giovedì 5 maggio 2016

La Stampa 5.5.16
Chanel sfila all’Avana
Per Cuba un altro assaggio di capitalismo
Prosegue, a fatica, la marcia verso il cambiamento. Proteste dei cubani, tenuti dietro le transenne
di Mimmo Càndito

C’erano tutti, ieri notte all’Avana, tutti quelli della grande moda internazionale, da Karl Lagerfeld al divo Vin Diesel alla Tilda Swinton e fino alla supermodella Gisele Bundchen, tutti intruppati a sfilare con la nuova collezione invernale nelle insegne gloriose della casa Chanel.

«Ensayos de capitalísmo», avrebbe detto il Che Guevara, vedendo come la scintillante sfilata dividesse brutalmente lo spazio dei vip dalla gente comune assiepata dietro transenne invalicabili.
«Piccoli assaggi di capitalismo», e quelli che un tempo la Cuba ufficiale bollava con disgusto come “los señores capitalistas» messi ora al centro del teatrino di luci e suoni del Paséo del Prado, e invece gli altri, «los hombres nuevos», i figli del socialismo di Stato, i protagonisti d’una speranza antica, tenuti a debita distanza, con i loro occhi avidi di stupore e la voglia assatanata di ricchezza e di lussi.
Ma il Che era un rivoluzionario che non ha avuto tempo per scendere dal monumento stilizzato che lo ingabbia sulla facciata della Plaza de la Revolución; e la sua leggenda di eroe puro e duro lo porterebbe a un commento sprezzante che ignora di quanto sia invece mutata la sua Revolución egualitaria da quella che Raúl Castro tenta oggi di guidare fuori dalle strettoie d’un regime prigioniero della tenaglia che stringe il dover cambiare nella paura del dover cambiare.
Il tempo corre rapido come e più di Bolt, a Cuba, da quando in quel dicembre di due anni fa Obama e Raúl Castro comunicarono ufficialmente ch’era finita la Guerra Fredda del comunismo tropicale. È un tempo, però, che fila via lungo due binari: uno, dei simboli rapaci del cambiamento, gli atti formali dei nuovi modelli istituzionali, le navi di crociera che attraccano a un passo soltanto dal Malecón, l’ambasciata Usa che non deve più fingere di non essere un’ambasciata, e le modelle di Chanel che con sfrontatezza indossano il vecchio basco di panno nero del Che su abiti rutilanti da 10 mila dollari, e l’altro binario, che invece stenta molto a lasciar andare rapido il desiderio del cambiamento, la voglia di vita nuova, la lunga attesa impaziente del buon vivere, dei negozi che offrono merce colorata, della possibilità reale di essere finalmente «moderni» nei panni ambigui del modello «americano».
Questa Revolución che vorrebbe cambiare senza però cambiare l’uniforme che indossa da 50 anni, più che a Tomasi di Lampedusa guarda piuttosto a Xi Jinping e al modello cinese, ma stenta assai, perché non ha la brutalità di Stato del maoismo e dei suoi morti nei gulag e in Piazza Tien An men, ma non ha nemmeno la potenzialità straordinaria – economica e demografica – del gigante cinese; e dunque deve muoversi con cautela, dando il visto di ingresso alle modelle sfrontate, e ai capitali facili del turismo che porta l’inquinamento del glorioso modello guevariano, ma intanto mette il freno sul cambiamento politico, arresta i dissidenti che sventolano la bandiera americana od osano gridare in strada «Abbasso Fidel», distende lenti piani di riduzione della pesante economia centralizzata, e tiene saldo il controllo dei malumori della società.
Il commento guevariano dei «piccoli assaggi del capitalismo» può apparire un vecchio giudizio ideologico, al quale contrapporre la concreta necessità di dover proteggere i Vip per pure ragioni di sicurezza od organizzative. Quello che però è certo e incontestabile erano i «buuu» e le proteste di quelli che stavano dietro le transenne e volevano, invece, mescolarsi con i divi e con il loro simbolo fascinoso del tempo nuovo. E queste proteste, a Cuba, sì che sono un fatto nuovo.