Corriere 13.6.16
Melville stregato da Hawthorne
Lo ammirava e desiderava identificarsi con lui. Un legame che influenzò anche «Moby Dick»
di Pietro Citati
Chi
conobbe Nathaniel Hawthorne, negli anni trascorsi negli Stati Uniti o
nel corso dei suoi vagabondaggi in Inghilterra, in Francia e in Italia,
credette di incontrare il più delicato e raffinato gentiluomo della
Nuova Inghilterra: dove era nato, il 4 luglio 1804, da un’antica
famiglia puritana. Teneva moltissimo, talora persino troppo, alle
«maniere irreprensibili»; e se qualcosa lo urtò in Herman Melville, suo
grande amico, fu il fatto che fosse «un poco eterodosso in materia di
biancheria intima». Come ogni gentiluomo, nascose la sua vita, i suoi
pensieri, i suoi sentimenti, le sue inclinazioni più intime dietro un
muro di invincibile riserbo. Durante le conversazioni, stava sempre
girato di fianco, volgendo il capo, senza mai guardare in viso
l’interlocutore. Parlava poco, e a voce bassa, di viaggi, di avvenimenti
quotidiani, di piccoli faits divers , «evitando di mantenere i propri
sentimenti in superficie e a disposizione di tutti».
Se vogliamo
compiere un passo avanti nella conoscenza di Hawthorne, dobbiamo leggere
il Diario (a cura di Agostino Lombardo, Neri Pozza 1959) e Blithedale.
Il romanzo di Valgioiosa , appena pubblicato da Castelvecchi. La grazia
di Hawthorne era così squisita ed estenuata che sembrava nascere dal
nulla, inseguire ciò che resta nell’aria dei sogni, e imitare i gesti di
qualcuno che non è mai esistito. La sua patria non era qui, sulla
terra. Viveva qui come se abitasse altrove: perché su questa terra, tra
tante tenebre e tanti spettacoli spaventosi, vi è qualcosa che fa
ricordare il cielo.
Come scrisse Henry James, pareva uno
straniero. «In verità per molti il suo tratto più alto e commovente
resta la sua estraneità, dovunque si trovasse. Egli sta fuori di tutto, è
uno straniero in ogni luogo». Hawthorne si osservava come fosse un
altro. Usciva dal proprio io per guardarsi; e questa scissione dell’io
provocava in lui un’autoironia connaturata e profonda. Quest’uomo, che
ci era parso così fermamente ancorato nel cielo, ci appare ora incerto
di tutto: senza forza e senza sicurezza. Veniva assalito da un
vertiginoso sentimento di irrealtà; e gli sembrava di essere un fantasma
che corteggiava senza successo altri fantasmi. «Attraverso uno di
questi momenti», egli scrisse, «in cui lo spettacolo della vita reale
oscilla, stride, crolla, e pare sul punto di essere infranto e
disperso».
Talvolta, la nostra impressione è più angosciosa. Con
una specie di raccapriccio, Hawthorne avvertiva un senso di freddo in
mezzo al calore, e una luce smorzata nella massima luminosità del sole.
Capiva che un gelo mortale abitava la profondità del suo cuore:
qualcosa, in lui, si era smarrito tra i deserti del polo; portava il
ghiaccio nel sangue. Questo era il suo segreto definitivo: il segreto
che lo teneva in disparte da tutti gli uomini e da tutte le cose; e lo
induceva a chiedersi se il gelo fosse l’unica ragione della sua
esistenza, oppure il più grave dei suoi peccati.
Quando Hawthorne
pubblicò una raccolta di racconti, Muschi da un vecchio presbiterio ,
Herman Melville scrisse una lunga recensione sul «Literary World» del 17
e 24 agosto 1850, con il titolo Hawthorne e i suoi muschi . Melville
cominciò parlando di sé stesso: «Una stanza tappezzata, in una bella
antica fattoria, a un miglio di distanza da qualsiasi altra abitazione,
immersa nel verde sino alle grondaie, circondata da monti, antichi
boschi e laghetti indiani — questo è, senza dubbio, il luogo in cui
scrivere di Hawthorne. Deve esserci una strana magia in quest’aria
settentrionale, visto che amore e dovere sembrano invitarmi — insieme — a
questo compito. Un uomo dalla personalità nobile e profonda si è
impossessato di me in questa solitudine. In me echeggia la sua voce, una
voce selvaggia, lontana, magica».
Melville sostenne che Hawthorne
era uno scrittore doppio. Da un lato, c’era in lui una tenebra
soprannaturale: essa si richiamava alla intuizione calvinista della
Depravazione Innata e del Peccato Originale; forse nessuno scrittore
aveva agitato questo terribile pensiero con più terrore di Hawthorne.
