fra di loro: Serenus, cattolico, offre a Mann l’occasione di riflettere sull’impotenza degli ideali umanistici di fronte alla brutalità; Adrian, protestante, puritano, è un asceta omosessuale, le cui pulsioni erotiche, come nell’autore, vanno a braccetto con l’idea quasi ossessiva di castità. Aspira alla pienezza della vita, ma è condannato dall’ambizione e dall’alleanza col diavolo all’ebbrezza creativa in cui la ragione è messa a tacere per un’ispirazione beatificante. E’ un insieme di elementi tratti dalla vita di Nietzsche, autore molto caro a Mann, che rimanda per la parte musicale alla figura di Schönberg.
Insomma, meditando sull’identità tedesca lo scrittore mette nel romanzo tutto se stesso: il tedesco e il cosmopolita, il decadente e l’umanista. E sullo sfondo di quel composito ritratto si stagliano i suoi paesaggi culturali: Monaco e Palestrina, lo spirito medievale della natia Lubecca, Lutero e il protestantesimo, la leggenda faustiana, la musica come dimensione demoniaca. Qui si confrontano una vita e un’epoca - quella di Adrian come quella di Mann - che racchiudono i paradisi culturali e gli abissi infernali del Novecento.
Leverkühn è destinato alla follia, lontano da ogni speranza di redenzione. Ma Thomas Mann esorcizza lo spettro diabolico del proprio tempo e riscopre nel rifiuto del nazismo un possibile riscatto anche per gli altri: «Dove sono io - dirà - lì è la Germania».

La Stampa Tuttolibri 26.6.16
Gide, le inconfessabili confessioni dell’immoralista
L’opera monumentale ripristina le parti a suo tempo autocensurate e permette di ricostruire la complessità di un personaggio scandaloso, geniale, voltagabbana che segnò la cultura del ’900
di Piero Gelli
*

Quando nel 1951 André Gide morì la stampa internazionale gli dedicò le pagine e lo spazio che giorni addietro ha ricevuto Cassius Clay. Tutti vollero onorarlo; e, a modo loro, e persino chi, fin dall’inizio lo ha sempre odiato (il jihadista cattolico d’allora, il pertinace Henry Massis, per esempio) suo malgrado ne riconobbe l’enorme influenza. Tra i «nuovi» l’intervento più commovente fu quello di Albert Camus, soprattutto se paragonato al «rispetto» dovuto di Jean-Paul Sartre. Una carriera davvero chiusa in uno scampanio troppo rumoroso e carico d’insulti (verso l’immoralista o come il volta-gabbana anticomunista) dopo una costante presenza sulla scena sociale e letteraria d’Europa di almeno metà Novecento di quello che fu definito «il contemporaneo capitale» e mai definizione fu più indovinata e definitoria. Moriva Gide col suo tardivo Nobel (1947), con la consapevolezza ben espressa nel bellissimo e definitivo «Così sia»: che i tempi stavano cambiando e che alla letteratura intesa come vocazione estrema, cultuale si sostituiva un altro sistema di valori dei quali la letteratura era solo ancella, fossero questi la filosofia, la politica o altri idola. Certo, sappiamo che anche Gide aderì per breve tempo, per subito abiurare al credo comunista, come attesta il Retour de l’URSS del 1936. Ma è chiaro che il suo comunismo altro non era che l’ennesima metamorfosi di figliol prodigo: un perseguito evangelismo che nasceva dalle sue origini ugonotte e dalla natura puritana di parte materna. Un evangelismo sui generis, sempre ricercato, divagato, adattato, infine definitivamente sconfitto per l’impossibilità di non cedere al «desiderio», ma in qualche modo di «sacralizzarlo», come attestano le sue confessioni irrefrenabili e pericolose: che sono esse stesse una risposta puritana, lontana dagli astuti mutismi cattolici.
Nel 1965 sulla New York Revue of Books Paul De Mann, allora nome notissimo della critica decostruttivista si chiedeva: «Che ne è di André Gide?». Il saggio era antipatico come odioso il tono dell’autore, che però evidenziava una verità. Che in pochi anni dello scrittore non si parlava più, il silenzio era sceso su quel nome la cui voce, lui in vita, era stata tanto ascoltata e celebrata quanto ferocemente avversata. Gide del resto, ben consapevole, pochi mesi prima di morire, nel turbine di continui riconoscimenti - oltre al Nobel di pochi anni prima, ancora la laurea honoris causa a Oxford, il cinema dell’ex-amante Marc Allegret, la radio, il teatro - scrisse agli amici che tale glorificazione coincideva col passaggio delle consegne.
Se questo è vero in parte, e riguarda soprattutto l’evolversi di certa critica srutturalista, decisamente liquidatoria sull’inscindibilità di rapporto tra personaggio e opera, dall’altra parte l’interesse per il personaggio Gide torna a confermarsi, un po’ dovunque ma soprattutto in Francia dove in realtà non è mai venuto meno. Basti pensare alle pagine acutissime e amorevoli che gli dedica Roland Barthes, nonostante le sue teorie concernenti la morte dell’autore. E le sue opere non mancano mai dal catalogo Gallimard, sia in versione economica che in collane più prestigiose, da I sotterranei del Vaticano a Se il grano non muore a tutti gli altri: dal breviario irrinunciabile per tutti i fedeli I nutrimenti terrestri all’ultima sua opera Teseo. E puntualmente quasi ogni anno si continuano a pubblicare i «Cahiers d’André Gide», così come ad ogni ricorrenza compaiono raccolte di scritti di autori che furono suoi colleghi e amici e estimatori: a parte i fedeli, come Julien Green o il più costante Roger Martin Du Gard, autore di un dimenticato ma bellissimo I Thibaud, che è un vero omaggio all’anziano collega (lo pubblicò Mondadori nel 1951 con una splendida traduzione di Camillo Sbarbaro) o Aldous Huxley che, nel suo Punto contro punto (ristampato nel 2011 da Adelphi) non nasconde i debiti e gli imprestiti e i ricalchi da I falsari, l’unica sua opera che Gide definiva romanzo; basti pensare ai riconoscimenti di personaggi come Thomas Mann, Ernst Jünger, Ernst Curtius, Hermann Hesse, John Steinbeck, oltre alle commosse parole di un’affascinata Yourcenar. Ho trascurato l’Italia, forse anche perché troppo ne parlo nella mia introduzione a questa edizione definitiva del Diario. Ma il rapporto con l’Italia, sebbene Gide conoscesse bene il paese, le sue opere e l’amasse a tal punto da tenere, per esempio, nello studio un calco della maschera funeraria di Leopardi, è stato sempre controverso e disturbato. Si direbbe più amato, addirittura idolatrato dai lettori singoli e spesso giovani che casualmente lo scoprivano nelle traduzioni di Arienta o Oreste del Buono quanto mal tollerato, a parte rilevanti eccezioni (Cecchi, Bo, Vigorelli) dai critici o dagli scrittori nostri, spesso invischiati in difese di parte, moralistiche, di fronte alla sfuggente ambiguità e libertà di uno scrittore ribelle ad ogni predominio che non fosse quello della letteratura come vita o della vita come letteratura.
Il Diario che leggiamo oggi, con le relative introduzioni degli studiosi Eric Marty e Martine Sagaert è ben diverso dalla Pleiade postuma che precede quest’ultima, e ancor più lontano dall’edizione italiana che Bompiani pubblicò negli anni cinquanta, in tre volumi, tradotto da Arienta e rimasto fermo al 1939. Si tratta sostanzialmente di un’opera in gran parte inedita anche in Francia, poiché sono state inserite tutte le parti che lo scrittore aveva preferito occultare, mentre lo pubblicava in vita. I motivi delle soppressioni sono molteplici, vanno da cause familiari, amicali o sociali o da motivi sessuali, nonostante che Gide – ed è giusto ricordarlo – sia stato col suo Coridon, nel 1924, il primo scrittore in assoluto a fare quello che comunemente oggi viene chiamato «coming out»: (non lo fece neppure Wilde nonostante il processo e la condanna).
Quello che oggi ci sorprende rileggendo l’intero Journal con intatto piacere non è soltanto la felicità di una scrittura classica quanto fosforescente, quasi cercasse sempre qualcosa oltre al dato effettuale o banale. Sì, gli incontri, i tanti eventi, le polemiche, le incomprensioni, le fascinazioni perverse, le gioie inattese, i vezzi e i vizi che possono appartenere anche a tanti altri diari, sono indubbiamente affascinanti: è un diorama di mezzo secolo e più, dove tutto o tutti più o meno giocano la loro parte. Quello che mi colpisce oggi è che il Diario sia diventato una letteratura di vita, ribaltato quindi in un vero e proprio romanzo, l’unico in cui Gide possa permettersi di riconoscersi come personaggio.
* Piero Gelli ha curato l’edizione italiana dei Diari di Gide

La Stampa Tuttolibri 26.6.16
Dorfles, una vita spalancata alle arti
Indaga da 80 anni senza paraocchi ideologici le oscillazioni del gusto tra pittura, tv e kitsch
di Gianfranco Marrone


«Un essere organico è così multilaterale all’esterno e così molteplice all’interno, che non si riesce a scegliere sufficienti punti di vista per contemplarlo». Ecco una bella affermazione dell’immancabile Johann W. Goethe che ben si attaglia a quella personalità eccezionale, immarcescibile e perpetuamente cangiante che è stato, ed è, Gillo Dorfles. Quanto meno per una doppia ragione. Da un lato, Dorfles è una figura di studioso (scrittore, filosofo, critico, artista…) la cui ampiezza di vedute e di temi, di frequentazioni disciplinari e oggetti di riflessione è tale da impedire ogni sua interpretazione univoca, men che mai una collocazione definitiva negli spazi istituzionali del sapere e dell’arte. La sua opera ha attraversato gran parte del Novecento, facendosi testimonianza diretta dei fermenti artistici e delle esperienze estetiche del secolo, dalle prime agguerrite avanguardie alle seducenti proposte commerciali della cultura di massa, dalle utopie di redenzione ascetica delle neoavanguardie alla progettualità diffusa del disegno industriale, non esclusi quei fenomeni complessi che egli stesso ha battezzato «oscillazioni del gusto», e dunque cose come mode e tendenze in perpetua trasformazione che disegnano un arco sconfinato in cui anche il carino e il sublime, lo sciapo e il furbetto, il dubbio e cattivo gusto ci stanno perfettamente dentro. D’altro canto, l’idea stessa di essere organico, in quanto tale multilaterale e molteplice, sta al centro della riflessione filosofica di Gillo Dorfles: a partire dall’idea secondo la quale, schematizzando molto, artificio e natura, tecnica e biologia non costituiscono coppie antinomiche, integrandosi e intrecciandosi in quel continuo divenire antropologico che è l’essenza stessa dell’uomo.
Ben venga allora questo volumone antologico Estetica senza dialettica. Scritti dal 1933 al 2014 nel quale il curatore Luca Cesari ha riunito la maggior parte di studi dorflesiani che possono riferirsi all’area dell’estetica filosofica. Vi si ritrovano i volumi Discorso tecnico sulle arti (1952), Le oscillazioni del gusto (nelle due versioni del 1958 e del 1970), Il divenire delle arti (1959), Simbolo comunicazione consumo (1962), Nuovi riti, nuovi miti (1965), Artificio e natura (1968), Dal significato alle scelte (1973), L’intervallo perduto (1980), Elogio della disarmonia (1986), Il feticcio quotidiano (1988), Fatti e fattoidi (1997), oltre a moltissimi scritti sparsi e difficilmente reperibili sui temi più vari come il barocco e la fenomenologia, la teoria dei colori e il gioco, l’estetica orientale e la psichiatria, la percezione visiva, l’ermeneutica, la mitopoiesi, la torre di Babele e così via.
Nonostante la grossa mole di pagine, la selezione è stata dura: spiace l’assenza di molte cose importanti, che in qualche modo hanno segnato la cultura italiana e non, suscitando controversie anche aspre, come l’Introduzione al disegno industriale, il lavoro sul Kitsch, Il divenire della critica, La moda della moda, per non parlare di quella congerie di scritti critici e storico-artistici che, da sola, occuperebbe un volume non meno poderoso.
Una qualche scelta, ben motivata dal curatore nella sua lunga introduzione, andava in ogni caso fatta, ed è sinteticamente spiegata dal titolo al libro. L’estetica di Dorfles, intesa nella sua accezione più ampia, ha innanzitutto una pars destruens: detesta la dialettica, ogni tipo di dialettica, sia essa hegeliana o marxista, crociana o adorniana, per la semplice ragione che rifiuta ogni sintesi superiore, ogni definizione assoluta e totalizzante dell’arte, soprattutto se fondata su aspetti presunti irrazionali e mitologici. Preferendo di gran lunga, ed è questa la sua pars costruens, parlare di arti sempre al plurale: garantendo, così, alle varie arti non soltanto la loro specificità comunicativa ma anche e soprattutto il loro aspetto tecnico, artigianale, fattivo, poietico più che poetico. Il che non significa rinunciare all’interpretazione delle opere, men che mai alla loro valutazione. Vuol dire, anzi, soppesare caso per caso, contesto per contesto, periodo per periodo, nella convinzione profonda che l’arte, o meglio le arti, si danno sempre e soltanto nel loro divenire storico, nelle trasformazioni che la cultura umana e sociale, nelle sue molteplici stratificazioni, impone loro, in quelle oscillazioni del gusto che nessuna sintesi dialettica potrà mai interrompere. Interpretazione e valutazione saranno così prive di paraocchi ideologici, modelli a priori, aspettative pregresse. E pronte perciò a includere non solo la molteplicità inesauribile delle arti ma anche quei fenomeni espressivi che arti, a prima vista, sembrerebbero non essere affatto. La pubblicità, la televisione, la fantascienza, la moda, la musica di cassetta, i rituali del consumo di massa, le mitologie contemporanee: bastava saperle accostare a Schelling e Vico, Arnheim e Valéry. Un dubbio atroce: rischierà, il nostro autore, al prossimo concorso accademico?

