Corriere 7.6.16
I «nerd» della Silicon Valley tentati dal socialista Sanders
California divisa tra le due sinistre: gay con Hillary, giovani con Bernie
di Giuseppe Sarcina
SAN
FRANCISCO Quello che non va nel messaggio di Hillary Clinton lo spiega
in due parole un giovane di 27 anni, Noble Kuriakose, in University
Avenue, Palo Alto, in piena Silicon Valley: «Hillary è
“un’incrementalista”, ma questo è un posto per rivoluzionari, non per
gli aggiustatori».
Noble Kuriakose lavora alla Survey Monkey, una
delle migliaia di imprese e start-up tecnologiche che fanno da corona ai
big della Valley: Facebook, Google, Twitter, Apple, Pinterest eccetera.
Nelle
primarie del 2008 in California, Hillary Clinton aveva battuto
nettamente Barack Obama. Fino a poche settimane fa l’ex segretario di
Stato comandava i sondaggi con margini anche di venti punti percentuali
su Bernie Sanders. Ma quel vantaggio si è rovinosamente ridotto a un più
2% secondo la media delle ultime rilevazioni elaborata da
«RealClearPolitics» (47,7% contro il 45,7%).
Perché? Tutta
l’intellighenzia al servizio di Hillary ha ignorato, inspiegabilmente, i
segnali che sono arrivati da ogni parte del Paese e che qui sono
diventati un boato. Nei comizi da Los Angeles a San Francisco Hillary ha
ripreso ad attaccare «il senatore Sanders» rinfacciandogli il voto
contrario sul salvataggio delle industrie in crisi o l’ambiguità sulle
armi. «Ma che cosa vuole che ce ne importi come votava Sanders due o tre
anni fa?» Ken, 30 anni, ride incredulo, sul campo sportivo di Google,
di fronte al quartier generale di Mountain View: «Davvero Hillary pensa
di poter vincere con questi argomenti?». È appena finita una partita di
cricket tra Facebook e LinkedIn. L’élite digitale degli Stati Uniti e
del mondo si diverte come tutti gli altri ragazzi. Ci sono molti
immigrati: tanti indiani, poi un australiano, un britannico. La
direzione amministrativa di Facebook e quella di Google non consentono,
ed è un curioso paradosso, ai giornalisti di girare e fare liberamente
domande in azienda. Al massimo una visita guidata, ma senza interviste. I
loro manager, intanto, si sono già schierati con l’ex First Lady. Come
Sheryl Sandberg, direttore operativo di Facebook ed Eric Schmidt,
presidente del consiglio di amministrazione di Google.
Sabato 4
giugno, in una conversazione con una radio locale di San Francisco, John
Podesta, il capo della campagna elettorale di Hillary, aveva commentato
i dati di «Crowdpac», un sito che traccia donazioni e finanziamenti ai
politici. Nel settore tecnologico, a sorpresa, figura in testa Bernie
Sanders con 6 milioni di dollari contro i 2,7 di Hillary Clinton. Donald
Trump, a conferma della relativa estraneità a questa area, ha incassato
solo 21 mila dollari. Ebbene Podesta si è detto sicuro che, terminate
le primarie, «i big del settore appoggeranno Hillary».
Si fanno i nomi di Mark Zuckerberg, il fondatore di Facebook, o di Tim Cook, amministratore delegato di Apple.
Si
vedrà. Ma i voti? Quelli chi si è preoccupato di raccoglierli? Dopo
qualche ora trascorsa davanti al recinto di Google, di Facebook, nei
«diners» sull’University Avenue di Palo Alto, nella City Hall di
Mountain View, il quadro appare più chiaro. Alla candidata
dell’establishment, «all’incrementale» Hillary, l’avanguardia
tecnologica degli Stati Uniti preferisce un leader anziano, persino
socialistoide, secondo i parametri statunitensi: semplicemente perché
propone «la frattura», o «lo strappo», o «il grande cambiamento». A
maggio 160 mila persone hanno partecipato ai 12 comizi di Sanders tra
San Diego, Los Angeles e San Francisco. E certamente non sono solo i
reduci della «Beat generation» che si ritrovano nella City Lights Books,
la libreria fondata nel 1953 da Lawrence Ferlinghetti e Peter Martin.
Oltre
che un blocco sociale, si è aperto uno spazio mentale che tiene insieme
i «nerd» di Palo Alto e di Mountain View, i nostalgici stagionati di
Jack Kerouac, gli studenti di Stanford. Seduto nella caffetteria della
cittadella universitaria, Eli Bilder, 28 anni, ricercatore alla
«Business School», racconta che «qui sono tutti per Bernie, tranne
quelli che studiano finanza».
Il Golden State, lo Stato più
popoloso (38 milioni di abitanti), il più ricco (produce il 20% del Pil
americano), il più liberal è la prova finale, inoppugnabile, che negli
Stati Uniti esistono due sinistre, più o meno di pari consistenza.
Hillary si è illusa di poter liquidare il movimento Sanders come il
gioco di ragazzi entusiasti. Ma non è così. Per le primarie di oggi, in
California si sono registrati 18 milioni di elettori: un milione in più
rispetto al 2012. L’aumento maggiore riguarda i democratici che sono il
44% del totale; il 27% è repubblicano, il resto sono indipendenti.
Si
calcola che il 53% dei nuovi votanti siano «millennials», giovani tra i
18 e i 34 anni. Questo, quindi, non è «un gioco» che prima o poi
finirà. Hillary Clinton, però, ha continuato come sempre: ha chiesto e
ottenuto l’appoggio del governatore Jerry Brown, ha messo sotto
pressione l’organizzazione, mobilitando lobby e sindacati.
A San
Francisco, per esempio, stanno con lei «i Lgbt» (Lesbiche, gay,
bisessuali e transgender) che si raccolgono nel quartiere Castro. «Ha un
programma serio e che tiene conto delle nostre richieste», spiega
Shane, 47 anni, che si presenta come «il manager» dell’«Harvey Milk
Institute», il centro sorto nella casa dell’attivista degli anni
Settanta, figura chiave nella battaglia per i diritti civili degli
omosessuali, interpretato in un grande film da Sean Penn. Ma dopo un
po’, chiacchierando con Shane, si avverte anche qui, persino qui, tra le
bandiere e le strisce pedonali arcobaleno, quel sapore di burocrazia,
di rigida disciplina che forse è il vero limite della strategia
clintoniana. La comunità Lgbt vale 1 milione e mezzo di voti negli Stati
Uniti. D’accordo. Sommando le truppe di categorie, minoranze e
comunità, domani l’ex First Lady arriverà alla nomination.
Ma senza Bernie e il suo movimento, le ordinate legioni di Hillary potrebbero non bastare per conquistare la Casa Bianca.