Corriere 6.6.16
Roma
Gli scandali E il riscatto da ritrovare
di Goffredo Buccini
A nnamo, daje Roma...
Almeno
un voto il Pd l’ha perso qui, per colpa di Marino: al «Vero Girarrosto
Toscano», due passi da via Veneto, dove s’è compiuto il destino del
Marziano coi suoi scontrini suicidi (qui, per un pranzo di sei persone
un 26 dicembre). «Marchini o Meloni, esco e decido al seggio», mormora
il maître: «Speriamo di scegliere una persona giusta. Ignazio? No, non
s’è più visto».
...chi se fa pecorone/ er lupo se lo magna...
Dopo
Alemanno e Marino, Mafia capitale, la Panda Rossa e le note spese, il
tragico e il grottesco, un romanzo criminale e demenziale, il voto è
catartico. La Raggi mostra al seggio le ormai famose orecchie da grillo
mannaro. Mantra: «Li asfaltiamo». La notte le darà ragione, i suoi
numeri già fanno storia: persino la tv russa la cerca.
I romani
vogliono una rivincita, attraverso lei. «Proviamo a toglierci la
vergogna dalla faccia», pensa a voce alta Giulia, facendo il pieno alla
Vespa rossa in un posto non casuale: il distributore Eni su corso
Francia, primo grano del rosario capitolino, filmato dai Ros coi
traffici del Ceca to Carminati e le telefonate di Spaccapollici : « Te
tajo la gola ...». Stanotte si chiude. Roma torna Capitale senza più la
parola Mafia a bruttarne il fasto. Sempre se una buca o un sussulto
autolesionista non ingoia Giulia, la Vespa e le speranze.
...abbasta uno scossone...
«Nutriamo
disperate speranze», dice Roberto Morassut, già assessore con Veltroni,
sconfitto alle primarie da Giachetti. Qui i dem agonizzano negli
ossimori. Marino ha pasticciato tanto da catalizzarsi addosso un
disastro lievitato in buona parte nella combriccola che s’era assisa con
Alemanno. La buca è un’epitome, 4.900 dei 6.500 chilometri di asfalto
romano ne sono butterati. «Ahò, abbassa la capoccia che le buche stanno
pe’ terra»: se Pasquino rinascesse pentastellato piglierebbe un
plebiscito, i suoi emuli hanno flagellato Giachetti per certi poster con
lo sguardo perso in paradiso. E sì che Carminati dal bar di Vigna
Stelluti ci aveva spiegato che il paradiso non esiste, c’è solo il
«mondo di mezzo»: un mondo di imbrogli e inguacchi che tutto contagia e
corrompe.
«Siamo tutti mezzi marci, pure noi elettori», dice una
vocina al seggio di via Micheli, Parioli. Francesco Storace sostiene che
la ferita inferta alla destra da Alemanno sia quasi rimarginata,
«quella di Marino fa ancora molto male alla sinistra». In effetti, nella
notte ormai grillina, Giorgia Meloni risale in fretta.
«Ma la
nostra palingenesi è incominciata», assicura il pd Fabrizio Barca,
autore di un esplosivo rapporto sui guasti del partito cittadino: 35
sezioni chiuse, più ecatombe che palingenesi.
Da piazza Don Bosco,
altro grano del rosario romano, ogni rinascita pare lontana. Qui i
Casamonica celebrarono in basilica le esequie del capoclan Vittorio, un
elicottero sparse petali di rosa sul corteo funebre, la banda intonò Il
Padrino , e Marino in ferie negli States pensò male di non rientrare
nemmeno di fronte allo scandalo montante. Quando venne, a settembre, gli
toccò farsi scortare. E che un capo della sinistra non possa camminare
tranquillo a Don Bosco è segno della fine dei tempi per Claudio Siena,
il vecchio segretario della sezione Pci di via Stilicone: «Che io avevo
intitolato a Giovanni Losardo, compagno calabrese ammazzato dalla
‘ndrangheta nell’80. Questi, quando sono arrivati, hanno cambiato nome,
sezione John Lennon l’hanno chiamata, ‘acci loro!». Questi sono il Pd,
ovvio. Ora non c’è più nemmeno John Lennon, al posto della sezione c’è
una parrucchiera. E i debiti.
Forse confusi e senza guida ma
parecchio incavolati, gli elettori non disertano nemmeno i seggi di
periferia. A Ostia, col municipio mutilato dalla mafia, in pieno
territorio del clan Spada, almeno mille avevano votato a metà mattinata
in viale Idroscalo, davanti alle «case di ricotta» (così dette perché,
impastate di cemento e sabbia, si stanno sbriciolando). Stefano
Esposito, muscolare commissario pd e autore di denunce a raffica contro i
business opachi dei balneari, sbuffa: «Nella zona di piazza Gasparri,
terra dei clan, io voglio che arriviamo ultimi! L’ho detto ai grillini».
Non è escluso che ci riesca, alla fine, e non è detto sia un segnale di
palingenesi.
Intanto al Girarrosto neppure la notte, a urne
chiuse, porta pace. Da anni, con un altro girarrosto toscano lì accanto,
sono equivoci, sbagli di prenotazioni, tensioni (l’aggettivo «Vero»
nell’insegna si spiega così). Mettersi d’accordo, non se ne parla.
Bisognerebbe trattare, «fare sistema», si sarebbe detto anni fa. Ma
allora c’era Goffredo Bettini, Roma era «potentona»: e il futuro era
ancora quello d’una volta.