Corriere Salute 26.6.16
Giocare è davvero un bisogno primario
La «mobilitazione» dei neurotrasmettitori cerebrali durante l’attività ludica ha forti somiglianze con quella che si realizza durante azioni fondamentali per la sopravvivenza, come l’alimentazione
Giocare è fondamentale per lo sviluppo psicosociale dei giovani mammiferi, esseri umani compresi.
di Danilo Di Diodoro


È un’abilità sostenuta da un complesso meccanismo neurobiologico. Ad esempio, mentre si gioca, specie se in compagnia, c’è un incremento nella produzione di ossitocina , un ormone che aumenta socialità ed empatia.
Il gioco sa anche distrarre dai propri pensieri. Secondo Anne Stewart e collaboratori, della James Madison University di Seattle, è quello che accade anche quando ci si lascia ingannare dai prestigiatori, che sanno creare un’atmosfera giocosa e deviare l’attenzione degli spettatori.
Qualcosa di simile, afferma la ricercatrice americana, fanno gli psicoterapeuti della play therapy (terapia del gioco), utilizzata soprattutto con i bambini, sia a scopo diagnostico, sia terapeutico.
Del resto far giocare bambini sottoposti a un intervento chirurgico riduce il dolore.
Lo dimostra uno studio, pubblicato sulla rivista Pain Management Nursing , dalla dottoressa Ana Ullàn dell’Università di Salamanca, in Spagna, durante il quale è stato misurato il dolore in due gruppi di bambini operati, uno coinvolto in un programma di gioco, l’altro lasciato alle normali cure. In tre diverse misurazioni, il livello di dolore percepito dai bambini entrati nel programma di gioco risultava inferiore a quello del gruppo di controllo.
Una forma di gioco molto importante dal punto di vista psicologico è il gioco di finzione, quello del “facciamo finta che…” per il coinvolgimento che comporta delle strutture cognitive, e perché rompe i confini esistenti di norma tra immaginazione e realtà.
Quando il gioco comporta la trasformazione di uno stecco in una spada, il bambino mette in mostra abilità simboliche.
«Questo gioco è associato allo sviluppo del linguaggio e delle emozioni» dicono Jiayao Li e i suoi collaboratori del Department of Human Development and Family Studies dell’University of North Carolina, autori di un articolo pubblicato sull’ Early Childhood Education Journal . «Diversi studi di psicologia mostrano anche una relazione positiva tra questo tipo di gioco, la creatività, il possesso di abilità nell’affrontare varie situazioni». E questo modo di giocare diventa più frequente quando i bambini giocano all’aperto, dove ci sono più occasioni per inventare. Ma c’è “un’area cerebrale del gioco”? Quello che si sa è che dal punto di vista psicobiologico, per riuscire a giocare è indispensabile il buon funzionamento di un piccolo gruppo di cellule situate nelle profondità del cervello, che formano il nucleo accumbens . Un avanzamento nelle conoscenze della psicobiologia del gioco viene da uno studio pubblicato sulla rivista Neuropsychopharmacology da ricercatori italiani e olandesi, coordinato da Viviana Trezza del Dipartimento di Scienze dell’Università Roma Tre.
Lo studio è stato realizzato su piccoli ratti, caratterizzati da propensione al gioco sociale. «Abbiamo scoperto che quando nel nucleo accumbens sono stimolati i recettori della dopamina, sostanza liberata nel cervello in condizioni di piacere, la propensione al gioco tende ad aumentare» spiega la dottoressa Trezza. «Evidentemente c’è un incremento nel piacere associato alla socializzazione, ma si può anche ipotizzare che con questa scoperta il gioco entri a far parte delle necessità primordiali elaborate nel nucleo accumbens, come alimentarsi o riprodursi».
Può apparire azzardato il salto dall’osservazione sui ratti a conclusioni per gli esseri umani... «In realtà esistono studi di Risonanza magnetica funzionale che hanno dimostrato come l’attività del nucleo accumbens aumenti quando siamo coinvolti in occupazioni piacevoli» continua Trezza. «Quindi, è logico ipotizzare che l’attività del nucleo accumbens si incrementi anche quando un bambino gioca con i coetanei». Se il buon funzionamento del nucleo accumbens è indispensabile per lo sviluppo delle abilità sociali attraverso il gioco, questa struttura potrebbe essere coinvolta in patologie denotate da difficoltà proprio nell’area della socialità, come l’autismo. E nei bambini autistici spesso c’è una carenza nei giochi di finzione. Non riescono a inventare, mancano di immaginazione.
Spiega la dottoressa Paola Visconti della Neuropsichiatria Infantile, Centro per i disturbi dello spettro autistico, IRCCS-Istituto Scienze Neurologiche dell’Azienda Usl di Bologna: «Messi di fronte a giochi che attirano l’attenzione dei coetanei, questi bambini se ne disinteressano o li utilizzano in maniera stereotipata. L’incapacità nel gioco esprime non una mancanza di emozioni collegate agli oggetti, ma una specificità e ristrettezza di interessi. È una condizione causata dalla conformazione particolare delle loro strutture cerebrali acquisita per via genetica. Si parla attualmente di una ridotta connettività delle vie lunghe di trasmissione che collegano le regioni cerebrali anteriori con quelle posteriori e rendono così impossibile l’integrazione di sensazioni visive con quelle uditive e tattili, il che comporterebbe anche l’isolamento delle regioni temporali deputate al linguaggio.
«Al contrario — conclude Visconti — l’iperconnettività delle vie brevi, un eccesso di circuiti nervosi, potrebbe essere alla base della loro attenzione ai dettagli, quindi di un eccesso di stimoli sensoriali che li rende “sordi e ciechi” al nostro mondo sociale ed emotivo».

Corriere La Lettura 26.6.16
C’è vita nell’universo, molta vita
Gli scienziati di Kepler, un grande telescopio lanciato in orbita nel 2009, hanno da poco annunciato di avere scoperto 1.284 nuovi pianeti extra-solari (o esopianeti), cioè pianeti che ruotano attorno a una stella diversa dalla nostra. Tutto fa immaginare che ce ne siano miliardi, alcuni «ospitali». Il mondo
sta entrando in una nuova epoca
di Guido Tonelli


Stiamo entrando in una nuova epoca e nessuno sembra rendersene conto. Di tanto in tanto giornali e televisioni riportano qualche notizia; se ne parla per un paio di giorni poi tutto viene macinato dal tritacarne dell’attualità. L’ultima, di qualche settimana fa, riguarda Kepler, una sonda della Nasa che prende il nome dal grande astronomo tedesco. La sua missione è la scoperta di esopianeti, o pianeti extra-solari, che orbitano cioè attorno ad altre stelle; il fine ultimo è quello di identificare pianeti abitabili, simili alla nostra Terra.
Le primissime ricerche risalgono addirittura agli anni Quaranta, ma utilizzavano tecniche di osservazione piuttosto grossolane. Usando i migliori telescopi allora disponibili si cercavano nuovi sistemi solari sperando di osservare una perturbazione periodica nella posizione della stella-madre. È ben noto che, per le leggi della gravitazione, in presenza di un pianeta la stella-madre non sta ferma, ma compie anch’essa una piccola rotazione intorno al centro di massa del sistema. Tanto più massiccio è il pianeta tanto maggiore è lo spostamento periodico della stella. Il metodo, detto astrometrico , non ha portato a risultati di rilievo; sono stati identificati un gruppo di potenziali candidati ma nessuno è mai stato confermato.
Risultati molto più interessanti si sono avuti con il metodo della misura della velocità radiale . Il principio è lo stesso, si cerca di osservare il minuscolo spostamento periodico della stella-madre, ma la tecnica è basata su misure spettroscopiche che consentono maggiori precisioni. Si analizza lo spettro di emissione luminosa della stella e si controllano nel tempo le righe corrispondenti alle varie frequenze. Se la stella presenta un piccolo movimento orbitale causato dalla presenza di un pianeta, si misura una piccola variazione periodica in frequenza della sua emissione luminosa dovuta all’effetto Doppler. Quando la stella ha una velocità radiale positiva — cioè si avvicina al nostro punto di osservazione sulla Terra — le righe di emissione si spostano verso il blu, per poi passare dal lato opposto, verso il rosso, quando la stella si allontana. È lo stesso metodo che ci permette di riconoscere, dal suono della sirena, se un’ambulanza si sta avvicinando o si sta allontanando. Con la misura della velocità radiale della stella possiamo calcolare il periodo del moto orbitale del pianeta e la sua massa.
I primi pianeti extra-solari sono stati scoperti, con questo sistema, negli anni Novanta. Si trattava di enormi corpi celesti, simili al nostro Giove. Giganti caldi, per lo più gassosi, che gravitavano molto vicini alle loro stelle-madri e avevano quindi una temperatura superficiale spaventosa.
Il metodo della velocità radiale è limitato dal fatto che si deve osservare una stella per volta ed è efficace solo per stelle relativamente vicine a noi, si fa per dire, entro una distanza di circa 160 anni luce, mentre la stragrande maggioranza delle stelle della nostra galassia sta a distanze maggiori.
La vera rivoluzione nella caccia ai pianeti extra-solari è venuta da quando è stato messo a punto il metodo dei transiti . È una tecnica basata sulla fotometria di precisione, cioè si tiene sotto controllo la luminosità della stella e si misura la lievissima attenuazione della luce prodotta dal pianeta che le transita davanti. Anche in questo caso si richiede che la perturbazione, il segnale di transito, abbia carattere periodico. La forma caratteristica del disturbo permette di misurare le dimensioni del pianeta e questa informazione, combinata con la misura della velocità radiale che dà la massa, permette di conoscerne la densità.
In questo modo, da alcuni anni, la ricerca di nuove «Terre» ha ricevuto un impulso incredibile e si sono identificati i primi pianeti rocciosi simili al nostro.
Il grande vantaggio del metodo dei transiti è che si possono tenere sotto osservazione, in contemporanea, centinaia di migliaia di stelle e la sensibilità raggiunta dagli strumenti più moderni è tale che il campo d’azione si può estendere fino a distanze di migliaia di anni luce. La sensibilità del metodo è talmente spinta che si possono identificare pianeti addirittura più piccoli di Mercurio. Occorre poi considerare che, nel caso che il pianeta abbia una atmosfera, la luce della stella-madre giunge fino a noi dopo averne attraversato gli strati superiori. Misure accurate della polarizzazione della luce emessa dalla stella permettono quindi di ricavare informazioni essenziali sulla presenza di atmosfera nel pianeta.
L’unico problema del sistema dei transiti è che, per produrre segnali il punto di osservazione deve appartenere al piano delle orbite, cosa che statisticamente avviene solo per una frazione delle stelle osservate. Se poi si cercano pianeti simili alla Terra, che hanno una massa compresa fra metà e due volte quella del nostro pianeta, e che compiono una rivoluzione completa intorno alla loro stella in circa un anno, occorre aspettare molti anni per essere sicuri di avere visto un transito periodico.
Kepler è un grande telescopio lanciato in orbita nel 2009, che sorveglia da anni una piccola zona del cielo compresa fra le costellazioni del Cigno e della Lira. L’apparato tiene sotto controllo circa 150 mila stelle della nostra galassia, distribuite in una regione di dimensioni paragonabili a quella che copriamo con il palmo della nostra mano, se tendiamo il braccio verso il cielo.
La zona di osservazione copre un cono di circa duemila anni luce intorno al nostro Sole che si trova in Orione, un piccolo braccio secondario della spirale che costituisce la nostra Via Lattea. Il telescopio è ottimizzato per misure di fotometria e utilizza un sistema di camere fotografiche molto sofisticate, da 95 milioni di pixel, ma concettualmente simili a quelle che usiamo nei nostri cellulari.
Un mese fa gli scienziati di Kepler hanno annunciato di avere scoperto 1.284 nuovi pianeti extra-solari. La maggior parte dei nuovi corpi celesti sarebbero posti assolutamente inospitali, caratterizzati da atmosfere molto dense, composte essenzialmente da elio e idrogeno, e temperature torride alla superficie. Ma la novità davvero eclatante è la scoperta che pianeti simili alla Terra sono corpi celesti molto comuni fra quelli che orbitano intorno alle stelle. Fra i nuovi venuti almeno nove dovrebbero essere pianeti rocciosi che si trovano nella fascia cosiddetta abitabile, cioè a una distanza dalla stella-madre tale da consentire temperature simili a quelle che abbiamo qui da noi. Se un pianeta roccioso si trova nella fascia abitabile e contiene acqua, questa potrebbe formare laghi e oceani come quelli che sono così diffusi sulla nostra Terra. Ecco che, di colpo il numero dei nostri potenziali cugini è quasi raddoppiato. E la cosa sorprendente è che Kepler ha osservato soltanto una piccola porzione della nostra galassia. Si stanno già preparando nuove missioni e nuove campagne di osservazioni e nel prossimo futuro si costruirà una mappa sempre più dettagliata delle «nuove Terre». Nel giro di un paio d’anni sarà lanciato un nuovo telescopio per tenere sotto osservazione le 200 mila stelle più vicine a noi fra le quali ci si aspetta di scoprire 500 pianeti rocciosi simili al nostro.
La nostra Via Lattea contiene circa 200 miliardi di stelle ed è soltanto una fra cento miliardi di galassie che popolano il nostro universo. I numeri fanno impressione: se soltanto una stella su diecimila ospitasse pianeti rocciosi nella fascia abitabile dovremmo accettare l’idea che il numero di «Terre» della nostra galassia, quindi astronomicamente vicine a noi, potrebbero essere decine di milioni. Se si considerano i 100 miliardi di galassie dell’Universo intero si potrebbe raggiungere la cifra fantastica di miliardi di miliardi. Insomma c’è pieno di pianeti abitabili intorno a noi ed è molto probabile che ci sia abbondanza di forme di vita nell’universo. Non c’è alcun motivo di credere che acqua e materia organica siano componenti ultra rari.
Fra qualche tempo saremo in grado di analizzare la composizione dell’atmosfera dei nuovi pianeti che orbitano nelle fasce abitabili per cercare eventuali composti organici, chiari indizi della presenza di forme di vita simili a quelle che ci sono familiari.
Non mi interessa qui discutere il problema delle distanze e neanche la tecnologia con cui potremo stabilire una comunicazione o un contatto. Sarebbe sciocco argomentare oggi intorno a questioni che, ne sono sicuro, faranno sorridere gli scienziati del futuro.
Vorrei invece sottolineare la necessità di prepararsi a quello che sarà sicuramente un grosso choc culturale. Un’umanità che fa fatica a convivere con se stessa, sarà in grado di superare la crisi di valori legata alla scoperta di altre forme di vita? Che rapporti instaureremo fra noi, per prepararci a queste prime forme di contatto con «gli altri»? Noi che nella colonizzazione della terra non siamo stati capaci di praticare altro che depredazione e spoliazione delle popolazioni con cui siamo venuti in contatto, accetteremo di essere «i primitivi» al cospetto di civiltà che si sono sviluppate qualche milione di anni prima di noi? E viceversa, quali relazioni saremo in grado di instaurare con forme di vita, magari simili alle nostre, ma che ci potranno apparire a un livello di sviluppo primordiale? È pensabile che si cominci a ragionare dei problemi etici connessi a questo passaggio? Noi che non siamo in grado di gestire l’integrazione di alcuni milioni di rifugiati o di emigranti che sfuggono la guerra o precarie condizioni di vita, con quali strumenti culturali arriveremo a questo appuntamento che ci chiama a un salto di civiltà?
I nostri pronipoti vedranno un mondo che noi, oggi, possiamo solo immaginare. Riusciremo ad attrezzarci nel giro di qualche generazione a questo cambio di paradigma sul piano antropologico?

