mercoledì 18 maggio 2016

Repubblica 18.5.16
Giovanni Bazoli
“Dio, le banche e le battaglie sul Corriere
L’ex presidente di Intesa: “Non mi sono mai sentito un banchiere, sono giurista”
“Sconfitto per l’Opa su Rcs? Consiglierei di aspettare un momento, oggi non so come andrà a finire”
“Io, Cuccia, il Corriere e la lunga stagione della finanza cattolica”
colloquio con Ezio Mauro

«Io sconfitto per l’Opa sul Corriere? Guardi che ho lasciato i miei incarichi. E poi, le consiglierei di aspettare un momentO. Oggi non so proprio come andrà a finire». Giovanni Bazoli, 83 anni, lascia la guida di Banca Intesa dopo averla costruita pezzo per pezzo dalle macerie del Banco Ambrosiano, finito impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra con Roberto Calvi. Questa è la sua prima intervista dopo aver lasciato la presidenza della più importante banca italiana, proprio mentre scoppia la terza guerra tra Intesa e Mediobanca, questa volta attorno al Corriere.
Professore, lei è cattolico, di rito bresciano, montiniano e democratico. Si è sentito banchiere di Dio in questi anni?
«Non mi sono mai sentito neppure banchiere. Uno è ciò che ha studiato, e io sono un giurista. Prima che cominciasse tutto, nel 1982, è questa l’obiezione che ho fatto a Ciampi e Andreatta che volevano convincermi a diventare presidente del Nuovo Ambrosiano. Camminammo a lungo a braccetto nei corridoi di Bankitalia, che quel giorno mi sembrarono lunghissimi, prima di entrare nell’incontro decisivo. Nella riunione le sette banche dissero che come presidente indicavano il professor Bazoli. Non mi conosceva nessuno. Mi alzai: “Bazoli sarei io. Ma non penso di essere adatto, chiedo 24 ore per decidere”».
Chi la convinse?
«Nessuno, tanto che alla fine andai da Andreatta e gli dissi di pensare ad un altro nome. Mi disarmò: “A tutti costa assumere una grande responsabilità in condizioni di emergenza. Devo prendere atto che tu non te la senti”. Se è così, risposi, io accetto».
Che Italia era quella del 1982? La P2 dilagante, Bankitalia violata dall’attacco della Procura di Roma a Baffi e Sarcinelli, Sindona che poco prima fa assassinare Ambrosoli, il “suicidio” di Calvi. Il crimine che si muoveva dietro quel Banco lo ha mai incontrato?
«No. A Ferragosto io e Gallo, il direttore generale, entriamo in banca. La prima telefonata è del questore di Milano, Pirella, che ci convoca nel suo ufficio. Sentite, dice, dietro la morte di Calvi c’è la peggior organizzazione criminale del mondo. Io non ho i mezzi per proteggervi, ci deve pensare la banca. Uscimmo dalla questura in una Milano deserta, guardandoci attorno. Ecco il Paese com’era. Ma c’era anche un’Italia di galantuomini: senza Ciampi e Andreatta non avrei mai accettato».
Le due Italie si scontrarono sull’Ambrosiano?
«L’opinione pubblica era divisa e forze importanti, diciamolo, avevano cercato di impedire la liquidazione coatta dell’Ambrosiano di Calvi».
Faccia dei nomi: chi era contro?
«Andreatta dovette fronteggiare Andreotti. E altri».
Ma nell’89, sette anni dopo, lei fa la prima fusione con la Banca Cattolica del Veneto e nasce l’Ambroveneto. Aveva già in mente la grande banca?
«No davvero. Ho sempre fatto un passo alla volta. Ma dopo la prima operazione, cominciammo a suscitare appetiti. Tanto che nacque il primo scontro con Mediobanca, che cercò di convincere Schlesinger, presidente della Popolare di Milano, a non rivolgersi a noi, come lo obbligava il patto di sindacato, ma a Generali. Avevo solo un mese di tempo per trovare qualcuno in grado di fare una controfferta. Per di più, dovevo partire per il Fondo Monetario: non sapevo a che santo votarmi».
Come trovò un santo francese?
«Fu un caso. In una riunione al Fondo avanzai la proposta a un funzionario del Crédit Agricole, che la trasmise ai suoi. Per convincerli andai a Parigi, in incognito. L’offerta scritta, firmata dal direttore generale Jaffré, giunse il penultimo giorno utile, ma per una svista portava la data del giorno dopo e quell’errore venne impugnato. Avevamo poche ore per rimediare e tutti i poteri forti schierati contro di noi, Generali, Fiat, Mediobanca. Per fortuna Jaffré era al carnevale di Venezia, lo trovai e gli chiesi di correre a Milano. Era in vacanza, venne in pullover, sembrava un intruso: dovette mostrare la carta d’identità. Passammo. Dopo qualche giorno scoprii che Gianni Agnelli aveva detto a un amico, col suo linguaggio sportivo: io tengo per Bazoli».
