Repubblica 23.5.16
La contraddizione degli aiuti umanitari
di Roberto Toscano
NON
sono modeste le ambizioni del primo Vertice umanitario mondiale che si
apre oggi a Istanbul. Si tratta niente meno che di un impegno ad «agire
per prevenire e ridurre la sofferenza umana» — un programma che
sintetizza gran parte della stessa ragion d’essere delle Nazioni Unite,
che hanno preparato e convocato il vertice.
Che ci sia un
drammatico bisogno di questo impegno e soprattutto di una presa di
coscienza che sia capace di tradursi in azione, non può certo essere
dubitato. Non ci possono certo consolare le statistiche secondo cui il
nuovo secolo stia facendo registrare conflitti che producono molte meno
vittime di quelli che hanno caratterizzato, con due guerre mondiali e la
Shoah, il tremendo Ventesimo secolo.
È legittimo sperare che le
singole componenti di quella « guerra mondiale a pezzi» di cui ha
parlato il Papa non finiscano per saldarsi in una conflagrazione
globale, ma anche senza questa prospettiva apocalittica la violenza
armata sta devastando vite umane, comunità e territori. Se ci chiediamo
perché i conflitti del nostro tempo producano — anche quando
apparentemente si potrebbero definire come locali — una così profonda,
estesa e contagiosa sofferenza, la risposta va ricercata nella loro
perversa interconnessione. La guerra “ classica” — quella i cui
contendenti erano Stati- nazione, che veniva dichiarata, che vedeva
eserciti contrapposti schierarsi in campo — ormai è caduta in
desuetudine. Ma imperversa una concatenazione di violenza organizzata
che, in un micidiale continuum, va dagli scontri tribali a quelli
settari, dalla contrapposizione fra centralismi e separatismi fino alle
spinte geopolitiche di singoli Stati e al ruolo delle alleanze militari.
In questo senso il conflitto è nello stesso tempo multiforme e globale,
e soprattutto sfugge a quelle mediazioni che ( al tempo di quella
Guerra Fredda che corre il rischio di essere rimpianta) fornivano
comunque la possibilità di una ricomposizione.
E non basta. Il
dramma del conflitto e delle sue conseguenze in termini di sofferenze
umane è reso oggi più grave da altri fattori. È significativo che uno
dei punti principali dell’agenda del vertice di Istanbul sia il rispetto
delle norme che regolano la guerra, quel “ diritto umanitario” che, a
partire dal XIX secolo, ha introdotto limiti sia per quanto riguarda gli
strumenti che gli obiettivi dell’azione militare. Sarebbe falso
sostenere che quell’insieme di norme sia stato sempre rispettato, ma non
ci sono dubbi che, soprattutto grazie al deterrente della reciprocità,
gli Stati si siano attenuti a molte di quelle limitazioni. Le norme ( in
particolare quelle delle Convenzioni di Ginevra e dell’Aja) sono
tuttora valide, ma oggi subiscono una vera e propria erosione proprio in
relazione al prevalere di guerre non dichiarate e al proliferare di
milizie, gruppi terroristi e bande armate di vario tipo che — a
differenza dagli Stati, il cui arbitrio trova almeno un limite nelle
esigenze propagandistiche — non conoscono nemmeno quelle regole e
rivendicano il diritto a perseguire i propri fini senza limiti e senza
condizionamenti. Ma l’erosione si verifica anche quando sono gli Stati a
mettere in atto azioni militari in violazione delle norme sull’uso
della violenza armata, in particolare quelle che dovrebbero imporre una
distinzione fra combattenti e civili.
Si tratta dell’effetto di un
doppio fenomeno: da un lato la presenza del terrorismo ( fenomeno
drammaticamente reale, ma la cui definizione tende ad essere applicata
indiscriminatamente a insorti e guerriglieri) — un nemico nei cui
confronti gli Stati sostengono che non valga alcuna regola, alcuna
limitazione. Dall’altro vi è l’impiego di sistemi d’arma avanzati come i
droni: armi che, nonostante le loro vantate capacità di effettuare
azioni estremamente mirate, finiscono per produrre numerose vittime
civili.
L’insensibilità alle sofferenze umane prodotte in luoghi
lontani è ben nota, ed è stata più volte condannata e contrastata sul
piano etico. La novità del nostro tempo è che è venuto a cadere lo
stesso concetto di “ lontano”, nel senso che chi ha avuto l’esistenza
devastata e la stessa sopravvivenza minacciata oggi è in grado di
mettersi in marcia verso una speranza di salvezza, e si spinge fino ai
territori dove i governi non sganciano bombe, dove i militanti di feroci
cause settarie non tagliano gole, dove le case non vengono bruciate e
le donne non vengono stuprate.
Il conflitto sarà al centro dei
lavori del Vertice, ma non sarà il suo unico tema. Non si dovrebbe mai
perdere di vista, e le Nazioni Unite certo non lo fanno, che la
sofferenza umana non è solo prodotta dalle guerre, ma anche da una fame e
da una estrema miseria che spesso non sono causate da carenze
produttive o di mercato, ma da sistemi politici basati su ingiustizia,
corruzione, e su quella feroce repressione che è l’unico modo in cui
classi politiche squalificate e fallite possono mantenere il proprio
potere.
La dimensione umanitaria s’intreccia qui con quella dello
sviluppo e con la stessa politica — un intreccio di tale complessità e
problematicità da sollevare più di un dubbio sulla possibilità di
affrontarlo anche in modo sommario nei due giorni del vertice. Senza
parlare di quella che è con ogni evidenza la sfida tendenzialmente più
drammatica per la stessa sopravvivenza degli umani: quella di una crisi
ambientale che incide in modo crescente non solo sull’economia, ma sulla
stessa abitabilità di vaste zone del pianeta.
Sono problemi
drammatici, e verrebbe quindi istintivo salutare il vertice di Istanbul
con un plauso e un sincero augurio di buon lavoro. Ma fa pensare il
fatto che una delle organizzazioni non governative più coraggiose e più
credibili, Medici senza frontiere, non sarà presente a Istanbul. Anzi,
Msf ha denunciato il vertice come “ foglia di fico” che punta a
nascondere le violazioni delle norme umanitarie di cui gli Stati, e non
solo i guerriglieri e i terroristi, si rendono responsabili. Il
riferimento è ai ripetuti attacchi contro ospedali dell’organizzazione,
in particolare a Kunduz e ad Aleppo, ma la dura critica dei Medici senza
frontiere va oltre i casi che li riguardano e tocca un punto
drammaticamente reale: la scarsa credibilità di dirigenti politici che,
riunendosi periodicamente al massimo livello in contesti solenni,
approvano dichiarazioni e assumono impegni che non sono autenticamente
intenzionati a rispettare.
La contraddizione fra retorica e
realtà, gravità dei problemi e irrisoria entità delle soluzioni,
minaccia sempre più di svuotare di senso quella governanza globale che
costituisce invece l’unica, e ultima, speranza dell’umanità.
L’autore è diplomatico e scrittore, già ambasciatore in Iran e in India