mercoledì 18 maggio 2016

Repubblica 18.5.16
Obama a Hiroshima e la questione nucleare
di Roberto Toscano

CHE COSA possiamo aspettarci dalla visita di Obama a Hiroshima? Ci si chiede in concreto in che modo il presidente americano saprà impiegare il suo ben noto talento oratorio per affrontare in modo convincente un tema così carico di interrogativi sia storici che etici. Da parte loro i commentatori americani coincidono nel dire che c’è una cosa che comunque faremmo bene a non aspettarci: l’ammissione di una colpa — quella di avere annientato, con l’atomica sganciata su Hiroshima (e tre giorni dopo su Nagasaki), decine di migliaia di civili.
Gli americani, compresi quelli di orientamento progressista, tendono ad essere riluttanti a sottoporre a un giudizio critico la decisione di usare l’atomica, mettendo quelle che pure dovrebbero essere macroscopiche considerazioni morali in secondo piano rispetto alla necessità di piegare la volontà giapponese di resistere ad oltranza. Questa presunta necessità viene contestata dagli storici che mettono in risalto il fatto che in realtà i giapponesi erano pronti alla resa, ponendo solo la condizione del mantenimento del ruolo dell’imperatore, come del resto, nonostante la loro resa incondizionata, gli americani si dimostrarono poi disposti a concedere.
Ma la riluttanza degli americani a criticare l’uso dell’atomica contro il Giappone ha anche un’altra spiegazione: il convincimento che i giapponesi, soprattutto per l’attacco a sorpresa a Pearl Harbor, “se lo meritavano”, e che una causa giusta come quella di sconfiggere l’aggressore giustificava i mezzi, tutti i mezzi, necessari per renderla vincente. Si tratta di un meccanismo di tipo culturale ancor prima che psicologico. Abbiamo tutti ripetutamente visto nel film western, autentico autoritratto di una cultura, la devastante e smisurata reazione del giusto nei confronti del malvagio. Il dopo-11 settembre ha riprodotto lo stesso schema.
Proprio perché è difficile attendersi una revisione critica del tragico, epocale evento dell’agosto 1945, dovremmo invece prevedere che Obama colga l’occasione del suo discorso di Hiroshima per parlare del futuro piuttosto che del passato trattando il tema degli armamenti nucleari. È un tema che il presidente aveva affrontato nel discorso tenuto a Praga il 5 aprile del 2009 quando — suscitando molte aspettative — aveva messo in primo piano la questione del disarmo nucleare e non solo quella della non-proliferazione. Si dimentica troppo spesso, da parte delle potenze nucleari, che il Tnp (il Trattato di non proliferazione nucleare) dovrebbe essere basato su un equilibrio fra tre aspetti: la non-proliferazione, la collaborazione nello sviluppo degli usi pacifici dell’energia nucleare e il disarmo.
Il discorso di Praga di Obama giustifica in gran parte il fatto che quello stesso anno gli venne assegnato un Premio Nobel per la pace che si potrebbe definire un incoraggiamento più che un riconoscimento. Non solo infatti Obama riconosceva la centralità della componente disarmo, sostanzialmente ignorata da chi possiede l’arma atomica, ma arrivava quasi a definire le armi atomiche come un anacronismo, definendole «il retaggio più pericoloso della Guerra Fredda», e aggiungendo che, nonostante la Guerra Fredda fosse terminata, le atomiche rimanevano. Di qui un impegno: «Come potenza nucleare, come unica potenza nucleare ad avere usato l’arma atomica, gli Stati Uniti hanno una responsabilità morale di agire. Gli Stati Uniti si impegneranno concretamente per arrivare ad un mondo senza armi nucleari ».