Lo conosceva?
«Lo avevo incontrato a un seminario Ambrosetti. Era curioso di conoscermi. A bruciapelo mi chiese di spiegargli il significato della finanza cattolica ».
Cosa gli rispose?
«Che gli statuti delle banche cattoliche prevedono la rinuncia a una parte degli utili a favore di opere benefiche. Oggi parlare di finanza cattolica non ha più senso. Ma mio nonno avrebbe saputo spiegare bene cosa significava andare in giro per le campagne a creare le cooperative bianche ».
Nel 1997 Ambroveneto acquista Cariplo, la più grande Cassa di Risparmio del mondo, con un’offerta che prevale su quella avanzata dalla Comit. E’ lo scontro tra finanza laica e finanza cattolica, nella seconda guerra con Mediobanca?
«Lo abbiamo evitato grazie a una svolta nei miei rapporti con Cuccia, in circostanze eccezionali. Era appena scomparso in un incidente stradale il mio unico fratello, che lasciava quattro figli, già orfani della madre, vittima della strage di Piazza della Loggia a Brescia. In quel momento ero così disperato che pensavo di lasciare tutto. Ad ottobre, prima che partisse la gara, andai da Cuccia e gli confidai il mio stato d’animo: lei non capirà ma io non sono in condizione di fare una guerra, se vi opponete io lascio. “Tre giorni fa è morta mia moglie – rispose -, dopo 60 anni di matrimonio. Non è il caso che le dica che capisco tutto. Vada avanti”. Si è alzato e ci siamo abbracciati ».
L’integrazione con la Comit, la banca laica che era stata di Raffaele Mattioli, fu il frutto di quell’incontro con Cuccia?
«Sì. Era nato un rapporto confidenziale. Quando fu lanciata un’Opa ostile di Unicredit contro la Comit, Cuccia puntò su di noi. Imparai che esisteva un passaggio nascosto sotto via Filodrammatici, ci trovavamo segretamente in quattro, Cuccia, Maranghi, il notaio Marchetti ed io. Vede che le relazioni contano, negli affari come nella vita? » Lei è stato accusato di aver inventato una “banca di relazione”, “banca di sistema”. Lo sta rivendicando?
«No, dico che le relazioni possono essere buone o cattive. E vanno giudicate per questo. Io non ho mai teorizzato la banca di sistema».
Lo ha fatto Corrado Passera quando era amministratore delegato di Intesa, mettendo in piedi il cosiddetto “salvataggio” di Alitalia. Lei c’era, no?
«Sono noti a tutti i dubbi che avevo al riguardo ».
Insieme a Passera avete fatto la fusione con il San Paolo di Torino, nel ‘99. Un’operazione bancaria o di potere?
«Direi un’operazione di importanza vitale per il sistema bancario italiano. Io avevo un buon rapporto con Enrico Salza. Avevamo un grande amico comune, Alfonso Desiata, malato da tempo. Decidemmo di andarlo a trovare insieme: passammo un giorno in viaggio, ci confidammo l’idea, la discutemmo tornando a casa. Tutto è nato in auto. Poi incontri riservati, questa volta nello studio Pedersoli di Milano, e con Franzo Grande Stevens, presidente della Compagnia di San Paolo».
Tutto sempre d’estate, perché?
«Coincidenze. Però è vero che quando la gente è in vacanza e le città sono vuote, è più facile appartarsi e negoziare riservatamente».
Sembra che non parli di affari, ma di colpi di mano. Qualche volta avrà pure preso delle sberle, no?
«Vuole sapere se ho rischiato di finire con le ossa rotte? Non una sola volta. Nel ‘94 ad esempio la Comit lanciò su di noi un’Opa diabolica e zoppa, perché era rivolta soltanto ai primi due soci che avrebbero risposto, non a tutti. Il valore dei titoli era salito al doppio del prezzo di Borsa, il killeraggio mio e di Agricole era praticamente scritto ».
Cosa vi salvò?
