Repubblica 28.5.16
Thomas Mann
Nella notte d’Europa il dilemma tra silenzio e denuncia del Male
Un libro racconta i tre giorni in cui il grande scrittore, da esule, scelse tra mille tormenti di esporsi pubblicamente contro il nazismo
Quando seppe dei poteri illimitati a Hitler prese la moglie per mano: stava tremando
di Ezio Mauro
C’è un uomo col cane sul sentiero che porta nel bosco gelato della campagna di Kusnacht, sul lago di Zurigo, quel sabato mattina d’inverno. Attorno i corvi beccano la terra, dai campi affiora uno spaventapasseri, nell’aria passa il suono delle campane senza che la nebbia lasci vedere la chiesa. Il cane è un terrier marrone con una striscia nera sulla schiena e sui fianchi. Di fronte ci dev’essere
il lago nascosto nella foschia, perché qui c’è la panchina dove normalmente lo si può guardare in pace. Sciolto il guinzaglio, l’uomo si siede sulla panca col cappotto nuovo dal collo di pelliccia grigio scuro abbottonato in alto, i guanti imbottiti, la sciarpa stretta sotto il mento, i suoi 61 anni. Da tre — fa il conto quel primo giorno di febbraio del 1936 — vive in esilio volontario in Svizzera, dopo aver dedicato al suo Paese il premio Nobel per la letteratura: «Depongo questo premio mondiale ai piedi della Germania e del mio popolo». Adesso ha poche ore di tempo per decidere se la Germania diventata hitleriana merita che lui denunci l’orrore davanti al mondo, oppure se gli conviene tacere e vivere come se non sapesse. Ieri nel suo studio, da solo, ha riletto per l’ultima volta la lettera di condanna indirizzata alla Neue Zurcher Zeitung, ha tolto la stilografica dall’astuccio e ha firmato i tre fogli col suo nome: Thomas Mann.
Mentre getta un ramoscello al cane, cerca in tasca il portasigarette d’argento, non riesce a smettere di torturarsi come ha fatto tutta la notte. Soprattutto una frase della lettera gli torna in mente, come un’ossessione: «Dall’attuale governo tedesco non può venire nulla di buono né per la Germania né per il mondo ». Gli sembrava perfetta, quando l’ha scritta, riletta e corretta. Ma di notte ne ha avuto timore. Stamattina appena alzato ha chiamato il caporedattore del giornale svizzero in lingua tedesca, Korrodi, e gli ha chiesto di aspettare, di non pubblicare nulla: ha bisogno di riflettere. È come se i tre anni passati fuori dalla Germania fossero stati vissuti solo per arrivare fin qui, a questi tre giorni finali e supremi, quelli della scelta. I gesti di ogni giorno, che gli danno la sicurezza della regolarità — sveglia alle 8, colazione con caffè, pane e marmellata, lavoro, passeggiata, pranzo, riposo, corrispondenza, tè, passeggiata serale, cena, lettura, diario — adesso gli appaiono puri strumenti per portarlo a questo fine settimana che non riesce a finire, dilatato nell’incertezza della scelta. Settantadue ore che sembrano montate apposta per riassumere e ingigantire l’angoscia del dilemma, quel nodo tra vita e letteratura che può sciogliere soltanto lui, tra Germania e Europa, esilio e patria, essere e dover essere: per lasciarlo infine solo e nudo davanti al dubbio capitale della sua vita. Un dubbio che confida ogni sera al suo diario, tormento dopo tormento, e che Britta Böhler ha rovesciato nel romanzo sulla Decisione, ora proposto in Italia da Guanda, proprio mentre il Saggiatore con La svolta pubblica la scelta di campo contro il regime di suo figlio Klaus.
