Corriere 23.6.16
Il piano di Pollini è un’altalena di grandi prodigi
di Enrico Girardi
Il
programma pianistico Chopin/Debussy sembra una dichiarazione d’intenti,
un indugio su analogie e contrasti — ossia analogie d’altro tipo — tra
due momenti epifanici della storia del pianoforte: della stagione
romantica e di quella moderna, rispettivamente. Ma non c’è nulla di
programmatico nel concerto che vede il ritorno di Maurizio Pollini alla
Scala. Non c’è nemmeno nell’impaginazione in forma di palindromo (un
pezzo + tre + due + tre + uno) del segmento chopiniano, tutto giocato su
una combinazione di tonalità che è già arte in se stessa. Non c’è nulla
di programmatico, si diceva, perché Pollini non vuole strologare o
dimostrare nulla. Questa volta siede alla tastiera un artista che sembra
riscoprire il senso dell’abbandono al piacere del suono. Detta così, la
formula sembra edonistica ma non lo è. Né si vuol dire che l’artista
milanese decida di negare, in una sera, la rigorosa linea interpretativa
di una vita. Ma nel passare da un prodigio armonico all’altro, da una
frase esortativa a una luminosa apparizione melodica, Pollini produce
poesia, entra naturalmente (e non meno autorevole per qualche nota
sporca) nella dimensione matura, abbandonata a sua volta, delle opp. 45,
59, 62 e 63, prima di tornare alla forza primigenia dello Scherzo in si
minore op.20.
La stessa cosa quando affronta il 2º libro dei
Preludes di Debussy, in ciascuno dei quali trova il suono appropriato di
un «dodecalogo» di emozioni dirette, filtrate sì dalla natura ermetica
della pagina debussyana ma non stravolte da quel morbo
dell’intellettualismo che su questa letteratura tanto spesso
attecchisce.