«La percezione di qualcosa nell’aria. Una settimana prima dell’Opa vidi a Verona i presidenti delle Banche Popolari Venete, che si erano già dichiarate venditrici, e proposi: datemi un’esclusiva per un mese, al prezzo che concordiamo qui, oggi. Raggiunto l’accordo, chiesi di metterlo per iscritto. Mi risposero: “Mica si fa così, per queste cose ci vogliono gli avvocati”. Ma io sono avvocato, insistetti, chiamiamo una segretaria, dettiamo, scriviamo e firmiamo. Abbiamo firmato».
Veneto, Popolari, Bazoli: la finanza cattolica non avrà più senso, come dice lei, però qualche volta aiuta, non le pare?
«Non come pensa lei. Sa per cosa è di aiuto essere cattolici? Per avvertire la responsabilità sociale di una banca. Per sentirsi cioè responsabili dei risparmi delle famiglie, dello sviluppo delle imprese e della crescita del Paese. E soprattutto per aver piena consapevolezza che il problema fondamentale oggi è la riduzione delle disuguaglianze. Vale per tutti, naturalmente: ma un cattolico come fa a dimenticarlo?».
Bisognava chiederlo a monsignor Marcinkus. La massoneria spadroneggia nelle banche?
«Mai trovato un banchiere che si confessi massone. Ho avuto molte dichiarazioni (da me non richieste) di estraneità alle Logge, nessuna ammissione, tanti sospetti».
Non pensa che ci sia anche una massoneria di piccolo traffico provinciale d’influenza, come nel caso di Banca Etruria?
«Non conosco il dossier, né i protagonisti. Vedo però che quattro banche con appena l’1 per cento di quote di mercato hanno generato nel sistema contraccolpi impensabili».
La P2 però l’ha incontrata, nei suoi primi anni a Milano. O almeno era dietro la sua porta. Ha avuto avvertimenti?
«No. Ma sapevo che erano i padroni occulti dell’Ambrosiano e del Corriere. E che potevano affondare l’Italia».
Ha citato la sua grande ossessione, il Corriere della Sera. Era il giornale lombardo che entrava in casa sua da bambino?
«Per la verità no. Mio padre leggeva la Stampa. Ha presente la laicità repubblicana e costituzionale di un cattolico come Arturo Carlo Jemolo? » Ma quando prende in mano l’Ambrosiano lei trova nel Banco il 40 per cento della Rizzoli, e la posizione di primo creditore. Che fa?
«La Rizzoli chiese e ottenne quasi subito l’amministrazione controllata, da cui si poteva uscire solo in due modi: o con un ritorno “in bonis”, o col fallimento diretto. Lo sa che metà dei nostri azio- nisti era per il fallimento?»
Ci provarono?
«Certo. Nel 1983 dovevamo approvare le condizioni poste dal giudice per concedere il secondo anno di amministrazione controllata. Bene, l’ultimo giorno utile per deliberare non si presentarono metà dei consiglieri per far mancare il numero legale. Ma non si era tenuto conto di un consigliere di Bnl che, in rotta col presidente Nesi, da sei mesi disertava le riunioni. Appena percepito il pericolo, telefonai a Nesi che rintracciò in extremis l’interessato e lo mandò a prendere a casa d’urgenza. Passammo, con quel voto».
Come convinse Agnelli a rientrare in Rizzoli?
«Con fatica. Vedeva il rischio di quel mondo oscuro. Feci leva su quel senso di orgoglio nazionale, o forse di establishment, la metta come vuole, che era nel suo Dna. Alla fine si convinse».
Una volta lei mi disse che il suo principale merito non era quello di aver scelto dei bravi direttori (come certo ci sono stati) per il Corriere, ma di essere riuscito ad evitarne alcuni pessimi. Oggi conferma?
«Assolutamente sì’».
E chi erano quelli sbagliati, e perché?
«Il criterio da seguire è quello di scegliere un bravo giornalista che sappia garantire l’indipendenza del giornale. Questo è sempre stato il punto, per me. Ma un giorno mi trovai i due principali azionisti di Rcs che mi proponevano un nome legato strettamente al potere politico dominante. Dissi che non avrei mai dato il mio consenso e che avrei spiegato pubblicamente perchè. Rinunciarono e scegliemmo un buon direttore».
Era il periodo berlusconiano?
«Veda un po’ lei. Diciamo che quel ventennio non fu facile, anche perché bisognava scegliere uomini indipendenti, ma sapendo che l’anima dei lettori del Corriere era prevalentemente moderata. Mi pare che l’indipendenza del giornale sia stata salvata, anche a costo di qualche compromesso ».
Come il patto col diavolo tra lei e Geronzi, due cattolici opposti?
