Repubblica 19.5.16
Referendum e città la minoranza pd attende Renzi al varco
Dietro la tregua proposta dal premier i due passaggi-chiave
Nella
doppia prova si decide il futuro della prospettiva renziana Roma caso a
sé ma perdendo a Milano o Torino si aprirebbe il “fronte interno”
di Stefano Folli
LA
tregua di sei mesi chiesta da Renzi alla minoranza del suo partito è
una mossa con pochi precedenti. Perché sei mesi e non, ad esempio, nove o
dodici? Il semestre abbraccia giusto il passaggio delle elezioni
amministrative e soprattutto il referendum di ottobre. Un tragitto
troppo insidioso, oltre che breve, per garantire un’autentica unità
interna.Del resto, Renzi non sembra aver preso impegni di sorta per
quanto riguarda la futura gestione del Pd e tanto meno i criteri con cui
verranno compilate le liste elettorali. Sul tavolo c’è da qualche tempo
una richiesta scomoda: dividere le responsabilità del premier da quelle
del segretario del partito. Oggi, come è noto, le due cariche sono
concentrate nelle mani di Renzi, il cui potere non è mai stato così
esteso. Rinunciare alla segreteria sarebbe una novità significativa.
Potrebbe essere un passo avanti verso una gestione meno personale, da
cui la minoranza ricaverebbe una forma di corresponsabilità. Oppure
potrebbe essere un gesto che non cambia nulla nei rapporti interni, se
il prescelto - o la prescelta - fosse una figura di stretta fiducia del
premier, dunque priva di un minimo di autonomia.
In ogni caso,
l’offerta di una tregua di sei mesi non sembra contenere in sé la
promessa che il potere nel Pd sarà ripartito in modo diverso prima delle
elezioni politiche (2017 o 2018). L’ipotesi esiste, ma rimane sospesa a
mezz’aria in attesa degli eventi. Tutti, sia Renzi sia i suoi
oppositori, aspettano di vedere i risultati di giugno nelle città e poi
quelli di ottobre nel referendum costituzionale. I due passaggi
determineranno il futuro della prospettiva renziana nonché il destino di
quello che, semplificando, viene definito il “partito della nazione”.
Se il premier-segretario uscirà ben saldo dalla doppia prova, avendo
ottenuto il consenso popolare, la minoranza non avrà nulla e la gestione
del partito resterà circoscritta al gruppo dei fedeli. Altrimenti gli
oppositori saranno in grado di negoziare qualcosa: poco o tanto,
dipenderà dalle urne elettorali.
Nelle grandi città, per esempio,
una sconfitta del centrosinistra a Roma e Napoli è già messa nel conto
(ovviamente, un colpo di scena nella capitale a favore di Giachetti
equivarrebbe invece a un trionfo). Ma se il Pd perdesse anche Milano o
Torino, dove le previsioni sono favorevoli, ecco che la minoranza
coglierebbe l’occasione per “aprire una riflessione”. Ossia, in parole
semplici, per attaccare il leader. Altro che tregua. Gli argomenti non
mancano e toccano la politica economica: in particolare la riforma del
lavoro, dopo che l’Inps ha fotografato la caduta delle assunzioni dovuta
alla scadenza degli incentivi. Ieri Gotor, molto vicino a Bersani, non
lasciava dubbi sulle intenzioni degli anti-renziani in caso di esito
mediocre del voto per i sindaci. Ne deriva che Renzi ha l’esigenza di un
buon risultato in giugno perché ne ricaverebbe lo slancio necessario
per affrontare il referendum d’autunno. Come si dice, successo chiama
successo: viceversa un passo falso nelle città determinerebbe una
campagna referendaria nervosa e affannata, ricca di temi impropri e in
un clima da resa dei conti.
SUL referendum per il momento è Renzi a
battere il ritmo. Gli oppositori interni restano nel vago. Martedì sera
a “Otto e mezzo” Bersani se l’è cavata con una battuta: “dobbiamo
discutere della Costituzione, non stiamo scegliendo il maschio alpha”.
Ossia non andremo a votare per conferire tutti i poteri a Renzi. Nella
sostanza, però, la minoranza ha il problema di ritagliarsi un ruolo
idoneo a stare sulla scena in modo credibile. In Parlamento la battaglia
della riforma costituzionale l’ha messa nell’angolo, anche per mancanza
di idee. Oggi i suoi esponenti, chi più chi meno, avrebbero voglia di
votare No, ma pochi finora lo dicono a chiare lettere. La materia è
delicata e il peso politico della scelta è evidente. La tesi secondo cui
la riforma è cattiva, ma è pur sempre meglio di nessuna riforma,
potrebbe fare proseliti di qui a ottobre. Tuttavia molto dipenderà dal
voto nelle città e da come si incastreranno i vari tasselli del mosaico.