Ma a che punto stanno le cose a sette anni di distanza dal discorso di Praga? Con il trattato New Start del 2010 il tetto delle testate nucleari in possesso di ciascuna delle principali potenze nucleari, Stati Uniti e Russia, è stato portato a 1.550, ovvero oltre tremila atomiche, macroscopicamente ridondanti rispetto all’apocalisse del Mad — Mutual assured destruction. La strada della riduzione concordata e bilanciata degli armamenti nucleari è lenta, inadeguata e incerta, sottoposta com’è alle vicende di una conflittualità che non è certo scomparsa con la fine della Guerra Fredda. Non sarebbe certo giustificato attribuire a Barack Obama tutte le responsabilità per quella promessa non mantenuta. Da un lato la Russia di Putin ha recentemente rivendicato l’importanza della componente nucleare della propria difesa, e sono stati i russi a lasciar cadere una proposta di Obama di abbassare ulteriormente, portandolo a mille, il tetto delle testate nucleari.
Va detto però che, dato che la responsabilità è sempre direttamente proporzionale al potere, non vi è dubbio che, anche se, come dicono gli americani, per ballare il tango bisogna essere in due, è sull’America che ricade il ruolo principale di condurre le danze, tanto più oggi, quando lo squilibrio di potenza militare fra Washington e Mosca non permette certo di parlare di parità. In un certo senso si sono invertite le parti: negli anni della Guerra Fredda gli americani sostenevano che il nucleare era indispensabile per compensare l’inferiorità nel campo degli armamenti convenzionali, ora sono i russi a farlo.
Il punto centrale non si riferisce però ai numeri, ma alla tecnologia, un campo su cui i russi non hanno certo molte possibilità di tenere il passo con gli americani. Che senso ha infatti parlare di ridurre il numero di testate nucleari se in parallelo si mette in atto una potente modernizzazione di testate e sistemi di delivery?
Le cifre non lasciano dubbi. Nel periodo 2014-2023 gli Stati Uniti prevedono, per la modernizzazione delle armi nucleari, una spesa di 355 miliardi di dollari (nel 2015 ne sono stati stanziati 23 miliardi), mentre sull’arco di 30 anni si prevede una spesa di mille miliardi di dollari. Risulta in questo modo clamorosamente vanificato ogni possibile effetto-disarmo della riduzione quantitativa degli armamenti. Sarebbe come effettuare un “disarmo” dimezzando il numero di fucili antiquati sostituendoli con armi automatiche supermoderne. Va detto però che su questo punto, più che la volontà politica di Obama, pesa la volontà maggioritaria del Congresso, dove la modernizzazione nucleare trova ben più aderenti del disarmo.
La “questione nucleare” russo-americana è tornata ad essere critica anche in relazione alla questione dei sistemi antimissile con base in Europa la cui prima base, in Romania, diventa in questi giorni operativa. Difficile per i russi credere alle assicurazioni americane che questi sistemi di difesa siano destinati a far fronte a una futura, ipotetica minaccia missilistica iraniana quando si tratta oggettivamente di un passo che — rendendo meno reciproca l’esposizione alla risposta dell’avversario che è alla base della deterrenza nucleare — altera gli equilibri strategici fra Washington e Mosca. Va detto che si tratta della maturazione di un progetto che è stato bersaglio di dure polemiche russe fin dalla sua prima formulazione circa dieci anni fa, e non di un’iniziativa di Obama.
La sua presidenza sarà ricordata per alcune significative realizzazioni (uscita dalla recessione; riforma sanitaria; accordo nucleare con l’Iran; normalizzazione di rapporti con Cuba) ma anche per le numerose e deludenti mediazioni. In questa fase conclusiva della sua presidenza Obama ha tuttavia dimostrato di voler affermare in modo più esplicito e meno “centrista” i propri principi. È quindi possibile immaginare che a Hiroshima Obama non si lasci sfuggire l’occasione di un colpo d’ala non solo retorico ma politico sulla questione nucleare, un tema centrale per il futuro dell’umanità che avevamo, erroneamente, ritenuto superato con la fine della Guerra Fredda.