Corriere 4.6.16
Usa
Il Cesare democratico che non c’è
di Ernesto Galli della Loggia
È
molto probabile che Hillary Clinton ottenga la candidatura per il
Partito democratico alle prossime elezioni presidenziali americane,ed è
quindi molto probabile che batterà il candidato repubblicano Donald
Trump, diventando così presidente degli Stati Uniti. Ma come ha scritto
qualche giorno fa il New York Times , nella corsa alla Casa Bianca di
quest’anno l’impensabile sta diventando possibile. E dunque le cose
potrebbero forse andare altrimenti. Potrebbe accadere che per varie
ragioni — non ultima l’uso forse illegale della Clinton della propria
mail personale per molte comunicazioni ufficiali — la sua popolarità,
già non molto forte, cominci a vacillare; che la sua candidatura si
mostri una candidatura sempre più debole, e che, come alcuni indizi già
fanno intravedere, l’eventuale duello tra lei e Trump mostri di potersi
risolvere a favore di quest’ultimo. In tal caso non è assurdo pensare
che il Partito democratico possa allora decidere di puntaresul senatore
Sanders, non casualmente rimasto finora in lizza.
Il fatto è che
nella corsa presidenziale americana si sta delineando un fenomeno forse
decisivo. E cioè che mentre alcuni sondaggi già ora cominciano a non dar
più la Clinton come vincitrice sicura in un duello con Trump, viceversa
non sembrano esserci dubbi sul fatto che Sanders batterebbe di sicuro
il candidato repubblicano. In altre parole, sarebbe il populismo
progressista, non già la sinistra democratica «per bene», la posizione
davvero capace di sconfiggere il populismo reazionario.
P er
l’Europa si tratterebbe di una lezione importantissima. Da tempo i suoi
sistemi politici e i suoi partiti tradizionali sono squassati dai venti
di tempesta di una spinta antioligarchico-populistica carica di volontà
di riaffermazione nazionale: una spinta che finora è stata puntualmente
sequestrata da formazioni di destra, intrise di umori xenofobi e
autoritari. Incanalata in un simile alveo questa spinta costituisce una
vera minaccia per la democrazia dei nostri Paesi. Ma proprio perché le
cose stanno così, l’esempio americano potrebbe indicare quella che forse
è la sola via d’uscita da una situazione che invece oggi, qui in
Europa, vede le forze democratiche paralizzate, incapaci di trovare idee
ed energie per una controffensiva, e perciò destinate inevitabilmente
prima o poi, se il quadro resta quello attuale, a una sconfitta
rovinosa.
La via d’uscita è per l’appunto quella incarnata dal
senatore Sanders: il populismo democratico. A un populismo di destra
opporre un populismo di sinistra pronto naturalmente — come farebbe
senz’altro per primo Sanders, se mai dovesse essere lui il candidato
democratico — a rinunciare al «socialismo» e a stipulare preliminarmente
un compromesso con alcuni settori chiave del mondo della produzione e
degli affari. È la via che a suo tempo prese Roosevelt per uscire dalla
crisi del ’29: per esempio non esitando a ricorrere con spregiudicatezza
all’appello al popolo contro il formalismo giuridico della Corte
Suprema che sbarrava il passo al suo programma audacemente riformatore. È
la medesima via indicata all’inizio del Novecento da Max Weber, quando
vedeva la salvezza delle democrazie nel futuro burrascoso che si
annunciava solo nel potere conferito a un «Cesare democratico».
Ma
che cosa vuol dire quest’espressione? Che significa in concreto un
populismo democratico? Molte cose: dallo stare dalla parte del «piccolo
uomo» (il piccolo produttore, il piccolo risparmiatore, il consumatore,
il popolo minuto) contro il Big Business; dalla parte della produzione
contro le rendite finanziarie; dalla parte dei bisogni e dei diritti dei
più contro gli interessi dei pochi smascherando questi interessi e i
loro abituali camuffamenti; stare dalla parte dell’espansione contro la
deflazione e l’austerità; stare dalla parte della politica contro
l’economia, favorendo la possibilità istituzionale di decisioni non
contrattate e non compromissorie (come invece vorrebbe il
parlamentarismo dei bravi democratici «per bene»).
Populismo
democratico significa tutto questo ma in più qualcos’altro, che però —
si badi — è un ingrediente essenziale per qualificarne la diversità
rispetto a quello reazionario. Significa innanzi tutto un «discorso»
diverso. E cioè un’alta «retorica» sui principi della comunità, sul suo
destino, sul suo vivere insieme per adempiere un fine inclusivo, per
raggiungere un traguardo positivo che alla fine riguarda tutti (anche le
oligarchie nemiche). Significa la capacità di richiamarsi credibilmente
agli ideali, di costruire un’immagine all’insegna del disinteresse
personale, suggerendo l’idea di un impegno politico al servizio di una
speranza collettiva da opporre alla paura del declino e del
declassamento sociale. Ecco quanto il Cesare democratico dovrebbe
mostrarsi in grado di fare e specialmente di esprimere: grazie alla
parola e al gesto simbolico. Rivolgendosi al cuore anziché alla pancia,
come invece è spinto a fare il suo omologo reazionario. Il primo è un
profeta ragionevole che addita la salvezza, il secondo uno stregone che
evoca i demoni sancendo tutti i tabù.
L’Europa però non sembra
capace di produrre alcuna figura di Cesare democratico. È la riprova del
venir meno nelle sue élite e nelle sue culture politiche egemoni di
ogni autentico sfondo ideale, della loro assoluta incapacità di
rispondere alla drammatica novità dei tempi, di mantenere un rapporto
vero con il sentire profondo delle proprie società. È la conferma
altresì di una selezione ai posti di maggiore responsabilità che da
tempo si attua dappertutto pressoché esclusivamente sulla base di
meccanismi di tipo sostanzialmente burocratico. In realtà nessun luogo
come oggi l’Europa continentale a ovest dell’Elba ha conosciuto una
simile eclisse dello Stato nazionale e di conseguenza del «politico»
costringendosi, come attualmente è costretta, a confidare per il suo
futuro sui tribunali e sulle finanze, sulle banche e sulle «direttive»
di Bruxelles: sotto la guida trascinante dell’avvocato Jean–Claude
Juncker.