Lui, Thomas, non aveva guardato un’ultima volta la terra di Germania tre anni prima, mentre in treno attraversava il confine svizzero-tedesco tra Lindau e Bregenz, un po’ perché era assopito, ma soprattutto perché non sapeva che sarebbe stata l’ultima volta. Dopo una serie di conferenze su Wagner a Monaco, Amsterdam, Bruxelles e Parigi, ecco tre settimane di riposo in montagna al Waldhotel di Arosa, che come ogni anno gli riservava la stessa camera, dove poteva lavorare. Gli erano sempre piaciuti i grandi alberghi coi tappeti spessi, gli enormi lampadari, gli stucchi e d’inverno le slitte a cavalli. Voleva rimettersi a scrivere Giuseppe in Egitto, stava immaginando le sponde del Nilo coperte di limo mentre ordinava il punch del pomeriggio all’Old India, quando dai giornali cominciò a capire che il suo mondo si stava distruggendo. L’incendio del Reichstag, i comunisti messi fuori gioco, la croce uncinata che diventa la nuova bandiera della Germania, abolendo i colori del Reich. Non poteva pensare che il suo Paese fosse perduto, si trattava solo di aspettare. In fondo, non aveva sempre pensato che per la politica poteva bastare la mano sinistra? Ma quando Medi, la figlia, pianse al telefono da Monaco chiedendo ai genitori di poter scappare, subito, perché a scuola tutto era cambiato, ogni mattina dovevano cantare l’inno nazista, cominciarono a capire. Quando ascoltò alla radio Svizzera la votazione di fine marzo al Reichstag sui poteri dittatoriali a Hitler, aveva già compreso. Era in poltrona nella hall dell’albergo, prese la moglie Katja per mano e stava tremando.
Fu allora che arrivarono i primi attacchi dai giornali tedeschi. Improvvisamente lo accusavano di «aver imbrattato Wagner», proprio mentre la Gestapo entrava per una perquisizione nella sua casa di Monaco e il Rotary gli comunicava per lettera l’espulsione. Era chiaro che non poteva più tornare in Germania. Lui, che non aveva fatto del male a nessuno. Che nelle Considerazioni di un impolitico parlava del suo sensibilissimo «spirito di solidarietà con la mia epoca». Che nel Mio tempo scriverà di aver «sempre sentito il bisogno di essere patriota ». Basta. Non sarebbe più tornato nel suo studio, non avrebbe avuto i suoi ottomila libri e il pianoforte a coda dietro cui appariva vestito da mago a Carnevale, col mantello nero e le stelle dorate sul cilindro quando Erika e Klaus erano piccoli. La casa era perduta, come la Germania.
E infatti vagarono per sette mesi tra Lugano, Basilea, il Sud della Francia, dove poteva incontrare in un caffè del porto il fratello Heinrich, sotto il maestrale. Infine la Svizzera, dove Erika trovò la casa sul lago. Arrivarono i pochi mobili che avevano potuto salvare, la sua scrivania, la poltrona da lettura, il grammofono con i dischi per la sera. Ma la sensazione era di un albero strappato dalla sua terra, quasi come se vivere lontano significasse tradire il Paese, con il tormento di sperare talvolta che la Germania «rimettesse la testa a posto». Ma ecco quella stella gialla, le leggi razziali. Dove sta andando la Germania, dove finirà? Come aveva scritto nella lettera? Ecco, l’aveva riletta così tante volte da saperla a memoria: «L’odio dei tedeschi o dei loro governanti per gli ebrei è il tentativo di scrollarsi di dosso legami di civiltà e minaccia di portare a un orribile e sciagurato allontanamento tra la terra di Goethe e il resto del mondo».
Ma c’è anche un’altra frase della lettera che dice la verità. Prima di tutto a se stesso: «Com’è difficile I’arte di restare neutrali». Sono le vicende angosciose del suo Paese che lo hanno spinto fin qui, sul bordo del lago a mezzogiorno del sabato, sull’orlo della decisione che non sa prendere. Anche la sua famiglia lo spinge. Il fratello Heinrich da lontano, Klaus e Erika, i figli grandi, rimproverandolo com’è successo a Natale perché tace da troppo tempo, davanti alla fine del mondo. Erika soprattutto si attende che lui, il suo Mago, parli. Poi quegli allarmi, la Gestapo che a Monaco interroga i suoi camerieri e l’autista. Il rogo dei libri. Aveva ragione Erika, non poteva restare in disparte, come fosse superiore a tutto e a tutti. Aveva ragione Klaus: «Non c’è più ritorno». D’altra parte come scriveva lui in Mario e il Mago? C’è sempre un momento in cui lo spettacolo finisce e ha inizio la catastrofe. Così aveva preparato la lettera in una settimana, fumando quei sigari svizzeri che gli facevano rimpiangere Monaco. Poi ieri, venerdì, aveva chiesto a Katja di accompagnarlo in auto a Zurigo. Tutto sembrava risolto. Ma ecco che al giornale manca proprio Korrodi, deve lasciare la lettera più importante della sua vita a un assistente, la mano esita, vorrebbe ritirarla, infine la consegna.