Corriere La Lettura 26.6.16
Obiettivo Alfa: un altro Sole un’altra Terra
di Christophe Galfard


Sapete cos’è un pianeta? Pensiamo tutti di saperlo, ma sapreste darne una definizione, ad esempio parlandone a un bambino? Stranamente non è poi così semplice. Prima del 2006 — dunque dieci anni fa, non un secolo fa — non esisteva neppure una definizione ufficiale. Solo la parola. Pianeta. Parola che abbiamo ricevuto in eredità dai nostri antenati greci. Per loro questa parola aveva un significato particolare, legato a una strana osservazione, che possiamo fare ancora oggi.
Immaginate di trovarvi all’aperto, in una notte d’estate. Volgete tranquillamente il vostro sguardo verso il cielo e sognate le stelle. Vi proiettate per qualche istante nell’immensità del cosmo, un’immensità che ci invade, ma che, tutto sommato, ci fa del bene. Talmente bene che ritornate il giorno dopo, e quello dopo ancora, e tutti i giorni seguenti, alla stessa ora, per poter continuare il vostro sogno. Da fini osservatori, vi rendete rapidamente conto che alcuni dei punti che luccicano nella notte al di sopra delle vostre teste non si muovono come tutti gli altri. Quasi tutte le stelle si spostano tranquillamente da est a ovest, come fossero attaccate a una sfera trasparente che ruota intorno alla Terra.
In realtà non si muovono affatto, certo. È il movimento della Terra che, girando su se stessa, ci dà questa impressione. Ma non tutte obbediscono a questo movimento collettivo. Alcuni di quei punti luminosi non sembrano affatto attaccati a quella sfera. Alcuni addirittura tornano indietro nel loro cammino e disegnano un anello nel cielo prima di riprendere il loro corso. Questi strani corpi celesti venivano chiamati dai greci stelle viaggianti, o vagabonde. In greco vagabondo si dice plànetes , che nella nostra lingua diventa «pianeta».
Questi punti luminosi che non ruotano come gli altri sono Giove, Saturno, Marte e Venere (quelli che possono essere visti a occhio nudo) e Nettuno, Urano e Mercurio. Non sono stelle. Non brillano di luce propria. Se li vediamo nel cielo è perché riflettono la luce del Sole, il quale sì, è una stella. C’è stato poi bisogno di un certo periodo di tempo per realizzare che la Terra sulla quale noi viviamo è anch’essa un pianeta. E abbiamo dovuto attendere il 2006 — appunto — perché l’Unione Astronomica Internazionale si mettesse d’accordo su una definizione fisica del significato di questo termine.
Dal 2006, dunque, devono essere soddisfatte tre condizioni per far sì che un corpo celeste possa ambire al titolo di pianeta. Eccole. La prima è che il candidato in questione deve girare attorno al Sole e non attorno a qualcos’altro. La Luna, ad esempio, gira attorno alla Terra. Quindi non è un pianeta. È una luna. La seconda condizione per parlare di pianeta è che deve essere tondo. Gli asteroidi, quelle rocce che galleggiano nello spazio vuoto, con la loro forma di patata, non sono pianeti. Sono asteroidi. E che cosa deve succedere perché un corpo celeste sia tondo? È necessario che abbia una massa sufficiente. È la gravità, se sufficientemente forte, con la sua capacità di attirare ogni cosa verso il centro, che trasforma tutto in una palla. La terza condizione per essere un pianeta è che il candidato, rotondo e che gira attorno al Sole, deve aver liberato la sua orbita da tutti i residui che potrebbero essere rimasti. Polveri, rocce, eccetera devono essere scomparsi. Non è così per Plutone, ad esempio, che è tondo, gira attorno al Sole, ma non ha ripulito la sua orbita. Per questo motivo non è più un pianeta. Si dice che è un pianeta nano, o uno pseudopianeta. C’è chi ha trovato la cosa triste, ma se Plutone è stato declassato è perché non è il solo. Oggi conosciamo cinque pianeti nani, ufficialmente riconosciuti come tali. Si chiamano Eris, Ceres, Plutone, Haumea e Makemake. Probabilmente ce ne sono decine d’altri che ancora devono essere scoperti. Alla fine, solo otto astri a noi noti obbediscono ai tre criteri necessari per essere chiamati pianeti. Sono Mercurio, Venere, la Terra, Marte, Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Alla fine, dunque, non sono molti. Ma se facciamo a meno del primo criterio, se non esigiamo più che l’astro in questione ruoti attorno al Sole, allora ci attende una sorpresa.
Si entra nella categoria degli esopianeti. Un esopianeta è come un pianeta, ma non gira attorno al Sole. La sua (o le sue, se ce n’è più d’una) stella è diversa dalla nostra.
Altri mondi
Da molto tempo — e intendo secoli — i nostri antenati si sono posti la seguente domanda: esiste un’altra (o molte altre) Terra da qualche parte nello spazio? È possibile che altri mondi orbitino intorno a stelle diverse dal Sole. Naturalmente i nostri antenati non usavano questi termini, ma tra loro c’era chi era già convinto che sì, là in alto esistevano altri mondi, da qualche parte nell’immensità del cosmo. Alcuni di questi visionari coraggiosi ricevettero come ricompensa il privilegio di essere arsi vivi. Eppure avevano ragione.
Oggi ne abbiamo le prove. Sono stati due astronomi svizzeri — Michel Mayor e Didier Queiroz — ad avvistare un esopianeta per la prima volta nella storia dell’umanità. L’hanno chiamato 51 Pegasi b. Era il 1994. Ventidue anni fa. Noi siamo quindi la prima generazione umana a poter affermare con tanto di prove che sì, esistono altri mondi. Oggi, mentre sto scrivendo queste righe, sono noti 3.272 esopianeti. E ce ne sono altri 4.696 in attesa di conferma, il che significa che per questi sono necessarie osservazioni aggiuntive prima di poter affermare la cosa con certezza. Ma questa cifra non dà un’idea accurata del numero di esopianeti esistenti, dal momento che naturalmente non li abbiamo ancora scoperti tutti. La tecnologia impiegata finora per osservare gli esopianeti non ha indagato che un’infima porzione del cielo. Ci sono stelle che non hanno esopianeti nelle loro orbite, ma ce ne sono altre che ne hanno molti. Prendendo in considerazione ogni cosa, contando quelle che ne hanno molti e quelle che non ne hanno affatto, gli scienziati oggi stimano che nella nostra galassia dovrebbero esserci, in media, un po’ più di due pianeti per stella. Questo porterebbe a supporre la presenza di circa 600 miliardi di esopianeti. Solo nella nostra galassia. E di galassie ce ne sono miliardi.
Carl Sagan, il celebre astronomo, ha scritto: «Se siamo soli nell’universo, che posto disordinato deve essere!».
Ma concentriamoci solo sugli esopianeti che conosciamo già e poniamoci un’altra domanda: potremmo mai raggiungere uno di questi mondi un giorno, o inviare un satellite per poterlo osservare da vicino e, magari, scoprire se ospita la vita? Finora nessuno è stato abbastanza pazzo da pensare di poter spedire un oggetto qualsiasi verso un’altra stella. Le distanze, davvero fenomenali, sembrano invalicabili. Ma tutto questo potrebbe essere sul punto di cambiare.
Il primo viaggio interstellare
Nello spazio ci sono stelle ovunque. Deve per forza essercene una che si trovi più vicina al Sole rispetto alle altre. Si chiama Proxima Centauri. Proxima Centauri è una stella minuscola, di un tipo che gli scienziati chiamano nana rossa. Le nane rosse sono molto meno calde del Sole, ma vivono molto, molto più a lungo. Il nostro Sole è una stella solitaria; Proxima Centauri invece fa parte di un piccolo gruppo di tre stelle, chiamato Alfa Centauri. Gli altri due membri del gruppo sono ben più brillanti e ben più vicine tra loro rispetto a Proxima. Si possono vedere bene di notte dalla Terra. Formano un punto, il terzo più brillante del cielo, osservabile però solo dall’emisfero australe.
Attorno alla più piccola di queste due stelle sono stati osservati due esopianeti. Non sono così diversi per dimensioni rispetto alla Terra, ma le loro orbite li rendono piuttosto inospitali: sono troppo vicini alla loro stella e hanno dunque temperature davvero troppo elevate perché si possa sperare di trovarci la vita, almeno così come la conosciamo qui sulla Terra. Ma il fatto stesso che ne abbiamo trovati due, apre l’eccitante prospettiva di trovarne altri, che potrebbero magari avere delle temperature di superficie più clementi.
Se fosse così, non si potrebbe trovare un luogo migliore per iniziare le nostre ricerche sulla vita extrasolare.
Ma è un luogo lontano.
Molto lontano.
Con le attuali tecnologie, con le velocità che al giorno d’oggi possiamo imprimere ai nostri satelliti, dovremmo prevedere un viaggio di circa 30 mila anni.
Ed è qui che Stephen Hawking e Yuri Milner entrano in gioco. Il 12 aprile scorso, in occasione del cinquantacinquesimo anniversario del primo volo spaziale di Yuri Gagarin, Yuri Milner (che si chiama così in omaggio al primo Yuri) ha annunciato il suo progetto — denominato Breakthrough Starshot — di inviare un satellite proprio lì, e con un viaggio di soli vent’anni. Ora la cosa diventa molto più interessante. L’idea, naturalmente, non è quella di usare un normale satellite, bensì un satellite che pesa... meno di un grammo. Un nanosatellite.
È chiaro che la tecnologia per farlo ancora non esiste. Ma non dobbiamo inventare proprio tutto. Ad esempio, esistono già delle macchine fotografiche che pesano quasi nulla, come quelle che si trovano nei nostri telefoni cellulari. Si tratterebbe solo di migliorarle. Per contro, ci sono altri problemi completamente inediti. Eccone uno: come fare a fabbricare un motore a razzo che pesi così poco? La risposta tecnologica che è stata proposta è sconcertante: non utilizziamo alcun motore. L’idea di Milner e Hawking per raggiungere Alfa Centauri è quella di imprimere la spinta al nanosatellite direttamente dalla Terra utilizzando un laser superpotente.
Il nanosatellite, con la sua batteria e la sua macchina fotografica, verrebbe montato su una specie di vela di 4 metri per 4, che verrebbe spinta da un laser, costruito su una montagna dell’emisfero australe, come se ci soffiasse dentro, fino a che l’apparato non raggiunga una velocità prossima ai 160 milioni di chilometri orari. È terribilmente veloce. C’è da sperare di non trovare delle rocce lungo il cammino. D’altra parte, fare la cartografia di tutti i potenziali pericoli del tragitto fa parte dello scopo della missione. E accade che — che colpo di fortuna! — per raggiungere Alfa Centauri il nostro minuscolo satellite non dovrà neppure attraversare il Sistema solare, bensì uscirne, per rendere le cose semplici, in verticale. Attorno al Sole non c’è altro che pianeti che girano in tondo e innumerevoli zone di polvere e rocce. Ma tutti questi oggetti, potenzialmente catastrofici per una simile missione, sono più o meno distribuiti come su un piatto, all’interno di una specie di disco centrato sul Sole; e il sistema di stelle di Alfa Centauri non si trova su questo piano. Ne sta al di sotto. Il nanosatellite, quindi, potrà (e dovrà) abbandonare subito la zona più pericolosa.
Una volta fuori, non c’è che il vuoto interstellare e ci sono ben poche probabilità che incontri delle polveri più grosse dello spessore di un capello. E comunque, per ovviare anche a questa eventualità, la squadra di ingegneri incaricata di portare a compimento il progetto dovrà trovare delle soluzioni che, visto il peso massimo dell’apparato, non risulteranno affatto semplici. A 160 milioni di chilometri all’ora una collisione, per quanto piccola, non perdona. Immaginando che la missione veda la luce e che tecnicamente riesca a svilupparsi, sarebbe la prima volta nella storia dell’umanità che un oggetto umano raggiunge un’altra stella. Si sarebbe così aperto il cammino dei viaggi interstellari, anche se si tratterebbe — è chiaro — di un viaggio di sola andata. Spedire degli esseri umani laggiù è tutto un altro paio di maniche.
Ma se quel nanosatellite trovasse, per caso, un pianeta abitabile, allora, secondo me, le tecnologie per spedire anche degli uomini e delle donne non tarderebbero a fiorire.
(traduzione di Michele Luzzatto)

