La Stampa Tuttolibri 7.5.16
“Per cambiare il mondo è meglio essere mancini o zoppi”
“L’innovazione non segue mai sentieri diritti arriva improvvisa come un ladro nella notte”
intervista di Alberto Mattioli
L’unico
dogma della laicissima cultura francese è «la méthode». Eppure, in
Francia è una star riconosciuta il «philosophe» il cui metodo è quello
di contestare il metodo. Michel Serres, 84 anni, professore di Storia
della scienza alla Sorbona, poi a Stanford e in mezzo mondo, accademico
di Francia dal ’90, ha venduto 200 mila copie con un saggio dal poco
filosofico titolo di Petite Poucette, «Pollicino». Adesso torna in
libreria con Le gaucher boiteux, Il mancino zoppo (Bollati Boringhieri,
pp. 285, € 18). «La mente filosofica più fine che esista oggi in
Francia» (parola di Umberto Eco, che peraltro era un suo grande amico)
verrà a presentarlo al Salone del Libro, intervistato da Corrado Augias.
Professor Serres, perché un mancino e per di più zoppo?
«Perché
l’innovazione arriva come un ladro nella notte, a sorpresa. Non c’è un
metodo per ottenerla. Una ricetta ti permette di cucinare il piatto che
vuoi, non di idearne uno nuovo. Inventore è chi trova quello che non
cerca. Come Cristoforo Colombo, che scopre l’America cercando l’Asia.
Per innovare, bisogna uscire dal cammino previsto, biforcare. Innovare
significa biforcare. Il mio mancino zoppo è qualcuno che è “biforcato”
nel corpo. E’ una metafora, perché non voglio dire che tutti gli
innovatori siamo mancini o zoppi o tutti e due insieme. Però, per
esempio, i miti dell’Antichità sono pieni di zoppi».
Un altro
esempio che lei fa è quello, poco familiare a un lettore di filosofia in
generale e in particolare a un lettore italiano, di Aristide Boucicaut.
«E’
l’inventore del “Bon Marché”, il primo grande magazzino moderno, il
negozio dove c’è tutto. All’inizio, monsieur Boucicaut lavora per
classificazione, con un metodo rigoroso. Sistema i suoi prodotti per
generi merceologici, li ordina, li divide. Grande successo. Ma, dopo un
anno o due, si accorge che il fatturato non cresce più. E allora, un bel
giorno, rimescola tutti i prodotti, mette le patate accanto ai vestiti.
E gli affari prosperano, perché la massaia, per trovare le patate, deve
passare davanti ai vestiti e finisce per comprarseli, e viceversa. Come
Colombo, trova quello che non cercava. Gli anglosassoni la chiamano
“serendipity”, l’avvenimento fortuito e fortunato. E’ uno dei segreti
dell’innovazione, anche se ovviamente non capita per caso, ma presuppone
l’impegno e la ricerca».
Lei si paragona a una levatrice. Come Socrate.
«Con
una differenza, però. Per Socrate, lo scopo del filosofo era di far
nascere degli spiriti individuali, delle singole personalità. Io credo
invece che il filosofo debba partorire un nuovo mondo. Pensare
l’innovazione significa aiutare la nascita di un nuovo mondo. Quindi la
metafora è la stessa di Socrate, il suo oggetto diverso».
Del suo libro, colpiscono, oltre ai concetti, il linguaggio: una serie di racconti, più che un trattato.
«Sono
dentro una tradizione, che è quella francese ma anche italiana, diciamo
latina. Il linguaggio filosofico anglosassone è molto formale, quello
tedesco concettuale. Gli italiani, penso a Giambattista Vico, e i
francesi come Montaigne, Voltaire, Diderot, hanno sempre privilegiato la
narrazione, una riflessione concreta che si fa raccontando storie.
Quindi non sono per nulla originale».
Colpisce il suo ottimismo. Oggi la nostra società tutto sembra fuorché fiduciosa…
«Ci
saranno sempre dei nostalgici, gente che per la quale prima era meglio,
a prescindere. Io però ho 84 anni e se mi guardo indietro constato di
aver visto la Seconda guerra mondiale, la Shoah, Hiroshima e tutto il
resto. Non ho nostalgia per un tempo in cui c’erano decine di migliaia
di morti al giorno. Limitiamoci all’Europa. Da quando l’abbiamo unita,
siamo in pace da 70 anni: non succedeva dai tempi della guerra di Troia.
Per questo dico che viviamo in un’epoca “dolce”. Ci è sempre stato
detto che la crisi economica genera la guerra: non mi sembra però che la
Germania abbia invaso la Grecia. Cercate su Internet le principali
cause di mortalità. Nonostante quel che scrivono i giornali, guerra e
terrorismo sono fra le ultime. Gli incidenti d’auto e il tabacco fanno
molti più morti. La realtà è che siamo pessimisti perché stiamo troppo
bene».
La Francia di oggi sembra tuttavia piuttosto depressa...
«La
Francia sembra sempre depressa. Ma non è un problema politico, è un
problema culturale. Anzi, antropologico. Il francese non è gioioso, ama
moltissimo lamentarsi. Certo, ci sono stati Rabelais o Diderot, ma la
nostra cultura di regola non è allegra, forse perché eccessivamente
basata sulla ragione. Nella cultura italiana, la dimensione emozionale è
più forte. Forse per questo l’umore generale è più ottimista».
In questo quadro idilliaco stonano le ondate migratorie.
«E’
un problema, certo. Ma gestibile. Io sono nato nel sud-est della
Francia. A un certo momento, sembrava che di colpo ci fossero più
italiani che francesi. Poi ci fu la guerra civile e arrivarono in massa
gli spagnoli. Oggi l’immigrazione pare più massiccia. Tuttavia, un
fenomeno che abbiamo conosciuto è un fenomeno che possiamo controllare».
Fa un certo effetto vederla in divisa da accademico: non è un mondo un po’ demodé?
«Non
credo. La marsina può sembrare vecchiotta, e lo spadino pure, ma tanto
io non lo porto. Però l’Accademia è nata ed esiste soprattutto per
compilare il Dizionario della lingua francese. Di solito ne esce una
nuova edizione ogni vent’anni. E, in media, fra un’edizione e l’altra
c’erano circa 4 o 5 mila parole di differenza. Nell’edizione che stiamo
discutendo siamo già a 37 mila, fra parole nuove e parole che non si
usano più. Mi sono informato: succede lo stesso anche nelle altre
lingue, quindi non si tratta solo dell’invasione dell’inglese.
Spariscono, per esempio, moltissime parole legate all’agricoltura o
all’artigianato. E’ o non è un modello ridotto della crisi che
attraversiamo, un effetto della globalizzazione? Per questo non credo
che l’Accademia sia fuori moda».
Autori italiani: chi ama?
«Avevo
due grandi amici e sono morti entrambi: Italo Calvino e Umberto Eco.
Due tipi di intellettuali come si farebbe fatica a trovare in Francia,
pieni di humour, ironici, amanti dello scherzo. Ricordo un viaggio con
Eco. Un giornalista gli chiese: da quando è celebre? E lui: lo sono
sempre stato, solo che la gente non lo sapeva».