Repubblica 1.5.16
Il referendum e la democrazia del compromesso
di Stefano Rodotà
LA
CAMPAGNA elettorale per il referendum costituzionale, già cominciata da
tempo, ha avuto una forte e prevedibile accelerazione dopo i risultati
del referendum sulle trivelle. E dalle polemiche e dai conflitti di
questi giorni già vengono indicazioni che consentono di avanzare ipotesi
sui caratteri che assumerà la campagna elettorale e sugli effetti che
via via si produrranno nel sistema politico-istituzionale.
Si deve
partire da una constatazione. I referendum sono un gioco a somma zero,
un sì contro un no, un vincitore e un vinto, e quindi il conflitto è
nella loro stessa natura. Fatta questa ovvia constatazione, si tratta
poi di stabilire per ciascun referendum come si strutturi concretamente
il conflitto, con quali caratteristiche e intorno a che cosa. E, facendo
questo, si scopre che i referendum possono incidere sul funzionamento
del sistema politico al di là della conferma o dell’abrogazione di una
legge. Più d’una volta, negli anni passati, si è ritenuto che un voto
referendario potesse avere un effetto destabilizzante del sistema
politico al punto tale che, pur di evitarlo, in alcuni casi si è
preferito sciogliere le Camere.
Considerando le ultime vicende, i
critici dell’utilità del voto sulle trivelle hanno insistito sul fatto
che ben cinque dei sei quesiti predisposti dalle regioni avevano trovato
una risposta positiva da parte del governo, sì che non valeva più la
pena di andare a votare su un caso residuale. Valutazioni a parte su
questo giudizio, questa vicenda mostra come una semplice richiesta
referendaria possa modificare l’agenda politica, stabilire priorità.
Inoltre, la mobilitazione sociale necessaria già al momento della
raccolta delle firme può dare origine ad un vero e proprio movimento, a
forme di intervento alle quali i cittadini ricorrono quando appaiono
chiusi gli altri canali di partecipazione politica.
Questo
sfaccettarsi delle funzioni del referendum diviene ancor più evidente se
si considera l’imminente referendum costituzionale. All’abituale
polarizzazione referendaria, infatti, si è questa volta aggiunta una
chiara personalizzazione del voto perché, con l’annunciata decisione di
dimettersi in caso di bocciatura della riforma, il presidente del
Consiglio ha ormai trasformato l’occasione referendaria in un vero e
proprio voto di fiducia.
Si può dire, ed è stato detto, che un
governo, se attribuisce una particolare importanza ad alcuni suoi
provvedimenti, ben può ritenere che la loro cancellazione impedisca la
prosecuzione della sua azione, annunciando preventivamente ai cittadini
questa sua intenzione. Ma questo referendum non riguarda l’indirizzo
politico di maggioranza bensì, come è giusto dire, una massiccia
riscrittura delle regole del gioco, con una modifica della forma di
governo e del contesto democratico definito dalla Costituzione. Lo ha
messo in evidenza efficacemente Romano Prodi, ricordando che «le riforme
costituzionali debbono durare molto e non possono essere mirate solo
all’interesse di chi possiede la maggioranza del momento». Il
riferimento ai soli interessi della maggioranza è, alla lettera, quello
che si trova nelle pagine di Hans Kelsen dedicate alla virtù fondativa
del «compromesso », dove si sottolinea che esso «fa parte della natura
stessa della democrazia » e consiste, in primo luogo, nel risolvere «un
conflitto mediante una norma che non è totalmente conforme agli
interessi di una parte, né totalmente contraria agli interessi
dell’altra». Chi ha memoria della nostra storia costituzionale, cosa ben
diversa dai troppi richiami sgangherati ai lavori dell’Assemblea
costituente fatti in questo periodo, ricorda che di un “compromesso
costituzionale” si è molto parlato, anche con toni critici, ma in
definitiva riconoscendo la saggezza politica dei costituenti che,
attraverso un confronto serrato, erano giunti a sintesi assai elevate,
garantendo l’alta qualità della Costituzione.