Corriere La Lettura 26.6.16
Ali diede agli Usa una fede plurale

What can you give me, America , «cosa puoi darmi, America, in cambio del tradimento della mia religione?». C’è questo in palio, per il venticinquenne Muhammad Ali, nell’obiettare alla guerra in Vietnam: se accettasse un posto di comodo adatto al campione del mondo, se evitasse le sanzioni, tradirebbe la sua fede, calpesterebbe la propria coscienza di credente in pace col mondo. Nel 1967 Ali è musulmano da tre anni, dalla vigilia del match con Sonny Liston che gli ha dato il titolo mondiale. Il suo no al Vietnam lo terrà lontano dal ring fino al 1970. L’ex Cassius Clay sfida la religione della razza bianca, il cristianesimo segregazionista che al nero inculca l’inevitabilità della sofferenza e della sottomissione. I bianchi attaccano noi neri: «Non ci chiedono qual sia la nostra religione né in cosa crediamo». La religione di Ali combatte. Osa sfidare quest’America che non può «dare» nulla che valga l’abiura. Nelle celebrazioni seguite alla morte del campione, il 3 giugno, il suo islam è salutato come la prova dell’originalità di un uomo unico, oppure, come scrive Cooper Harriss nel blog della Divinity School dell’Università di Chicago, come simbolo del passaggio da un’America dominata dal protestantesimo a un’America religiosamente plurale. Se nell’icona di The Greatest gli Stati Uniti celebrano oggi anche la sfida religiosa di Ali è perché questa, in fondo, ha confermato l’eccezionalità della religione americana. La fede di Muhammad Ali è stata muscolare, esigente, competitiva, ha spinto al miglioramento sociale ed economico e poi, raggiunto il successo, alla generosità. La conversione, e l’approdo a un sunnismo lontano dalla Nation of Islam hanno incarnato il modello di un credente sempre sul mercato, ansioso di scegliere e rinnovarsi, pronto a trasformare sette perseguitate in chiese potenti. Sembrava poter rompere gli equilibri, il Dio di Ali, ma l’America gli ha infine «dato» il bisogno di stabilire armonia tra individuo e società. E infatti, come ha scritto Kareem Abdul-Jabbar, altro campione nero convertito all’islam, Ali e il mondo «erano davvero una gran bella coppia».

Corriere La Lettura 26.6.16
Spose bambine, nessuna festa per i diritti
di Alessandra Coppola


Il matrimonio precoce non fa la felicità. Nei calcoli sul livello di sviluppo dei Paesi abbassa gli indici, è considerato spia di malessere, segnale di scarsa attenzione all’infanzia. Ed è anche una violazione dei diritti umani. Eppure è prassi diffusa in molta parte del mondo, sperimentata da 700 milioni di donne. In Niger il 77% della popolazione femminile tra i 20 e i 49 anni è andata in sposa prima di diventare maggiorenne. La stessa sorte è toccata solo al 5% degli uomini. La questione, in Ciad come in Bangladesh, riguarda prevalentemente le bambine. «È una manifestazione di disuguaglianza di genere — sottolinea il dossier dell’Unicef sul tema — e riflette norme sociali che perpetuano la discriminazione contro le ragazze».
Sono paletti fissati a Occidente, certo, che non tengono conto delle usanze locali, dell’antropologia, della necessità. Ma ruotano attorno alla tutela dei bambini, sulla quale tutti i Paesi Onu hanno concordato alla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989. Se ci fossero dubbi, basterebbe un dato: i matrimoni precoci sono più diffusi tra i poveri che tra i ricchi. In India l’età media del primo sposalizio è di 19,7 anni tra le ragazze benestanti; scende a 15,4 nei quartieri depressi.
Non è solo tradizione, allora: è spesso mancanza d’alternative. Tra i profughi siriani impantanati in Libano una sposa bambina diventa una risorsa quando i risparmi sono finiti e le possibilità di lavoro sono pari a zero: serve a garantirsi l’affitto di un campo o a ripianare il debito col proprietario. Con quali conseguenze? «Alle ragazze — continua il rapporto Unicef — non viene solo negata l’infanzia. Sono spesso socialmente isolate, tagliate fuori dalla famiglia e dagli amici; con opportunità limitate di istruzione e impiego». Una generazione in balìa di mariti adulti che non s’aspettano di dover provvedere alla loro crescita. In Malawi i due terzi delle donne che non sono andate a scuola sono state sposate minorenni. Spesso diventano madri bambine e hanno precocemente tanti figli a cui badare. In Nepal, un terzo delle donne tra i 20 e i 24 anni andate in moglie prima dei 15 anni hanno partorito tre o più volte; in confronto all’1% delle loro coetanee sposate maggiorenni. Senza contare le implicazioni sanitarie di gravidanze adolescenti.
Lentamente, si registra qualche progresso. Negli anni Ottanta era una giovane donna su 3, oggi è una su 4. In Africa e in Asia, soprattutto. Ma anche in Italia.

Corriere La Lettura 26.6.16
L’invenzione del Medioevo
All’inizio furono Ludovico Ariosto, Hieronymus Bosch e Walter Scott. Da ultimi sono arrivati «Il Signore degli Anelli» e «Il Trono di Spade», film e videogiochi: «Dungeons
and Dragons», «Ghost Rider», «Dante’s Inferno». Così sono cambiate la percezione
e la fascinazione verso una stagione che ha rivoluzionato architettura e urbanistica, commerci e professioni, fino agli studi (universitari) e alla stessa forma mentis della società
di Marcello Simoni


