domenica 8 maggio 2016

La Stampa 8.5.16
La torre di Babele, più un dono che un castigo
Dal nuovo libro di Elena Loewenthal: la condanna divina per la protervia dell’uomo diventa un modo per moltiplicare la sua capacità di espressione
di Elena Loewenthal

Come per il morso al frutto proibito, anche per la torre di Babele si potrebbe dire: «Peccato per quel che è stato, certo. Ma anche: meno male che è successo». Se Eva e Adamo non avessero trasgredito il divieto divino e assaggiato il frutto della conoscenza che diede loro la consapevolezza di essere mortali, la storia si sarebbe fermata laggiù, nel giardino dell’Eden, ancor prima di cominciare.
Allo stesso modo, se Dio, tanto per cambiare, non si fosse arrabbiato con l’umanità che ci aveva messo appena una generazione per diventare ancor più corrotta di quanto non fosse prima del diluvio, e non avesse confuso le lingue dopo la storia che tra poco verrà, avremmo parlato tutti la stessa lingua, ci saremmo capiti, forse, senza neanche il bisogno di parlare, non sarebbero esistiti il dubbio e la metafora, l’equivoco e l’allusione, e soprattutto mai sarebbe venuto al mondo quel tesoro di suoni e parole, di emozioni e figure, di storia e segreti, che sono tutte le lingue messe insieme. Un tesoro inestimabile, grazie al quale ci si capisce meglio di quanto ci si capirebbe se parlassimo tutti sempre e soltanto la stessa lingua.
«Dalla creazione del mondo non vi è stato nessuno come Nimrod, gran cacciatore di uomini e animali e peccatore davanti a Dio» (Genesi 10, 9).
La follia di Nimrod
Tutto ricomincia così, tanto per cambiare. Con un re che, forte delle doti che ha ricevuto da Dio, si monta ben presto la testa e decide che può sfidare Lui, le sue leggi. Decide che può persino prendere il Suo posto e diventare un oggetto di culto. Di onori quali si tributano alle divinità, anche se è soltanto un uomo, appena più potente e forte di tutti gli altri.
È proprio Nimrod a covare l’idea di una torre che arrivi lassù e oltre, giusto per dimostrare al Creatore che deve temerlo.
La generazione del diluvio non avrà parte nel mondo a venire, è morta per sempre. Perché? Perché un bel giorno quella gente decide così: «Su, costruiamoci una torre per salire in cielo e squartarlo a colpi d’ascia, facendo scendere tanta pioggia!» A dire il vero, sono divisi in tre fazioni. La prima dice: «No, saliamo in cielo e stabiliamoci lassù». La seconda vuole andare così in alto per essere più vicina agli dèi che adora, mentre la terza desidera ingaggiare una battaglia contro l’Eterno. Tutti propositi assurdi.
Improvvisamente il caos
La torre di Babele è insomma una follia collettiva. O meglio, una follia che qualcuno trasforma da propria in comune, travolgendo tutta l’umanità in quel turbine edilizio sempre più folle. Nimrod ha concepito l’opera come un atto di ribellione a Dio, come una sfida tesa a dimostrare all’Eterno che lui, umano, può arrivare allo stesso livello, se non ancora più in alto.
I lavori cominciano. E vengono assoldati seicentomila uomini. «Su, facciamoci una torre che arrivi sino al cielo, così ci conquisteremo una nomea in tutta la terra!» comincia a echeggiare il richiamo. Fra chi costruisce mattoni e chi li poggia uno sopra l’altro, la frenesia aumenta di giorno in giorno. I mattoni diventano più preziosi delle vite umane: le donne non possono smettere di lavorare neanche durante le doglie, partoriscono sfornando laterizi, e se un laterizio cade e si rompe è una tragedia collettiva, mentre se a precipitare dalla torre in costruzione è una vita umana, tutti restano indifferenti.
La torre diventa così alta che ci vuole un anno per arrivare in cima. Da lassù gli uomini scoccano frecce verso il cielo e si convincono di riuscire a sterminare coloro che vi risiedono.
Allora Dio decide che è arrivato il momento. Che non può più stare a guardare quell’inaudito atto di umana protervia.
E scende. Scende fino a lambire la torre di Babele, e da lì confonde la lingua, che sino ad allora è stata una soltanto per tutta l’umanità.
Da quel momento, ma forse anche da prima, nessuno capisce più l’altro, nessuno sa più che cosa dice il vicino. La parola diventa un suono confuso, imperscrutabile. Uno chiede malta e l’altro gli porge un mattone, il primo si arrabbia e come se niente fosse uccide il collega a causa dell’equivoco. Coloro che prima lanciavano senza sosta le frecce contro il cielo nella convinzione di abbattere l’Eterno, cominciano a colpirsi a vicenda, morendo come mosche.
Ben presto regna il caos più totale e nello spazio di un momento o poco più la torre diventa un cumulo di macerie, distrutta dalla stessa arma con cui è stata concepita e innalzata: l’umana protervia.
Della torre, che si polverizza all’istante, una parte sprofonda nella terra, l’altra viene consumata dal fuoco. Il luogo dove una volta s’ergeva procura a chiunque passi nei pressi un oblio totale e istantaneo.
Sempre meglio del diluvio
Mentre la gente, la gente non si comprende più: ogni individuo usa una lingua diversa. Babele diventa il luogo della confusione, dell’incomprensione. Bisogna imparare a capirsi di nuovo, da una lingua all’altra. A piccoli passi. Parola per parola. È un castigo certamente più blando rispetto al diluvio e allo sterminio totale che la generazione precedente si è meritata. Forse non è stato nemmeno un castigo vero e proprio, ma un modo per attestare la complessità del genere umano, per moltiplicare la sua capacità di espressione, le infinite sfumature di ogni parola in ognuna delle tante lingue del mondo.
Forse è stato più un dono che un castigo, la torre di Babele.