Corriere 13.6.16
La difesa della lingua, l’avanzata dell’inglese
risponde Sergio Romano
Come cambiano i tempi. Ormai anche nelle insegne dei negozi predomina l’inglese.
Nel
1864 a Roma, in pieno Stato Pontificio, un articolo del regolamento
edilizio vietava l’uso delle scritte in lingue straniere sulle botteghe.
Ingiungeva per di più che quelle straniere già installate, fossero
accompagnate dalla traduzione in italiano. Dieci anni dopo, nel Regno
d’Italia, l’articolo 10 della legge 14 giugno 1874 (rimasta in vigore
fino al 1910) recitava: «I Comuni avranno facoltà di imporre una tassa
sopra le insegne (...) relative ad un esercizio o ad un commercio. La
tassa potrà essere stabilita da centesimi 5 a centesimi 10 per ogni
lettera scritta nell’insegna (...). La tassa potrà essere del doppio per
le insegne scritte in lingue straniere».
Durante il periodo
fascista in caso di insegne in lingua straniera la tassa era
obbligatoria e pure quadruplicata, con un minimo di 100 lire per
insegna.
Nel XXI secolo sono tornati i centesimi, ma sono aumentate le insegne straniere.
Claudio Villa Vanzago (Mi)
Caro Villa,
Dalle
notizie che lei ha raccolto sembra che le misure adottate nello Stato
Pontificio e nel Regno d’Italia avessero contemporaneamente due
motivazioni: proteggere la lingua italiana dalle contaminazioni
straniere e trarre dall’operazione qualche beneficio fiscale. Durante il
fascismo lo scopo era prevalentemente linguistico. Vi fu una fase,
negli anni del regime, in cui si cercò di ripulire l’italiano da tutte
le «brutture» che si erano accumulate col passare degli anni. Credo di
avere già ricordato in altre occasioni che il cherry brandy (un liquore
di ciliegie, oggi meno noto e bevuto) divenne, grazie alla fantasia di
Gabriele D’Annunzio, «sangue morlacco», che il cognac divenne «arzente» e
il sandwich «tramezzino».
Queste preoccupazioni non sono soltanto
italiane. Vi è stato un momento in cui i ticinesi, preoccupati dalla
crescente germanizzazione del loro Cantone, hanno cercato di evitare
(non so con quale risultato) che le insegne dei negozi fossero in
tedesco. Uno dei principali compiti dell’Accademia francese è quello di
verificare la legittimità linguistica delle parole che fanno
continuamente la loro apparizione nell’uso quotidiano, e di coniare
parole nuove che possano contrapporsi a espressioni straniere,
soprattutto nel campo delle nuove tecnologie. In qualche caso questa
politica linguistica ha dato buoni risultati. «Software» (sistema di
programmazione) è stato tradotto con il neologismo «logiciel»: un
termine in cui sono state felicemente combinate una parola greca (logos,
il verbo) e una parola di origine latina (ciel). In altri casi i
neologismi, dopo essere stati approvati, invecchiano sotto una coltre di
polvere sugli scaffali dell’Académie.
A me sembra che occorra
fare qualche distinzione. Per le insegne dei negozi, le norme dovrebbero
essere liberali. In ultima analisi e salvo qualche eccezione ben
motivata, il proprietario o il gestore dovrebbero essere liberi di
chiamarsi come vogliono. Avrei qualche dubbio invece su certi annunci
pubblicitari pubblicati dalla stampa in cui si lanciano messaggi in
inglese diretti a un pubblico italiano su giornali italiani. Forse gli
autori credono di essere cosmopoliti; ma sono soltanto provinciali.