Se parliamo di Medioevo, l’equivoco più insidioso — quello capace di far rizzare i capelli a qualsiasi storico — consiste nell’attribuire i valori più autentici di quest’epoca alla narrativa fantasy. Accade soprattutto di questi tempi, galeotto il successo di serie televisive e cinematografiche che hanno riportato in auge non solo il fascino dei cosiddetti secoli bui, ma anche una sottocultura popolare basata sulla moda gotica, sulle leggende del Graal e sui giochi di ruolo. Ingigantendo l’equivoco. Benché saghe di grande fascino come Il Signore degli Anelli e Il Trono di Spade si avvalgano di ambientazioni appartenute a epoche passate, le utilizzano infatti per plasmare una fiction in cui la verosimiglianza si indebolisce e i riferimenti storici esprimono soltanto un’idea imprecisa di tempi remoti. Per inciso, i romanzieri e i registi contemporanei non sono i primi ad aver operato un simile esperimento. Basti pensare a Ludovico Ariosto, a Matteo Maria Boiardo, a Luigi Pulci e agli epigoni del ciclo bretone e carolingio. Il conte Orlando con la sua spada incantata, il gigante Morgante, mago Merlino e re Artù vivono nel nostro immaginario da circa ottocento anni, quasi quanto la favola di Cappuccetto Rosso.
Allo stesso modo, i draghi della conturbante Daenerys Targaryen di R. R. Martin e quelli del film post-apocalittico Reign of Fire con Christian Bale nascono dalle remote icone di san Giorgio «cavaliere» intento a trafiggere il draco serpentiforme, dapprima senza ali e poi con quelle di pipistrello, a imitazione dei più antichi demoni cinesi.
Se poi ci allontaniamo dalla fiction e prendiamo come riferimento il quotidiano, ci rendiamo conto che il nostro immaginario collettivo, forgiato da genealogie di figure eroiche e di mostruosità, continua ad attingere senza sosta dalle pitture visionarie di Hieronymus Bosch, per mezzo del quale il bestiario medievale s’intreccia alle diavolerie alchemiche che ancora oggi attribuiamo all’evo di mezzo. Eppure non tutto è vero. Le streghe, per esempio, appartengono più alle ossessioni dell’età moderna che a quelle del Medioevo (durante il quale si bruciavano per lo più gli eretici), mentre l’Inquisizione (romana e spagnola) attraversa il suo periodo più cupo tra il Cinque e il Seicento. Attenzione pertanto a distinguere il Medioevo vero da un suo miraggio idealizzato. E attenzione, per dirla tutta, al carrozzone «protomassonico» dei nuovi Templari, degli Illuminati, del Priorato di Sion e compagnia bella, che per la maggiore consiste in un revival di elementi morti e sepolti, interpolati o addirittura inventati di sana pianta.
Torniamo quindi all’equivoco iniziale, ovvero alle ragioni che oggigiorno sovvertono la percezione del Medioevo, banalizzandolo a una partita di Dungeons and Dragons . Non possiamo ricercarne le origini nel fantasy, né tantomeno nella creatività di un qualsivoglia autore contemporaneo intento a mettere in scena castelli tenebrosi o macabre pestilenze. Più che cause scatenanti, queste sono conseguenze di un effetto farfalla proveniente dall’Ottocento.
È da questo secolo, infatti, che giunge a noi la fascinazione narrativa dell’età feudale, strumentalizzata dal romanzo storico per dare voce agli ideali del Romanticismo. Il capostipite di questa tendenza è Ivanhoe di Walter Scott (1819), seguito da Adelchi di Manzoni (1822) e da Notre-Dame di Victor Hugo (1831). Queste opere rappresentano il punto d’origine di un delta letterario che, aprendosi, sfocia nell’attuale babele dell’ historical fiction . E si badi bene, i loro personaggi incarnano la stessa mentalità che vibra nel melodramma wagneriano di Tristano e Isotta e nelle saghe nordiche del popolo germanico. Sono più patriottici che verosimili, più «romantici» che medievali.
Non è soltanto questo, tuttavia, il retaggio che il Medioevo lascia al XXI secolo. Non quello autentico, per lo meno. Potrei dare enfasi a questa affermazione descrivendo l’impianto urbanistico di borghi antichi come Assisi, Urbino o Soncino, alla presenza di edifici portentosi come il Duomo di Ferrara, Castel del Monte, la Sagra di San Michele. Preferisco tuttavia andare alla ricerca di un Medioevo più «sottile», quello che permea la vita di tutti noi ogni volta che ci mettiamo a ragionare. Perché è qui che affondano le radici della nostra forma mentis . Dobbiamo essere grati alle scuole di Toledo e del sud Italia, meritevoli d’aver salvato le opere di Aristotele e di altri filosofi dell’antichità, traducendoli dall’arabo dopo secoli di oblio. Ma siamo grati pure a teologi della levatura di Agostino d’Ippona, Tommaso d’Aquino e Pietro Lombardo, che assimilando quel sistema di pensiero lo trasmisero al Medioevo biblio-monastico — da Montecassino a Cluny, da Pomposa a San Gallo — prosperato fino ai nostri giorni.
La forma mentis di cui parlo, tuttavia, vanta anche un’origine laica sviluppatasi in seno al Duecento, di pari passo all’affermazione di un nuovo ceto, «borghese», rappresentato da schiere di mercanti, notai, medici e banchieri sempre più istruiti e consapevoli di sfilacciare le maglie del vecchio ordinamento sociale fino ad allora suddiviso in chierici, guerrieri e contadini. In un simile contesto — e solo in Occidente — nascono le università, che accrescendo nel corso dei secoli la loro importanza formeranno generazioni di studenti fino a plasmare il volto del mondo odierno.
Non fu da meno l’apporto di singoli pensatori come Michele Scoto, che nel XIII secolo frequentò lo Studium di Bologna, di Parigi e di Oxford per poi diventare magus , medicus e consigliere presso Federico II. Tenendosi sempre in contatto con il mondo arabo, egli fu impegnato a saziare la smisurata curiosità dell’imperatore svevo. A tal fine scrisse un Liber introductorius che descriveva la natura dei vulcani, la profondità dei mari e, al contempo, vagheggiava su macchine in grado di esplorare gli abissi e di innalzarsi fra le nuvole. Il più grande apporto di questo magus al pensiero contemporaneo fu però nel campo dell’astronomia, che all’epoca veniva considerata un tutt’uno con l’astrologia e importante quanto la teologia, dacché insegnava a cogliere i segni di Dio nella disposizione delle costellazioni. Ebbene, Scoto fu il primo a definire il movimento degli astri rigettando lo schema tradizionale delle stelle fisse, paragonandolo a una moltitudine di carri che solcano i cieli seguendo delle orbite ellittiche.
L’evo di mezzo è giunto fino a noi anche sotto altre, impensabili forme. È a quei tempi che appartengono l’invenzione dell’orologio, degli occhiali da vista, del gioco degli scacchi, della polvere da sparo, del rosario, dei tarocchi, del mulino a vento e persino del gioco del calcio (in Francia detto soule ). Grazie ad autentici geni come Papa Silvestro II e Leonardo Fibonacci importammo l’uso dei numeri arabi, la geometria e l’algebra. Sempre nel Medioevo si può riconoscere l’infanzia dei comuni (sorti a partire dal Duecento) e, secondo Le Goff, della stessa Europa.
Esiste d’altro canto un Medioevo popolaresco, ancora riconoscibile in famose ricorrenze come il carnevale di Ivrea o la Corsa dei Ceri di Gubbio (tenuta ogni anno il 15 maggio in ricordo dell’assedio di Federico Barbarossa), ma anche un Medioevo sacro. Da quest’ultimo provengono la festività del Corpus Domini, l’impostazione della preghiera a mani giunte, la concezione del Purgatorio e il culto di santi ancora molto venerati, come Francesco d’Assisi, Benedetto da Norcia e Antonio da Padova. E Nicola di Mira, le cui reliquie furono traslate dalla Turchia a Bari nel 1087 in seguito a uno di quegli avventurosi furta sacra descritti nei legendarii vergati dai monaci amanuensi. Da allora la figura del patrono barese si è scissa, dando origine da un lato — per via nordica — alla figura di Santa Claus e dall’altra a quella di Cola Pesce, tanto cara al trovatore tolosano Raimon Jordan e, più di recente, a Italo Calvino.
È proprio Calvino, con il suo Medioevo surreale e fiabesco parallelo a quello di Queneau ( I fiori blu ), a far approdare sui nostri lidi il volto di un’epoca fatta di curiosità, labirinti e misteri. Si pensi alla trilogia degli «antenati» e al Castello dei destini incrociati , ma soprattutto alle Città invisibili . È proprio tra queste pagine che incontriamo un Marco Polo disincantato e sognatore, un semiologo dell’effimero che racchiude dentro di sé lo spirito del Marco Polo realmente vissuto, insieme all’affabulazione di Rustichello da Pisa, lo scrittore che conobbe in carcere il mercante veneziano e probabilmente lo aiutò a mettere nero su bianco, nel Milione , le sue esperienze e le sue fantasie.
È precisamente da questo, dall’ambizione narcisistica di scrivere di noi stessi tramutando l’io vero in io narrativo, consapevoli che ciascuno di noi sia diverso dal prossimo, proprio da questo, dicevo, che scaturisce la rivoluzione antropologica del pensiero medievale. Quella che più di ogni altra cosa sopravvive dentro di noi contemporanei: la libertà di essere ciò che vogliamo, a costo di reinventarci, di mentire, di scavalcare i confini che separano il reale dalla fantasia. Oppure di calarci nei baratri più profondi e spaventosi dell’oltretomba come fece Dante, padre delle visioni più sublimi, dell’arte del simbolo ma anche delle nostre paure ultraterrene. Neppure l’Alighieri, d’altro canto, è sfuggito all’odierno gusto del kitsch che fagocita ogni cosa e la sputa trasmutata, o riciclata, quasi ci trovassimo davanti a uno di quei Gorgoneion intenti a masticare i dannati nei Giudizi Universali. Risorto infatti in un celebre videogame, Dante’s Inferno , fa il verso a un Medioevo visionario, ferocissimo e tutto sommato godibile.
Del resto, in un gioco distorto che ha visto cadere quest’epoca tanto bistrattata persino nelle mai di Sam Raimi ( L’armata delle tenebre ), non ci si stupisca troppo di veder comparire tra gli albi a fumetti anche i cavalieri delle apocalissi gotiche. Ora cavalcano destrieri d’acciaio rombante e si fanno chiamare Ghost Rider , ma non lasciatevi ingannare: come accade da secoli, sono avvolti dallo zolfo delle leggende medievali.

Il Sole Domenica 26.6.16
Einstein e Schrödinger
Amici in «entanglement»
di  Vincenzo Barone


Il sodalizio a Berlino, poi la separazione con la guerra. Ma il legame è sempre rimasto vivo all’insegna della comune critica all’interpretazione standard della meccanica quantistica
Nonostante la sua diffidenza nei confronti della meccanica quantistica (di cui era stato uno dei pionieri), nel 1931 Einstein candidò al Nobel Werner Heisenberg e Erwin Schrödinger, i due creatori della nuova teoria. Nella lettera inviata all’Accademia svedese delle Scienze mise in particolare rilievo il contributo di Schrödinger, che per generazione e mentalità scientifica era più vicino a lui e, soprattutto, aveva formulato la meccanica quantistica in una versione che risultava più accettabile (e comprensibile) per chi, come il padre della relatività, possedeva una formazione fisica di tipo classico. Puntualmente, nel 1933, Heisenberg e Schrödinger, assieme a Paul Dirac, si ritrovarono a Stoccolma per ricevere il prestigioso riconoscimento: al primo andò retroattivamente il premio del 1932; gli altri due condivisero quello del 1933.
Schrödinger era allora collega di Einstein all’Università di Berlino, avendo occupato la cattedra lasciata libera per raggiunti limiti di età da Max Planck. Come racconta Paul Halpern in un bel libro dedicato al rapporto tra questi due giganti della fisica, Einstein e Schrödinger strinsero proprio nel periodo berlinese un forte legame di amicizia, cementato, oltre che da lunghe gite nei boschi e in barca a vela, dal comune interesse per i fondamenti e le implicazioni filosofiche della fisica. «L’uno e l’altro – scrive Halpern – si trovavano più a loro agio parlando di come le concezioni di Spinoza e di Schopenhauer si applicassero alla scienza odierna che discutendo degli ultimi risultati sperimentali». Inoltre, Schrödinger era uno dei pochi a simpatizzare con i dubbi di Einstein sull’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica, la «tranquillizzante religione di Heisenberg e Bohr».
L’avvento di Hitler separò i due amici: Einstein si trasferì negli Stati Uniti, a Princeton; Schrödinger, pur non essendo ebreo, lasciò la Germania nazista e accettò un posto a Oxford. Là, nel 1935, venne a conoscenza del lavoro che Einstein aveva scritto in collaborazione con Podolsky e Rosen per dimostrare che la meccanica quantistica era incompleta (cioè incapace di descrivere alcuni «elementi di realtà»). Fu, anche per lui, l’occasione per tornare sull’argomento, con un lungo articolo in cui formalizzò per la prima volta il concetto di entanglement (l’«intreccio» di certi sistemi quantistici, tali che una misura effettuata su una loro componente influenza istantaneamente le proprietà di un’altra componente) e introdusse il celeberrimo esperimento – fortunatamente solo ideale – del gatto.
All’interno di una scatola, il decadimento di un nucleo radioattivo provoca la fuoriuscita di veleno, fatale per un povero felino; quantisticamente il sistema è descritto da una sovrapposizione di due stati, nucleo non decaduto/gatto vivo e nucleo decaduto/gatto morto, e non si può dire con certezza se il gatto sia vivo o morto finché non si osserva l’interno della scatola: è questo atto che riduce il sistema a uno dei due stati, determinando il destino dell’animale. Schrödinger riteneva di aver mostrato, con il suo esempio, a quali paradossi poteva condurre la meccanica quantistica se applicata a oggetti macroscopici, come un apparato di misura, o magari un essere vivente. Einstein fu entusiasta: «Il tuo esempio del gatto – scrisse all’amico e collega – mostra che siamo completamente d’accordo. Una funzione d’onda in cui sono compresi sia il gatto vivo sia il gatto morto non può essere considerata la descrizione di uno stato reale».
La fisica di Schrödinger e quella di Einstein continuarono a «intrecciarsi»” (è il caso di dirlo) ancora per lungo tempo. A partire dal 1939 Schrödinger si stabilì a Dublino su invito di Éamon de Valera, leggendario leader indipendentista e Primo ministro irlandese. Di professione insegnante di matematica, de Valera voleva che l’Irlanda riacquistasse prestigio mondiale in campo scientifico, rinverdendo la fama conquistata nell’Ottocento con il grande matematico William Rowan Hamilton. Per realizzare questo “Rinascimento gaelico” istituì a Dublino l’Institute for Advanced Studies, sulla falsariga dell’analogo centro di ricerca sorto a Princeton (che aveva Einstein come membro più illustre), e chiamò a farne parte Schrödinger, il quale, oltre a essere uno dei fisici più famosi del mondo, aveva ai suoi occhi il merito di aver basato il formalismo della meccanica quantistica proprio sulla funzione chiamata «Hamiltoniana».
Negli anni dublinesi, sotto l’ala protettrice e lo sguardo attento di de Valera, che non perdeva occasione per amplificare qualunque risultato scientifico conseguito in terra irlandese, Schrödinger coltivò principalmente due interessi: da un lato, lo studio dell’ereditarietà, con la straordinaria intuizione– divulgata nel famoso ciclo di lezioni Che cos’è la vita? – che l’informazione genetica fosse codificata in un «cristallo aperiodico» (il DNA, come si sarebbe poi scoperto, era qualcosa del genere), dall’altro la ricerca di una teoria unitaria delle forze. Fu in quest’ultimo ambito che si consumò tra lui e Einstein (alle prese da tempo con lo stesso problema) una temporanea incomprensione: una sua intervista un po’ avventata al giornale di de Valera, in cui sosteneva di aver battuto il vecchio amico nella corsa alla teoria del tutto, provocò un’ondata di clamore mediatico e la risposta risentita di Einstein. Ci volle qualche anno per superare lo screzio, ma alla fine i due tornarono a fare quello che avevano sempre fatto: discutere di quanti e di filosofia.
«Le vite di Einstein e Schrödinger – conclude Halpern – mostrano la profonda umanità di due fra le menti più brillanti della fisica. Insieme con eccezionali lampi di genio vivono lunghi periodi in cui i loro ingranaggi girano a vuoto. […] Forse, come Don Chisciotte e Sancho Panza, hanno finito per rincorrere mulini a vento. […] Eppure, i compañeros rimasero attaccati l’un l’altro; se non sempre sotto i riflettori della stampa, certo nella profondità dei loro sentimenti». La grandezza di Einstein e Schrödinger si misura anche in questo: nella fecondità dei loro “insuccessi”. La loro critica serrata alla visione ortodossa della meccanica quantistica non ha prodotto alternative convincenti, ma ha sicuramente portato a una comprensione più completa e più profonda del reale.
Paul Halpern, I dadi di Einstein e il gatto di Schrödinger. Due menti geniali alle prese con gli enigmi della fisica contemporanea ,
trad. di L. Guzzardi, Raffaello Cortina, Milano, pagg. 328, € 27

