Repubblica 16.5.16
Se il referendum rischia di spaccare il paese
di Alfredo Reichlin
CARO
DIRETTORE, mi pesa dirlo, ma non mi piace il modo come si sta
discutendo della riforma costituzionale. Temo uno scontro inconcludente.
Dico inconcludente nel senso che chiunque sia il vincitore di questo
Referendum il Paese non riesca a uscire dalla sua crisi. Forse esagero
ma mi chiedo se ci rendiamo conto del bisogno assoluto che ha questo
paese, confuso, sfiduciato come non mai verso la classe dirigente,
arrabbiato e impoverito, con divisioni al suo interno che stanno
diventando feroci, il bisogno e la necessità di ritrovarsi in una “casa
comune”? Stiamo parlando di una riforma Costituzionale, cioè di uno
strumento per lo “stare insieme” non per dividerci.
Figurarsi se
io non vedo i vuoti e i pericoli di un “no”. Ma prima di votare io
voglio capire bene di che cosa stiamo discutendo. Di una correzione
matura da tempo del vecchio bicameralismo perfetto, riducendo il Senato a
una dimensione regionale, con in più una serie di misure, alcune anche
discutibili, ma nell’insieme accettabili? Oppure si tratta di un
plebiscito popolare che Matteo Renzi chiede su se stesso? Sono due cose
diverse, e molto diverse. Io non voglio una crisi di governo al buio e
di Renzi apprezzo molte delle sue grandi doti. Ma considero una sciagura
questa scelta calcolata di spaccare il Paese tra due schieramenti
contrapposti. Da un lato quello del Sì, cioè di chi “vuole bene
all’Italia” e disprezza tutti i governi della Repubblica che si sono
succeduti prima di questo (il discorso esaltato di Renzi a Firenze).
Dall’altro lato il partito del No: il mondo dei conservatori, dei
professori, dei gufi, dei nemici. Ma ci si rende conto delle
conseguenze? Non credo che verrà il fascismo ma non aumenterà certo la
governabilità.
Si dirà che quelle di Renzi sono solo parole. Ma,
attenzione, le parole sono pietre, e così arrivano a un popolo che già
crede poco alla politica come strumento per il “bene comune”. E vorrei
rispondere a chi considera la mia distinzione così netta tra le vicende
del governo e la funzione di una Costituzione un po’ ipocrita. Credo che
sbagli. Se la Repubblica è arrivata sin qui è anche per quella
“ipocrisia”. Ricordo la drammatica crisi del ’47: il viaggio di De
Gasperi in America e, al suo ritorno, la cacciata dei comunisti dal
governo. Si aprì una crisi feroce all’insegna della guerra fredda e ciò
mentre l’elaborazione della Costituzione era ancora in corso, avviata
nel quadro politico unitario precedente. Era una svolta quella che stava
accadendo ed era forte la voglia di menar le mani, ma Togliatti non
ebbe dubbi che dovevamo continuare a lavorare su quel testo tutti
insieme. E così l’impresa fu portata a compimento. E non è vero che
quella carta piaceva a tutti. Metà degli italiani aveva votato per la
monarchia. Era chiaro però che si trattava di una “Casa di tutti”,
concepita non per favorire un governo contro i suoi nemici.
Sento
quindi il dovere di sollecitare un chiarimento serio sul perché di
questo plebiscito e sul senso di questi diecimila comitati. E vorrei che
una cosa fosse molto chiara. Non mi interessa affatto alimentare le
vecchie dispute interne al Pd. Parla in me una grande preoccupazione sul
“dove va l’Italia” (la sorte di Renzi davvero viene dopo). E ciò per
tante ragioni interne e internazionali che non sto qui a elencare. Le
quali ci dicono che l’Italia è a un passaggio cruciale della sua storia
perché deve fronteggiare difficili sfide che mettono in discussione non
tanto, cari “decisionisti”, i poteri del Capo del governo, quanto le
ragioni dello “stare insieme degli italiani”. Dico degli italiani. È
chiaro?
È così che io rivivo quello che fu lo sforzo di
ricostruire una nazione. Era l’idea della Costituzione come il
necessario strumento dello “stare insieme” degli italiani, di tutti gli
italiani. E ciò per l’assillo che allora avevamo, che era quello di far
fronte alle sfide di quel tempo: le rovine di una guerra perduta, il
rischio incombente di una guerra civile interna, di una lacerazione tra
Nord e Sud, tra monarchici e repubblicani, di una rivolta rabbiosa
contro un padronato che si era arricchito servendo il fascismo.
L’assillo nostro era: evitare di fare la fine della Grecia. Ricostruire.
E perché ciò fu possibile? Perché De Gasperi rifiutò la spinta che
veniva dal Vaticano, e da ambienti americani a mettere fuori legge i
comunisti e perché Togliatti la prima cosa che disse al partito, al suo
ritorno è che non si trattava di fare la rivoluzione ma di costruire una
classica democrazia parlamentare basata sul pluralismo dei partiti. Non
una improbabile “nuova democrazia dei Cln” come tanti a sinistra
chiedevano.
Sia dunque chiaro. Io ho condiviso, pur con qualche
riserva, la scelta della minoranza del Pd di non opporsi alla riforma
Boschi. Ma guardo al paese. E alle sfide di oggi. Non si tratta solo di
crisi economica. È in discussione lo statuto e la figura della nazione
italiana, il suo posto nella nuova realtà geo-politica del mondo. Ecco
perché non voglio plebisciti.
Il paese è in grave sofferenza
perché ha perso troppi punti di riferimento. La “rottamazione” era in
una certa misura necessaria. Ma si è creato anche un vuoto di identità e
di valori che è il vero brodo di cultura della corruzione. Non basta
dire che tutto è “populismo” né si può pensare di comandare con i
plebisciti. Bisogna creare le condizioni per un nuovo patto di
cittadinanza. Io dico anche per un nuovo compromesso sociale. Gli uomini
saggi (se ancora ci sono) dovrebbero spiegare a Renzi perché è tempo di
passare dell’Io al Noi.