D’altra parte, una dolcissima alba, sempre in movimento, avanzava
attraverso di lui, navigando attorno al suo mondo.
Melville non
aveva mai incontrato Hawthorne, e pensava che non lo avrebbe mai
incontrato. Invece un incontro ci fu: molto presto, nello stesso agosto
1850; i due abitavano a poche miglia di distanza. Cenarono insieme nel
settembre: parlando, come scrisse Hawthorne, del tempo e dell’eternità,
di questo mondo e dell’altro mondo, di ogni argomento possibile ed
impossibile, fino a notte alta. Hawthorne regalò a Melville una raccolta
in quattro volumi di testimonianze sui più spettacolari disastri di
mare: tra le quali il resoconto del Naufragio della Baleniera Essex,
affondata da una balena . Proprio in quel tempo Melville stava scrivendo
Moby Dick , che uscì nell’ottobre-novembre 1851, con questa dedica
all’amico: «In segno della mia ammirazione per il suo genio, questo
libro è dedicato a Nathaniel Hawthorne».
Qua ndo scoprirono di
abitare così vicini, Melville e Hawthorne si incontrarono molto spesso:
possiamo ricostruire questi incontri grazie alle bellissime lettere di
Melville, mentre quelle di Hawthorne sono perdute. Nella prima lettera,
del 29 gennaio 1851, Melville invitò Hawthorne a casa sua. «C’è un
eccellente Xeres che vi aspetta, e anche un Porto molto robusto». Mentre
bevevano, i due filosofavano e si raccontavano storie: discutevano del
Cosmo con una bottiglia di acquavite e dei sigari. «Sono sempre incline a
bere — commentava Melville —, quando scambiamo enormi discorsi
ontologici». Il nome di Hawthorne significa «biancospino»: Melville
giocava sul suo significato, aggiungendo che Hawthorne era un «nome
grazioso», mentre Blithedale era un «libro trionfale».
Melv ille
continuò a leggere i libri di Hawthorne con sempre nuovo entusiasmo.
Parlando della Casa dai sette abbaini , disse che il libro era come una
bella camera antica con ricche tende, dove sono ricamate scene di
tragedia: con vecchie porcellane dai motivi rari: lunghi sofa,
ammirevoli buffé; e cantine piene di vecchio vino. «Non c’è nulla che
preferirei all’idea di consacrare uno studio elaborato e meticoloso
all’esame e all’analisi del contenuto e dei significati di ciò che
caratterizza tutti gli scritti di Hawthorne». C’era, nei suoi libri, la
ricca e rara essenza, lentamente distillata, di un cuore di alto gusto:
un umore nobilissimo e profondo, eppure saporoso: una tenerezza
illimitata per tutte le forme d’essere; un amore onnipresente. Forse, a
Melville, i libri di Hawthorne non bastavano. Ciò che amava era
soprattutto lui, lo squisito e inafferrabile gentiluomo della Nuova
Inghilterra. Voleva identificarsi con lui: essere lui. «Mi sono sentito
panteista — il vostro cuore batteva nelle mie costole, il mio nelle
vostre, e l’uno e l’altro in quello di Dio».
Il rapporto tra i due
si allargò, e finì per comprendere le famiglie. La moglie di Hawthorne,
Sophia Peabody, che scriveva benissimo, fu affascinata da Melville. Il 4
settembre 1850, dopo aver pranzato con lui, inviò alla madre questo
stupendo ritratto, che leggo nel bel libro di Barbara Linati, Frammenti
di un sogno . Hawthorne, Melville e il romanzo americano (Feltrinelli,
1982). «Melville è un uomo dotato di una capacità di percezione
straordinaria. Quello che mi sconvolge sono i suoi occhi. Non sono
grandi e profondi: eppure sembra che a loro non sfugga nulla, fin nei
minimi particolari, sebbene siano così piccoli. Quando parla, gesticola
moltissimo, strabocca di energia, si perde anche lui in quello che sta
raccontando — non ha nessuna grazia e compostezza — poi, di tanto in
tanto, la sua eccitazione lascia il posto a una specie di curiosa
espressione, straordinariamente calma… Uno sguardo spento, chiuso, ma
che allo stesso tempo ti fa sentire che proprio in quel momento, egli ha
un controllo totale, assoluto su ciò che gli sta davanti. Più che
penetrare in chi gli sta di fronte, questo sguardo sembra ingoiarlo
completamente dentro sé stesso».