Si dice che bisogna
discutere nel merito la riforma sottoposta al voto. Ma non vi è merito
più importante e ineludibile della valutazione della logica che la ha
guidata e di quale risultato, in termini di democrazia, sia stato
raggiunto. È bene ricordare, allora, che nel corso dell’iter
parlamentare, e in particolare in occasione delle audizioni di molti
studiosi, proprio sul punto centrale della nuova disciplina del Senato
vi erano state proposte assai circostanziate di modelli che avrebbero
evitato non solo il pasticcio attuale, ma avrebbero consentito una
soluzione davvero innovativa, con effetti di seria semplificazione e
mantenimento di equilibri costituzionali che, soprattutto se si tiene
conto dell’intreccio con la nuova legge elettorale, vengono invece
pregiudicati. Il buon “compromesso democratico” è lontano, e di questo
si dovrà discutere.
Ma il riferimento alla democrazia torna, in
maniera ancor più impegnativa, quando si constata che siamo di fronte al
passaggio da una democrazia rappresentativa ad una democrazia
d’investitura, dunque ad un mutamento della forma di governo. Ancora una
ineludibile questione di merito, se appena si considera che la sentenza
della Corte costituzionale che ha cancellato il “Porcellum” è
sostanzialmente fondata sulla constatazione che non veniva garantita
proprio la rappresentanza dei cittadini. E questo non è tema che
riguarda il passato, perché la Corte costituzionale dovrà occuparsi
della legittimità dell’Italicum, contestata con argomenti che
sottolineano come anche questa nuova legge elettorale sia viziata da un
deficit di rappresentanza (e contro l’Italicum si stanno anche
raccogliendo le firme per un referendum abrogativo).
Vero è che ad
ottobre non si voterà sulla legge elettorale. Ma è evidente che la
discussione investirà anche questo aspetto della strategia istituzionale
del governo, come peraltro sta già avvenendo, perché la stessa riforma
costituzionale evoca il tema del potere dei cittadini con le nuove norme
sui referendum e sulla iniziativa legislativa popolare, in sé deboli e
comunque inadeguate per costituire un contrappeso ad un accentramento
del potere che mette la maggioranza nella condizione di poter vanificare
le iniziative popolari (altra cosa è la democrazia partecipativa
considerata anche nella dimensione digitale). Giustificato con
l’argomento della semplificazione delle procedure di decisione
(realizzata invece in forme confuse e contraddittorie), il moto
ascendente del potere, la sua concentrazione in poche mani pongono
chiaramente una questione di democrazia, già evidente in alcune
inquietanti prassi dell’attuale governo, o per meglio dire del
presidente del Consiglio. Il giudizio degli elettori riguarderà
inevitabilmente tutti questi aspetti della questione, che oggi si
presenta con i tratti di una democrazia messa sotto tutela.
Diventa
fondamentale, allora, il contesto nel quale si svolgerà la campagna
elettorale. Uno storico come Emilio Gentile ha appena pubblicato un
libro dal titolo “Il capo e la folla”, che riprende un tema trattato nel
1895 da Gustave Le Bon, analizzando “la psicologia delle folle”. La
ricostruzione dei rapporti tra il leader e le masse, la
personalizzazione del potere ci portano ai giorni nostri, che conoscono
il pieno dispiegarsi di quella che Abramo Lincoln chiamò la “democrazia
recitativa”. Varrà la pena di tornare su questo tema. Ma, considerando
la campagna elettorale, bisognerà garantire subito che la “recita” non
sia riservata ad un numero ristretto di personaggi. Questo chiama in
causa particolarmente la televisione pubblica, ma implica una
responsabilità dell’intero sistema informativo. Una questione di
democrazia, che si aggiunge alle altre appena ricordate.