Va al cinema con la moglie, vedono Le Rosier de madame Husson, ma lui nel buio si lascia catturare nuovamente dal dubbio. Cosa diranno gli amici? Gli viene in mente l’ultimo incontro con Herman Hesse e il suo consiglio: «Non si immischi, amico mio, si tenga fuori». Ma come si può rimanere “fuori” dall’orrore, c’è un fuori? La notte non dorme e sente che sta cambiando idea: non può dare l’addio definitivo alla Germania, ci sarà pure un’altra strada. Il sabato mattina esce nel freddo per schiarirsi le idee, poi telefona al giornale e ferma la lettera. «Voglio pensarci bene», dice alla moglie, che non commenta. Ma poi Katja non scende a pranzo. Lui mangia tre bocconi di carne, da solo, si chiude nello studio. Guarda le edizioni straniere dei suoi romanzi sugli scaffali, si domanda a cosa servono se i suoi libri finiranno all’indice in Germania. Perché si sta rendendo la vita così difficile? Eppure c’è una via di mezzo, che porta alla salvezza: terrà semplicemente la bocca chiusa, esiste il diritto di tacere.
Si sente solo, nella casa adesso silenziosa e non sa che quello è il dilemma dell’Europa intorno a lui — tacere o rischiare — , un pezzo della tragedia morale dell’Occidente e delle democrazie davanti al Male. L’individuo di fronte al peso della storia, la coscienza personale e la vicenda di un intero Paese, la sproporzione tra il suo dandismo letterario e l’abisso tedesco, e tuttavia il sentimento di dichiararsi e infine il calcolo delle conseguenze. Poi, laggiù in fondo alla stanza, la paura. Dovrà giustificarsi, in un caso o nell’altro? Non sa che fare. Accompagna Katja dalla sarta a Zurigo, l’aspetta all’hotel Baur du Lac dov’erano stati in luna di miele. Quel tavolino d’angolo, con un vermut che profuma di erbe mentre intorno passano torte “Foresta Nera” è il posto giusto per prendere la decisione, vuole costringersi a farlo prima che Katja ritorni. Gli è insopportabile l’idea di rompere con Erika ma anche quella di rompere coi suoi lettori. Poi, mentre si fa buio, un’idea si fa strada dentro il tormento. Lucida, chiara: non vuole tornare in Germania, vuole che la Germania torni da lui, torni com’era prima della follia.
Sardine, uova sode, pane e prosciutto, birra e limonata, cucina Katja e cenano soli. I bambini sono a Basilea, Klaus è continuamente in viaggio, Golo ormai lavora a Rennes, Monika è a Firenze, Erika ovunque col suo cabaret. Alza la birra verso la moglie: «Salute. A volte bisogna lasciare che le cose seguano il loro corso». Nello studio mette sul grammofono il preludio del Lohengrin, la sua opera preferita. Si addormenta in poltrona, cercando nel dormiveglia qualcosa tra politica e cultura, musica e sventura, chiedendosi se star zitti oggi è un’altra forma del patto col diavolo, ricordando confusamente che anche nel suo Doctor Faustus l’accordo con Satana era stato siglato fuori dalla Germania. Finché il disco arriva alla fine. La domenica si sveglia sapendo che non c’è più tempo e non ci sono alternative. È vero, sarà senza terra, ma lo spirito e l’arte non possono essere separati dalla politica e poi la sua Germania non esiste più. Si lucida le scarpe con la cera, scende per colazione, beve un bicchiere di sambuco. «Telefono adesso — dice a Katja — . Domani la lettera uscirà sul giornale». Nel diario di tela cerata chiuso nel primo cassetto dello studio insieme con vecchi occhiali, spago, ceralacca, fiammiferi, c’è scritto: «Ho concluso con commozione». Poco più in là, il calendario arrivato chissà come da Monaco, spalancato sulla data del giorno d’addio alla Germania tre anni prima, l’11 febbraio. Adesso quei fogli si potevano finalmente girare per arrivare al terribile 1936 dell’Europa, il tempo poteva ricominciare a scorrere, come la vita.
IL LIBRO La decisione di Britta Böhler (Guanda traduzione di Laura Pignatti pagg. 200 euro 15)