Il Sole Domenica 26.6.16
esegesi
Tutte le spine di Paolo di Tarso
di  Gianfranco Ravasi


«Perché non mi insuperbisca per la straordinarietà delle rivelazioni, mi è stata data una spina nella carne, un angelo di Satana per schiaffeggiarmi perché non mi insuperbisca». Così san Paolo in una pagina autobiografica della Seconda Lettera ai cristiani di Corinto (12,7) confessava una debolezza che lo tormentava, un vero e proprio schiaffo diabolico che fustigava la sua esistenza, pur ricca di gratificazioni divine. Su questa «spina» – in greco skólops, termine usato solo qui in tutto il Nuovo Testamento e dotato di altri significati come «palo» o «punta dell’amo» – si è esercitata l’acribia un po’ maniacale degli esegeti, nonostante la ritrosia di Paolo ad esplicitare la qualità di questa umiliazione. Lo scorso anno un medico bioeticista, Salvino Leone, è partito proprio da questo enigma paolino per una curiosa raccolta di patografie dei santi, coinvolgendo poi Francesco d’Assisi, Giovanni di Dio, fondatore dei Fatebenefratelli, Camillo de Lellis, Alfonso de’ Liguori, Teresa di Gesù Bambino, John H. Newman e don Calabria.
Partiamo anche noi da questa curiosità per ribadire ancora una volta la presenza di Paolo di Tarso nella bibliografia italiana, una presenza costante, anche se i suoi testi rimangono spesso ostici al lettore medio: quante volte un sacerdote nell’omelia domenicale commenta il passo paolino che pure è sempre proclamato? Alla diffusione della conoscenza di questo disangelista (annunziatore maligno), come brutalmente lo liquidava Nietzsche contrapponendolo agli evangelisti (araldi della buona novella del Vangelo), in Italia ha contribuito in modo ampio ed efficace un biblista udinese, Rinaldo Fabris, scomparso lo scorso ottobre. A lui è da associare un altro grande studioso dell’epistolario paolino, Romano Penna, artefice di importanti commentari, come quello imponente a quel capolavoro che è la Lettera ai Romani.
Nella nuova generazione di esegeti si è affacciato già da tempo il milanese Franco Manzi che ora offre una panoramica globale della letteratura paolina, capace di abbracciare tutti i 2003 versetti (sui 5621 dell’intero Nuovo Testamento) delle 13 Lettere attribuite dalla tradizione all’Apostolo. Il percorso proposto riesce a tenere in equilibrio la diacronia storica, che si apre col primo scritto ai cristiani di Tessalonica assegnabile al 50-52, con la sincronia evolutiva di un pensiero teologico che si ramifica anche su terreni testuali forse da attribuire a circoli di discepoli. Il caso più clamoroso, al riguardo, è la cosiddetta Lettera di san Paolo apostolo agli Ebrei che – come annota Manzi – «non è una lettera, non è stata scritta da Paolo e non è destinata a lettori di religione ebraica». La sincronia o sintesi globale della figura e del sistema teologico paolino è, però, affidata nei primi quattro capitoli di questo manuale a un bel ritratto storico-spirituale di un personaggio che, solo sbrigativamente, può essere ricondotto alla figura di un teologo astratto e asettico, peggio ancora al “Lenin del cristianesimo”, come l’aveva classificato Gramsci.
La trama del sussidio di Manzi permette, così – anche a chi non ha intenzione di farsi una biblioteca di commenti specifici – di percorrere completamente un orizzonte nel quale si è trovata insediata per secoli la cultura occidentale e al quale naturalmente appartiene anche la cristianità. È, infatti, soprattutto la riflessione e l’azione missionaria di Paolo ad aver conservato ma anche superato le radici ebraiche del cristianesimo, cercando di far sì che l’albero crescesse ramificandosi in tutta l’area dell’impero romano. Egli è consapevole che da Israele «proviene anche Cristo secondo la carne» e che il popolo ebraico è destinatario «dell’adozione a figli, della gloria, delle alleanze, della legislazione, del culto e delle promesse» (Romani 9,4-5). Ma è altrettanto deciso nell’impedire che la cristianità si riduca a essere solo una pura e semplice modalità specifica di appartenenza all’ebraismo. Diventa, così, fondamentale l’approfondimento dell’eredità paolina per la stessa storia dell’Occidente.
Naturalmente questo comporta una nuova visione centrata sulla cristologia, capace di irradiarsi nella stessa antropologia e nell’ecclesiologia, dando così origine a un sistema di pensiero e di vita disegnato in modo limpido nelle pagine del saggio di Manzi. Ma dato che siamo partiti da un passo curioso della Seconda Lettera ai Corinzi, ritorniamo ad essa attraverso il commento da poco apparso, curato dal lucchese Francesco Bianchini, docente nelle università pontificie di Roma. È interessante affrontare la complessità di questo scritto paolino che fin dal Settecento ha posto sul tappeto la questione della sua integrità redazionale: testo compatto e unitario oppure frutto della collazione di due o più lettere diverse, impastate tra loro e impostate tematicamente? Sta di fatto che questa Lettera, fieramente autoapologetica nei confronti di una comunità turbolenta e fin ribelle, si rivela – come osservava un commentatore del passato, Otto Kuss – uno specchio che «riflette il temperamento, la ricchezza caratteriale, l’eccitabilità persino, la ruvidezza di Paolo e anche la confusione della situazione».
Bianchini sa dipanare passo per passo la vitalità storica che pulsa in queste righe che riflettono, però, anche la teologia dell’Apostolo, la sua concezione del ministero apostolico, la sua cristologia trinitaria, la sua visione della Chiesa e anche l’impegno etico espresso nella solidarietà concreta tra le comunità cristiane (la colletta in favore della Chiesa povera di Gerusalemme). Sopra abbiamo evocato la questione dell’autenticità dell’epistolario integrale di Paolo. Alcune Lettere, infatti, sono considerate “deuteropaoline”, poste cioè all’insegna del nome dell’Apostolo ma frutto della ripresa e dell’ulteriore elaborazione di temi da parte dei suoi discepoli. È il caso, per altro discusso, delle cosiddette Lettere pastorali, indirizzate a due suoi collaboratori molto cari, Timoteo e Tito. Di solito si fa notare che nel lessico di 848 parole diverse usate da questi scritti, ben 305 sono ignote al corpus delle Lettere sicuramente paoline, così come molti temi risultano nuovi.
Un approccio molto vivace a queste Lettere, pur appoggiandosi a una tradizione interpretativa ormai secolare, è offerto dal teologo americano Thomas C. Oden che rigetta l’ipotesi pseudo-paolina assegnando quindi gli scritti alla paternità dell’Apostolo. Il suo dettato è appassionato ed è intarsiato di rimandi alla tradizione patristica ma anche a quella protestante classica. D’altronde questi testi si muovono sul terreno della vita concreta delle comunità, affrontando soggetti pastorali urgenti anche oggi, come il ruolo delle donne nella Chiesa, le questioni sociali ed economiche, le crisi interne alle comunità, i ministeri e i compiti ecclesiali.
In finale ritorniamo alla curiosità da cui ci siamo mossi: che cos’era, dunque, quella «spina nella carne» di san Paolo? Savino Leone nel suo saggio fa un’ampia disamina delle ipotesi: dalla malattia fisica (epilessia, affezione oculare, disturbi nel linguaggio, febbri) alla patologia psichica e alle fragilità personali di vario tipo. Bianchini, che ordina in quattro patologie «la ridda delle ipotesi» (sindromi fisiche, psichiche, demonologiche, antropologiche), suppone «un dolore che colpisce Paolo a livello fisico come condizione permanente», ma con un’origine trascendente, e con «un carattere umiliante così da costituire una debolezza personale». Manzi, che allarga ulteriormente il ventaglio delle diagnosi ipotizzate, preferisce «lasciare aperta la questione» su questo «ostacolo persistente e alla fine demoniaco all’attività apostolica» di Paolo. E forse questa sobrietà, dopo tutto basata sulla stessa reticenza dell’Apostolo, è la risposta più realistica a una curiosità pur legittima ma frustrata.
Franco Manzi, Introduzione alla letteratura paolina , Dehoniane, Bologna, pagg. 528, € 52
Francesco Bianchini (a cura di), Seconda Lettera ai Corinzi , San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), pagg. 254, € 26
Thomas C. Oden, I e II Timoteo. Tito , Claudiana, Torino, pagg. 243, € 23,50
Salvino Leone, Le malattie dei santi , Dehoniane, Bologna, pagg. 212, € 21

Il Sole Domenica 26.6.16
Nuove collane
Vite sante ma un po’ esagerate
di Roberto Carnero


Eccesso di amore: questo l’elemento che accomuna le biografie e le vicende esistenziali di alcuni personaggi celebri al centro di altrettanti narrazioni romanzate in una nuova collana della San Paolo. La collana, diretta da Davide Rondoni, si intitola Vite esagerate, proprio perché la cifra che le ha segnate è quell’eccesso cui si accennava. L’amore può essere quello sensuale, un gusto della conquista condotto alle estreme conseguenze, ma con una forte sete di assoluto, come in Miguel Manara, alias Don Giovanni, raccontato da Davide Rondoni nel volume Il bacio di Siviglia. Oppure può essere l’amore totalizzante per Dio che spinge a una ragazza appena adolescente a essere pronta al sacrificio della propria vita per difendere il valore di quella che un tempo si chiamava “la purezza”, ma in fondo - prima ancora - la propria dignità femminile, nel caso di Maria Goretti raccontata da Aurelio Picca in Capelli di stoppa. O ancora una donna italiana, Caterina Troiani, che all’inizio del Novecento si reca al Cairo a raccogliere i bambini morenti e a liberare le donne dagli harem nella narrazione di Maria Pia Ammirati, Fuori dall’harem. E infine Etty Hillesum, protagonista del volume Il contagio dell’amore di Lucrezia Lerro, la giovane donna olandese travolta dalla furia e dalla brutalità prima dell’occupazione e poi della deportazione naziste, che ha testimoniato sino all’ultimo un’eccezionale forza interiore, una fede nella vita e nell’umanità che resiste nonostante tutto, anche quando la realtà esterna sembrerebbe spingere nella direzione contraria: piena di progetti e di speranze per il futuro, morirà ad Auschwitz il 30 novembre 1943 all’età di ventinove anni, offrendo la lezione di una moralità straordinaria che nelle virtù evangeliche della mitezza e del perdono trova il suo alimento spirituale.
Sono - questi cui abbiamo rapidamente accennato - i primi quattro titoli di una nuova iniziativa editoriale della casa editrice paolina, che propone un progetto assai originale: superando l’approccio tradizionalmente agiografico, provare a raccontare le vite di alcuni grandi personaggi affidandone la narrazione ad affermati scrittori italiani, non necessariamente connotati in senso confessionale (come non lo sono, d’altra parte, gli stessi biografati). Si tratta di un’operazione culturalmente interessante: in un’epoca in cui spesso la narrativa nostrana appare povera di contenuti e a corto di idee, alcuni scrittori tra i più accreditati raccolgono la sfida di un racconto che sappia confrontarsi con le questioni fondamentali dell’esistenza.
Così Rondoni - attraverso il racconto di un’indagine sull’uomo che ispirò tante opere, da Tirso de Molina a Mozart - svolge un’intensa meditazione sul significato dell’amore; Picca sul mistero della giovinezza e della santità; la Ammirati su un tema purtroppo ancora tristemente attuale in tante zone del mondo, compresa la nostra “civilissima” Europa, vale a dire come donne e bambini siano stati e siano tuttora oggetto di sfruttamento a diversi livelli; la Lerro sul rapporto tra normalità quotidiana ed eccezionalità di un orrore che con la barbarie nazista ha colpito il cuore della nostra tradizione culturale.
Davide Rondoni, Il bacio di Siviglia , San Paolo, Cinisello Balsamo, pagg. 206, € 12
Aurelio Picca, Capelli di stoppa , San Paolo, Cinisello Balsamo, pagg. 128, € 12
Maria Pia Ammirati, Fuori dall’harem , San Paolo, Cinisello Balsamo, pagg. 158, € 12
Lucrezia Lerro, Il contagio dell’amore, San Paolo, Cinisello Balsamo, pagg 190, € 12

