lunedì 9 maggio 2016

La Stampa 9.5.16
Un deserto di sentimenti
Così l’omertà dei vicini ha calpestato due bimbi
I residenti al Parco Verde: nessuno ci ha mai ascoltati
di Maria Corbi

È il silenzio a raccontare i casermoni verdi macchiati dal sangue di Fortuna Loffredo, l’isolato 3 del rione Iacp del Parco Verde di Caivano. Due bambini che precipitano dal palazzone e nessuno che vede e sente nulla. «Forse sono cecata e sorda», dice Rachele che abita all’ottavo piano, la porta di casa affacciata sulla terrazza da cui è stata gettata Fortuna. Era estate, le porte aperte per il caldo, complicato non vedere niente, non sentire le urla della piccola che scalciava per opporsi a quella ennesima violenza da parte del compagno della madre della sua amichetta del cuore.
Rachele è sicura: «Nessuno è salito all’ottavo piano». Lei stava seduta su una sedia davanti all’uscio a prendere il fresco e non ha dubbi: la piccola non può essere caduta dal terrazzo e nessun uomo comunque era in quei paraggi. Non importa che un vicino neghi di averla vista seduta su quella sedia. «Forse sono cecata e sorda», ripete Rachele che non ha altro da dire. Eppure suo figlio è il padre del fratellino di Fortuna. Ma la verità è che in questa storia i parenti fanno la parte peggiore. Chi aveva il dovere di proteggere è stato carnefice. E l’arma usata è stata il silenzio.
Se qualcuno avesse parlato prima, Fortuna e Antonio non sarebbero morti. Se qualcuno avesse parlato dopo la strada della giustizia sarebbe stata meno impervia. Se qualcuno parlasse adesso mostrerebbe pietà e coscienza. Ma anche oggi che l’inchiesta ha portato in carcere il presunto colpevole e la sua compagna che ha in tutti i modi cercato di depistare le indagini, qui si preferisce tacere. Omertà. Anche se non nel senso più classico, quello di mafia e camorra. Qui il silenzio è più che altro indolenza, pigrizia, mancanza di generosità e di basi culturali. In un deserto di sentimenti e di cultura, una barriera di protezione, un modo di resistere.
E se è grave che nessuno ha parlato è forse più grave che nessuno ha ascoltato, ha capito il malessere dei piccoli. E così oggi il legale dei nonni e del papà di Fortuna, Angelo Pisani, chiederà all’autorità giudiziaria di sequestrare gli incartamenti relativi a tutti i bambini del Parco Verde di Caivano a cui è stato concesso l’insegnante di sostegno, tra i quali ci sono Fortuna e le sue amichette. «Non è possibile che da tutti gli esami che sono stati eseguiti sui piccoli non sia mai emerso il malessere che avevano dentro, frutto delle raccapriccianti violenze che subivano».
«Adesso tutti parlano di Caivano per il fatto di Chicca, ma prima nessuno “se ne fotteva”», dice Gaetano che fuma nervosamente sotto al palazzo. «Adesso scoprono tutto il marcio che c’è. Che si aspettavano? Nessuno ha mai risposto a noi, perché adesso dobbiamo rispondere a loro...». Argomentazioni in dialetto così stretto da renderlo un’altra lingua che svelano una frattura difficilmente sanabile. Tra «noi», ossia i diseredati di Parco Verde e «loro», ossia lo Stato. Una sindrome rancorosa attraversa questi silenzi che si piegano più facilmente davanti a una telecamera che a un poliziotto. Perché è la tv l’unica via che porta al mondo, lontano da questi alveari di disagio. L’unico barlume di normalità. Sono le dieci di mattina per le scale, nei pianerottoli, le tv sono tutte accese. Suoni che formano una tetra colonna sonora in questa landa colpevolmente muta dove gli unici a trovare le parole sono stati i bambini. A iniziare da Dora, la figlia della compagna di Caputo, la migliore amichetta di Fortuna. Lei ha capito che l’unica via di salvezza, anche per lei, è quella della parola. Ed è fuggita dal silenzio.