«A parte il fatto che non riesco a vedere in Geronzi aspetti diabolici, certo ho fatto accordi con lui, nell’interesse del giornale, con il risultato di riuscire a nominare un bravissimo direttore come Ferruccio De Bortoli».
Ma quand’è che un direttore è cattivo per lei?
«Quando è cinico».
Ha mai avuto pressioni da Berlusconi per il Corriere?
«No, mai».
E dal suo amico Prodi?
«Nemmeno».
E’ vero che prima di morire l’Avvocato le passò il testimone del Corriere?
«E’ vero che volle vedermi quando stava già molto male, e la Fiat forse stava peggio. Andai a trovarlo a casa. “Noi insieme a Milano abbiamo fatto finora una storia positiva – disse -: adesso facciamo un accordo a due per il futuro di Rcs”. C’è un patto di sindacato, risposi, non si può. Allora aggiunse: “Dirò comunque a Grande Stevens di decidere sempre d’accordo con lei”».
Ma oggi la Fiat è uscita dalla Rcs firmando un’intesa con il nostro editore, il Gruppo Espresso. Si aspettava questa decisione?
«Devo dire di no, mi ha stupito, anche se sapevo che la Fiat si era disamorata di Rcs, anche a causa dei dissidi tra i soci».
Lei è stato attaccato da Della Valle con Geronzi, “due arzilli vecchietti” invitati ad andarsene. Come se lo spiega?
«Non me lo spiego, anche perché con Della Valle non sono mancati dei momenti di intesa. Ricordo che una volta mi fece recapitare una torta ad Ischia, dove ero in vacanza con mia moglie. Probabilmente tutto dipende dalla sua delusione per gli investimenti fatti in Rcs».
In queste ore è ripartita la guerra tra Intesa e Mediobanca per il Corriere: come vede lei la contrapposizione tra Bonomi e Cairo?
«Guardi, mi limito a dire che Intesa Sanpaolo, essendo il principale creditore di Rcs, è interessata a una soluzione proprietaria che assicuri la migliore gestione dell’azienda. Se non si fosse ammalato, sa chi avrei appoggiato? Rotelli, che aveva per l’editoria una vera passione, più forte persino di quella per la sanità».
Ma avete appoggiato Cairo, che oggi sembra perdente. Dunque si sente sconfitto?
«Aspettiamo, le ho detto. In ogni caso, io non ho più ruoli attivi, ho conosciuto Cairo solo recentemente. Ma mi è sembrato serio, umile, libero politicamente. Ed è uno che quando esce da una stanza spegne la luce».
Dica la verità, dopo tre decenni passati nel salotto di comando la spaventa l’idea di avere col Corriere un rapporto da semplice lettore, comprandolo in edicola?
«E perché mai dovrebbe spaventarmi? A patto, naturalmente, che sia diretto bene».
Senta, lei parla di indipendenza dei giornali, ma qualche anno fa stava per diventare leader dell’Ulivo, su spinta di Andreatta. Quanto ci andò vicino?
«Per me poco, secondo Andreatta molto. Gli dissi di no, fino in fondo. Ma dopo il mio no, in un’assemblea al Senato tracciò un identikit in cui tutti mi riconobbero. Pochi giorni dopo Andreatta entrò in coma e non si sarebbe più ripreso. Senza di lui quello che già era del tutto improbabile diventò impossibile. Feci un’intervista al Corriere per ribadire che i miei impegni erano in banca. Mi telefonò persino D’Alema per rammaricarsi, ma a cose fatte».
Decise da solo?
«Avevo una consuetudine, gli incontri a tu per tu col cardinal Martini. Quando mi confidai con lui su quella proposta, mi rispose: interroghi la sua coscienza. Capisce? La coscienza. Così posso dirle che decisi da solo».
Fosse toccato a lei avrebbe detto la frase di Renzi dopo il voto sulle unioni civili e la protesta cattolica: ho giurato sulla Costituzione e non sul Vangelo?
«Una frase giusta, corretta».
Cosa voterà al referendum istituzionale?
«Io non ho preso posizioni politiche da quando sono impegnato in banca, ma sono anche docente di diritto pubblico. È una brutta riforma, scritta male, ma è meglio che nessuna riforma. E temo che se saltasse, diventerebbe impossibile riformare alcunché».
Professore, dopo 34 anni di banca, da credente si assolve?
«Vede, essere credenti significa sentirsi sempre inadeguati rispetto ai compiti che la nostra coscienza ci indica, cioè peccatori. Ma, nello stesso tempo – e non è un paradosso – la fede ci aiuta ad avere fiducia in noi stessi e negli uomini. Tutti. Perché credenti o non credenti, per tutti la vita è un mistero».