Il Sole Domenica 26.6.16
Dalla Costituente a oggi
Quelle insidie alla sovranità popolare
Settanta anni fa la Repubblica nasceva da un forte coinvolgimento dei cittadini. Oggi l’adesione alla cosa pubblica incontra molti ostacoli e chi parla deve farlo non solo alla pancia del Paese
di Emilio Gentile


La partecipazione libera e consapevole dei cittadini alla scelta dei governanti e alle loro decisioni è il fondamento della democrazia contemporanea. In Italia, la prima grande partecipazione democratica del popolo italiano avvenne settanta anni fa. Il 25 giugno 1946 si riunì a Roma, in prima seduta, l’Assemblea costituente eletta con suffragio universale maschile e femminile il 2 giugno, insieme alla scelta referendaria per la repubblica. La campagna elettorale era stata turbolenta, ma le votazioni si svolsero nell’ordine e con entusiasmo, come fu dimostrato dalla larghissima e imprevista partecipazione al voto. Gli elettori furono 28.005.409, pari al 67 per cento della popolazione complessiva, e la percentuale dei votanti fu dell’89,1 per cento. Le elettrici furono 1.216.241 in più degli uomini, anche se le donne elette alla Costituente furono soltanto 21 su 556 deputati.
Mai prima il popolo italiano era stato chiamato a decidere sulla fondazione del suo Stato. I plebisciti con i quali la monarchia sabauda aveva proceduto alla unificazione della penisola avevano coinvolto una parte modesta della popolazione maschile. Nel nuovo Stato italiano la partecipazione elettorale, sempre unicamente maschile, fu esigua: solo nel 1912 il voto fu esteso facendo aumentare gli elettori da 3.329.17 a 8.672.249. Nel 1919, dopo la Grande Guerra, il corpo elettorale maschile era di 11.115.441 elettori, ma votarono solo 5.793.507, pari 56,6 per cento degli aventi diritto. Nelle successive elezioni del 1921, già funestate dalla guerriglia civile dello squadrismo fascista, i votanti furono 6.701.496, pari al 58,4 per cento. Infine, nelle elezioni del 1924, dopo una riforma elettorale che attribuiva al partito vincente un premio di maggioranza del due terzi dei seggi (riforma voluta da Mussolini dopo l’ascesa al potere nell’ottobre 1922) i votanti furono 7.614.451, pari al 63,1 degli elettori. Con la vittoria scontata del partito fascista, che infierì con la violenza contro gli avversari, fu aperta la strada al regime totalitario. La libera partecipazione del popolo alla scelta dei governanti fu abolita. Le elezioni per la Camera dei Deputati nel 1929 e nel 1934 furono votazioni plebiscitarie per dire sì o no alla lista dei candidati fascisti proposta dal Gran Consiglio del fascismo, il supremo organo costituzionale del regime totalitario. Il fascismo proclamò la negazione della democrazia, definita da Mussolini un regime che «dà al popolo l’illusione di essere sovrano, mentre la vera effettiva sovranità sta in altre forze talora irresponsabili e segrete». Per il fascismo, il popolo si esprime «nella coscienza e volontà di pochi, anzi di Uno». Alla libera partecipazione, il regime sostituì la mobilitazione coatta della popolazione nelle organizzazioni del partito.
Solo considerando le precedenti esperienze di partecipazione popolare si può apprezzare lo straordinario significato storico delle votazioni per l’Assemblea costituente: per la prima volta, le italiane e gli italiani votarono con la coscienza e la dignità di cittadini liberi ed eguali, ed elessero i rappresentanti ai quali affidarono il compito di elaborare i principi, i valori, le istituzioni e le regole del loro Stato. Così facendo, compirono una rivoluzione pacifica per creare una repubblica di cittadini liberi ed eguali di fronte alla legge.
La libera e cosciente partecipazione delle italiane e degli italiani fu l’atto genetico della repubblica democratica «fondata sul lavoro». Nell’articolo 1 la Costituzione affermava: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della costituzione». E il popolo era definito nell’articolo 3 come collettività di liberi ed eguali: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Questo accadde settanta anni fa. Ora, dopo sette decenni di travagliata vita repubblicana, il popolo italiano è chiamato a un referendum per dire sì o no a un progetto di ampia revisione costituzionale, che non è stata elaborata da un’Assemblea costituente anche se modificherà sostanzialmente l’ordinamento statale in alcuni organi e procedure fondamentali. Difficile prevedere l’esito. È però certo che la partecipazione popolare all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese incontra oggi molti ostacoli. I principali ostacoli sono crescente astensionismo elettorale, diffusa apatia politica, degradazione della cultura politica a vacua esibizione pubblicitaria di seducenti promesse; un altissimo grado di sfiducia della maggioranza nelle istituzioni parlamentari, nei governanti e nella classe politica giudicata oligarchica, inetta e corrotta; decomposizione dei partiti e aggruppamento di folle gregarie dietro un capo demagogo. Tali ostacoli sono vere insidie contro la sovranità del popolo, ma non esistono soltanto in Italia. Ovunque nel mondo, le democrazie sono esposte a insidie simili. E ovunque nel mondo democratico, c’è il rischio che una partecipazione passionale e irrazionale, promossa da chi parla alla pancia e ci mette la faccia, sostituisca la partecipazione sollecitata da chi parla alla mente e impegna la propria dignità, con l’intento di promuovere il bene comune.
Comunque, settanta anni fa, non fu parlando alla pancia o mettendoci la faccia, ma fu pensando, ragionando e discutendo, che un’Assemblea costituente di uomini e donne, pur militanti in partiti antagonisti, insieme innalzarono i pilastri di una democrazia repubblicana, affidandole il compito di consentire al popolo italiano «il pieno sviluppo della persona umana».

Questo testo è un’anticipazione dell’intervento di Emilio Gentile al Festival della partecipazione, dove l’8 luglio dialogherà con Geminello Preterossi sul tema «Il capo e la folla. La genesi della democrazia recitativa»

Il Sole Domenica 26.6.16
Politica in azione
Ridateci la libertà di discutere e sperimentare
di Fabrizio Barca


Abbiamo bisogno di luoghi e strumenti per promuovere un corretto confronto tra idee che porti a una vera democrazia deliberativa: quella basata sull’«Idea di giustizia» di Sen
Prendere decisioni pubbliche “giuste” – considerate giuste da un numero di persone e con un convincimento sufficiente a permetterne l’attuazione – è sempre stato terribilmente difficile per chi in democrazia riceve la delega per farlo. Lo sta diventando sempre più. Il ricorso al referendum popolare in Gran Bretagna sull’appartenenza all’Unione Europea e in Italia sulla riforma istituzionale rappresenta l’ultima eclatante manifestazione della rinunzia a raggiungere nella sede delegata un “accordo” sufficiente (in Italia, costituzionalmente sufficiente). Il rigetto (sempre più spesso, il disprezzo) nei confronti dei partiti ne è il segno più diffuso.
La ragione di questa situazione, che sfida la democrazia, sta in due fenomeni concomitanti. Primo, le pubbliche decisioni si sono fatte sempre più complesse: a causa della crescente diversificazione delle preferenze di cui devono tenere conto e della consapevolezza di tale diversità (e delle interdipendenze), sono cresciute in modo esponenziale le informazioni di cui quelle decisioni hanno bisogno, una vera e propria fame di conoscenza. Secondo, una parte sempre più grande dei cittadini aspira a influenzare direttamente (se non a prendere) decisioni pubbliche sulla base delle proprie preferenze e conoscenze, organizzandosi per farlo e utilizzando i mezzi della nuova società dell’informazione: un’offerta spesso prorompente di conoscenza.
Fame crescente di conoscenza, da una parte, offerta crescente di conoscenza, dall’altra. Se la si vede così, la strada per riprendere il viaggio interrotto verso una maggiore giustizia sta nel fare incontrare queste due forze. Nel costruire nuovi luoghi e strumenti dove esse possano parlarsi. Anzi, non nel “costruire”, perché dobbiamo ammettere di non conoscere la soluzione; piuttosto, nello “sperimentare” luoghi e strumenti che consentano di riempire di concretezza il messaggio di una “democrazia deliberativa”, di un “governo attraverso dibattito”, di una “giustizia partecipata”.
È un viaggio tutt’altro che facile. A dominare è da anni la tentazione opposta: esorcizzare la complessità con la “semplificazione”, assumendo che le nostre diverse visioni del mondo siano riducibili a principi morali unici e che esistano istituzioni perfette capaci di assicurare in ogni tempo e luogo decisioni “giuste”. E non basta mostrare la caducità di questa strada, che porta di volta in volta ad acclamare un “salvatore” perché dice cose semplici, e poi a buttarlo giù dal piedistallo perché le sue decisioni semplici non producono la svolta promessa. Se vogliamo convincere cittadini e classi dirigenti a investire tempo ed entusiasmo nella democrazia deliberativa, ci vuole di più. Dobbiamo mostrare nei fatti che esiste un metodo per raggiungere “accordi attraverso la partecipazione” e per imparare facendo. Amartya Sen in L’Idea di Giustizia propone un metodo sufficientemente strutturato da essere replicabile e sufficientemente destrutturato da essere adattabile. Al Festival della Partecipazione di L’Aquila - un tentativo collettivo di “sentire” dove teoria e prassi ci stanno portando in quel viaggio – ho scelto di portare la lettura di questo metodo, riprendendo un confronto sulle pagine della rivista «Parole Chiave» (n.53), e l’esperienza concreta condotta sia nell’Amministrazione pubblica con la Strategia per le aree interne (Cfr. http://www.fondazionegorrieri.it/index.php/pubblicazioni/opuscoli-e-lettura-gorrieri/item/lettura-2015), sia in politica con il progetto Luoghi Ideali ( http://www.luoghideali.it/luoghideali/wp-content/uploads/2015/06/Relazione-finale-Luoghi-Ideali1.pdf).
Con Sen possiamo muovere dall’idea che alla base del nostro «senso di giustizia» stanno i «sentimenti», l’istinto, e che il contesto e la cultura in cui nasciamo e cresciamo e i nostri tratti individuali ci portano a punti di vista che possono restare inesorabilmente diversi, anche quando siano sottoposti al vaglio della ragione. È dunque vano cercare, magari (come nel pensiero di John Rawls) attraverso il velo dell’ignoranza – ossia prescindendo da chi siamo, dalle nostre preferenze e dai nostri interessi –, un presunto principio morale universale che poi ci guidi nelle decisioni concrete. Prendiamo piuttosto atto della pluralità delle nostre visioni del mondo e facciamole incontrare nel vivo della ricerca di soluzioni a problemi concreti attraverso un confronto pubblico, acceso, informato e aperto. Questa è l’essenza del metodo suggerito da Sen. Un confronto dove ogni visione, anche antagonista, sia presente; dove tutti i partecipanti siano spinti a produrre informazione; dove alla conoscenza della comunità di appartenenza si affianchino sempre la conoscenza e lo stimolo esterni, necessari per uscire dalla trappola comunitaristica e accrescere la libertà di ogni individuo di «decidere come concepire sé stesso».
Non si tratta solo di confrontare «argomentazioni ragionevoli», per convincere gli altri del proprio giudizio. Ma anche di riconoscere reciprocamente punti di vista, sentimenti. In questo doppio confronto, di ragioni e istinti, i partecipanti potranno «cambiare idea», o potranno cambiare la gerarchia di preferenze assegnata alle diverse soluzioni, e questo potrà consentire un «accordo» inizialmente non possibile. Oppure, nella permanenza di un disaccordo, potrà emergere il comune giudizio negativo su alcune soluzioni. O, ancora, potrà emergere una convergenza su soluzioni parziali considerate da un numero «sufficiente» di parti come un passo, seppure inadeguato, verso la propria visione, (una soluzione «intersezione»). Insomma, proprio Sen, il teorico della scelta sociale secondo cui «una procedura di scelta sociale qualificabile come razionale e democratica … non è in grado di soddisfare simultaneamente neppure un numero ridotto di condizioni assai blande», ci mostra che «rendendo le procedure di decisione sociale più ricettive all’informazione … nella maggioranza dei casi [le contraddizioni e le impasse] possono essere sostanzialmente risolte».
La chiave di volta di una «giustizia partecipata» è dunque il confronto pubblico, acceso, aperto, informato. Ma che fare se manca? Se lo Stato è refrattario – anche per la sua arcaicità, come in Italia – a permettere o costruire spazi adeguati di confronto? Se i mezzi di comunicazione non sono indipendenti? Se la valutazione pubblica è sacrificata e carente, anche nell’azione dei cittadini organizzati? In queste circostanze sembra non esservi dubbio che il paradigma di Sen richieda un’azione per reintrodurre questi requisiti fondamentali. Ma se la democrazia è deficitaria da dove verrà la spinta? In questi casi, a muoversi per prime sono «avanguardie», ma per loro natura e necessità di sopravvivenza esse non realizzeranno al proprio interno condizioni di «pubblico confronto, aperto e informato», e dunque cosa le preverrà dalla degenerazione, dalla tentazione di rendere permanente questa condizione a-democratica? Anche con questi interrogativi in testa dedichiamoci a valutare, discutere e promuovere le mille esperienze concrete che nel Paese si vanno realizzando. Con l’urgenza e la passione dettate dal vuoto politico in cui siamo.

Il Sole Domenica 26.6.16
L’italia negli anni settanta
Luce sugli anni di piombo
di Raffaele Liucci


«Ormai sappiamo tutto»: forse basterebbero queste tre parole per riassumere il senso del libro di Vladimiro Satta sugli anni di piombo. Un lavoro che non rappresenta soltanto un corposo profilo storico di quel periodo (dalla fine dei Sessanta ai primi Ottanta, pur se gli «anni di piombo» propriamente intesi vanno dal 1977 al 1982 incluso), ma anche una sorta di piattaforma contro ogni interpretazione dietrologica e complottistica di quegli eventi. Un tomo denso (quasi novecento pagine, corredate da un fitto apparato di note) e ambizioso. Di recente, sono usciti altri libri sugli anni Settanta (una biografia del lugubre Michele Sindona, firmata da Marco Magnani, e una storia della «strategia della tensione», a opera di Mirco Dondi): però Satta resta l’unico a offrire una sintesi generale, in grado di coprire tutti i principali risvolti dell’argomento, dalla lotta armata di sinistra all’eversione di destra.
Una sintesi che genera nel lettore sentimenti contrastanti. Da un lato, non si può non ammirare la padronanza della materia esibita da Satta, la sua profonda conoscenza bibliografica e archivistica (solo per il caso Moro, il numero di pagine complessive sfornate dalle varie commissioni parlamentari ammonta a oltre un milione), lo stile piano e scorrevole, l’equilibrio con cui esamina le tesi altrui. Senza dimenticare le numerose questioni acutamente sviscerate: la scarsa rappresentatività sociale dell’estrema sinistra, capace di riempire le piazze ma non le urne; il suo disinteresse verso le sorti della democrazia, che in realtà sognava di rovesciare; la visione semplicistica e monolitica dello Stato allora imperante fra i contestatori; le memorie edulcorate di molti protagonisti di quella stagione; la violenza rossa, che iniziò ben prima di Piazza Fontana; l’illegalità diffusa come premessa della violenza organizzata; la povertà concettuale del sin troppo celebrato articolo del 1974 di Pasolini sulle stragi e i loro responsabili («Io so, ma non ho le prove»); piazza Fontana che non comportò affatto una restaurazione moderata, bensì propiziò paradossalmente una nuova fase di lotte progressiste; la non coincidenza di stragismo e golpismo. In diverse circostanze, insomma, l’autore sfata brillantemente alcuni luoghi comuni duri a morire, alberganti soprattutto a sinistra.
Dall’altro lato, però, l’insistenza di Satta contro i «falsi misteri» degli anni di piombo desta qualche perplessità. Ridotta all’osso, la sua opinione è che il terrorismo «comunista», lo stragismo neofascista e lo spontaneismo armato di destra siano stati fenomeni autoctoni, mai infiltrati dai poteri occulti, dagli apparati statali e dai servizi segreti internazionali, come d’altronde confermano quasi tutte le sentenze passate in giudicato. Soltanto mantenendo questo punto fermo, secondo Satta, si può fornire una tomografia fedele dei «nemici della Repubblica». È un ragionamento che in passato Satta aveva esposto per il delitto Moro e che ora estende, si può dire, all’intero periodo considerato.
Sia chiaro: l’autore ha senza dubbio ragione quando denuncia l’inconsistenza di certa dietrologia cervellotica ed esilarante, che scorge improbabili «grandi vecchi» o congiure della Cia o del Kgb dietro ogni battito d’ali. E tuttavia, a volte, Satta si lascia prendere sin troppo la mano, giungendo quasi a una teoria generale degli anni di piombo nella quale ogni ricostruzione è subordinata alla sua ipotesi interpretativa. Il rischio, in questo modo, è di cadere nel libro a tesi, ossia nella deriva che egli stesso rimprovera ai complottisti.
Soltanto così si spiega la sufficienza con cui Satta accoglie le ricerche di Miguel Gotor sulla prigionia di Moro, che hanno viceversa segnato una svolta netta, inducendoci a contemplare gli anni Settanta sotto una luce inaspettata. Gotor, studioso dell’Inquisizione e della censura in età moderna, ha infatti avuto la sensibilità di studiare uomini ancora vivi come fossero morti da secoli e di maneggiare documenti pulsanti come fossero ormai ingialliti dal tempo. La sua «anatomia del potere italiano» non ha nulla a che vedere con il complottismo di giornata. Testimonia, piuttosto, quanto ha scritto un altro studioso, Carlo Fumian, ovvero che «la storia della violenza politica degli anni Settanta non appare comprensibile guardando unicamente alle sue dinamiche interne». Endogeno sin che si vuole, il terrorismo italiano «è stato unico in Europa» per lunghezza, «forza destabilizzante» e «coinvolgimento di larghe fasce sociali». Difficile pensare che qualche «intruso» non vi abbia mai ficcato il naso.
Del resto, almeno in una circostanza, lo stesso Satta non si accontenta della versione ufficiale. Ci riferiamo all’eccidio della stazione di Bologna (2 agosto 1980). Secondo la giustizia italiana, la matrice è neofascista (tra i condannati all’ergastolo, Francesca Mambro e Giusva Fioravanti). Secondo Satta, invece, la strage non è assimilabile a quelle che avevano costellato la «strategia della tensione» dal 1969 al 1974. Per l’ecatombe di Bologna è infatti più credibile una pista palestinese, dovuta al tradimento, da parte italiana, del cosiddetto «lodo Moro». Il nostro autore firma al riguardo pagine suggestive e ricche di spunti, però congetturali.
Forse, allora, per scandagliare gli anni di piombo non bastano le carte giudiziarie, pur fondamentali, ma occorre uno sguardo storiografico in grado di «immaginare» quelle connessioni e quegli aspetti indicibili che non potranno mai essere fissati su alcun documento ufficiale. È quel che aveva provato a fare lo studioso padovano Angelo Ventura, nei suoi pionieristici studi sul «problema storico» del terrorismo italiano usciti nei primi anni Ottanta, quando il fenomeno non si era ancora esaurito. Severo indagatore delle radici culturali dell’estremismo rosso, Ventura non aveva tuttavia sottovalutato, come invece sembra fare Satta, le forze più retrive e reazionarie della società italiana e la loro contiguità con l’eversione di destra.
La Padova di Ventura, «laboratorio delle strategie e delle pratiche eversive» di ogni colore, è anche uno dei luoghi ricorrenti nella monografia di Alessandro Naccarato sul «Pci contro la lotta armata». Una ricerca d’archivio che restituisce gli infuocati dibattiti di allora e attesta la posizione inflessibile presto assunta dal partito di Enrico Berlinguer contro il terrorismo sorto alla sua sinistra. Un’intransigenza che risulterà decisiva per la vittoria dello Stato, ma che costerà al Pci i consensi del fronte garantista, in cui s’identificava anche Norberto Bobbio (autore, fra l’altro, di studi fondamentali sulla democrazia e il «potere invisibile»).
Vladimiro Satta, I nemici della Repubblica. Storia degli anni di piombo , Rizzoli, Milano, pagg. 894, € 28
Mirco Dondi, L’eco del boato. Storia della strategia della tensione 1965-1974 , Laterza, Roma-Bari, pagg. 446, € 28
Alessandro Naccarato, Difendere la democrazia. Il Pci contro la lotta armata , Carocci, Roma, pagg. 330, € 37

Il Sole 26.6.16
botteghe oscure
La gabbia che chiudeva il Pci
di Piero Craveri


Il libro di Ugo Finetti, Botteghe Oscure, verte sulle vicende interne del partito comunista “di Berlinguer e Napolitano” e off r e un contributo nuovo su questo tema, documentandolo con un’attenta ricerca d’archivio. Una ricostruzione del dibattito comunista che ci mostra quanto divaricate fossero al suo interno le opinioni. Dopo la morte di Togliatti tale discrasia si fece più intensa, polarizzandosi lungo due derive, molto divergenti, riassumibili in quella di Amendola e in quella di Ingrao. Berlinguer le ricompose nella sintesi del “compromesso storico”, che durò il breve tratto in cui questo parve plausibile, tornando poi ambiguamente a un’alternativa di sistema, che riportava indietro di quarant’anni la linea del partito e riapriva la polemica al suo interno.
Per intendere la natura di questo dibattito va considerato che esso non poteva contare su regole statutarie di tipo democratico, perché tale non era il così detto “centralismo democratico”, in cui le opposizioni interne non si esprimevano politicamente come tali, dovendo tutte in fine confluire nella linea ufficiale del partito. E questo era come una “gabbia”, dalla quale non si poteva uscire che con l’espulsione e nemmeno, se non raramente, con personali dimissioni. Questa rigida disciplina, che garantiva lo stretto legame del partito con l’Internazionale comunista, non consentiva che il dibattito interno avesse le stesse caratteristiche di quello delle altre forze politiche italiane. Ciò non toglie che diversità di orientamenti si manifestassero nella direzione, con una certa nettezza di approcci, anche se i suoi esiti dipendevano dall’orientamento del segretario politico e da come questo si rifrangessero sull’intero partito.
Il legame ideologico che legava il Pci e la democrazia italiana era stato definito da Togliatti con la sua variante, concordata con i sovietici, della tradizionale dottrina della rivoluzione comunista, formulando una «via nazionale al socialismo», in cui delineava un percorso democratico del partito nella lotta politica italiana per la conquista del potere. Ed a ciò il Pci si attenne, senza invero mai mettere in discussione le istituzioni democratiche (almeno fino all’ultimo Berlinguer), anche se rimaneva irrisolta la visione di quale modello di società socialista si sarebbe in fine dovuto attuare. Quella di Togliatti fu soprattutto una lezione di metodo e il dibattito interno al Pci può dirsi che si sia concentrato principalmente sul modo di agire rispetto alle altre forze politiche democratiche.
Naturalmente avrebbe contato molto se l’Unione sovietica avesse subito un’evoluzione di tipo democratico. Non a caso, prima della definitiva sconfitta di Kruscev, che era sembrato avviarsi su questa strada, le posizioni si divaricarono anche nel Pci. Amendola era per Kruscev, contrariamente a Togliatti che temeva si incrinasse per quella via il mito dell’Urss, quale si era stabilito nel dopoguerra. Fu poi questo il limite invalicabile con cui dovette fare i conti anche Berlinguer. Rimaneva la prospettiva interna. E qui, dopo la morte di Togliatti, il dibattito tese a diversificarsi. Si potrebbe dire che per Amendola l’alternativa rimanesse quella classica tra leninismo e democrazia, alla ricerca di una congiunzione possibile, attraverso l’alleanza con altre forze politiche, come i socialisti, nella prospettiva di un unico partito democratico della sinistra. Lo stalinismo aveva tuttavia già lasciato un segno indelebile. L’estrema prassi del terrorismo di Stato aveva cancellato ogni possibile riferimento alla democrazia, di fatto soggiogata a mero populismo. E da una prospettiva tipicamente populistica Ingrao pretese incautamente di costruire una linea democratica, che prese a denominare come nuovo “modello di sviluppo” e “democrazia dal basso”, che in realtà non poteva altro che risolversi in un nuovo totalitarismo. Berlinguer tentò una sintesi che, come si è accennato, gli si sbriciolò nelle mani, facendolo, quanto a prospettiva politica, tornare indietro.
Nella direzione del partito nacque allora un dibattito coeso. La stessa Nilde Iotti, che del togliattismo era un’accreditata vestale, in una delle riunioni di quest’ultima, ebbe a notare come l’ultimo Berlinguer, con la sua tesi dell’ «inagibilità democratica» nella vita politica nazionale, avesse arroccato il Pci su di una posizione autoreferenziale, facendolo salire «sul monte Sinai». Critici costanti di questa posizione, furono Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso, l’ala “migliorista” che si ispirava ad Amendola. La maggioranza del partito era invece su posizione avversa e rimase tale anche dopo lo scioglimento del Pci. Questo libro si ferma nella sua analisi al 1987. Ma con il 1989 sarebbe dovuto toccare ai socialisti di tentare la rottura della “gabbia” comunista, ormai matura, con una nuova proposta di ricomposizione della sinistra italiana, ma anche questa sollecitazione venne a mancare.
Ugo Finetti, Botteghe Oscure, il Pci di Berlinguer e Napolitano , Edizioni Ares, Milano, pagg. 322, € 15

Il Fatto 26.6.16
Citto Maselli
L’86enne regista tra set, star, gelosie e rapporti stretti con il Partito comunista
“Gli attori? Sono tuttidei narcisi, ma Volonté Cera uno dei più grandi
l partito di allora era monolitico: provare a esprimersi senza urtare la loro sensibilità risultava difficile
di Malcom Pagani e Fabrizio Corallo

qui