La Stampa 3.5.16
Gli immigrati rivitalizzano i borghi di montagna
Nuova manodopera fa rinascere l’economia Storie di successo dal Piemonte alla Calabria
di Francesco Grignetti
Il
successo italiano dell’immigrazione «diffusa» che finora ha evitato il
dramma delle banlieue, e che il think thank renzian-nuovista «Volta»
promuove nel suo ultimo dossier, è ben conosciuto nelle nostre montagne.
Ci sono tanti episodi positivi, seppur sconosciuti. Gli africani che
cantano in piemontese nel coro «Moro», che si esibisce a Ceres, nel
cuore delle valli di Lanzo. Le canzoni sono tradizionali, in stretto
piemontese, o al massimo in franco-provenzale. Quegli altri immigrati
che mettono entusiasmo nella loro nuova vita nell’Appennino parmense e
garantiscono la sopravvivenza di un prodotto unico al mondo, il
formaggio parmigiano di collina, che tanto significa per il Consorzio
del Parmigiano-reggiano. O ancora quei profughi che fuggono dalla guerra
e sono finiti a Roncobello, piccolo paese in provincia di Bergamo, una
fra le zone più suggestive dell’Alta Valle Brembana, dove fanno piccoli
lavori di manutenzione stradale, pulizia dei sentieri e taglio
dell’erba, perché, come tiene a precisare il vicesindaco,
«l’integrazione passa soprattutto attraverso il lavoro».
Storie
che l’Uncem - Unione dei comuni di montagna - aveva presentato in
Parlamento qualche settimana fa. E già nell’occasione, diceva
l’onorevole Enrico Borghi, Pd, che viene dalla Val d’Ossola ed è
presidente dell’Uncem, «i dati ci dicono che non siamo in presenza di
nessuna invasione, ma anche che gli immigrati stanno rimpiazzando la
manodopera autoctona che non svolge più determinati mestieri e si stanno
integrando sia nelle filiere di produzione agroalimentari, sia per
quanto riguarda le manutenzioni ambientali e la cura del territorio».
Nell’occasione,
con Borghi, c’erano anche Francesca Bonomo e Roger De Menech, deputati
Pd, dell’Intergruppo parlamentare per lo Sviluppo della Montagna. «Le
Terre Alte con i Comuni si stanno organizzando in modo autonomo»,
dicevano. L’immigrazione diffusa, infatti, vista con gli occhi di chi
deve combattere innanzitutto lo spopolamento delle sue terre, e
l’invecchiamento vertiginoso della popolazione residente, può essere una
formidabile arma per invertire la tendenza. «Con una battuta - diceva
ancora Borghi - è meglio impiegare gli immigrati per manutenzioni
territoriali e azioni ambientali anziché tenerli fermi nei centri di
accoglienza».
L’accoglienza diffusa, in fondo, è la chiave del
successo del comune di Riace, in Calabria, il cui sindaco è finito sulla
rivista Fortune tra i 50 politici più influenti del pianeta. «Alla fine
degli Anni 90 – racconta sempre il sindaco, Domenico Lucano – eravamo
circa 500 anime. Dall’entroterra la popolazione ha iniziato a migrare
verso la marina e Riace era un paese fantasma dove immaginare un futuro
era diventato impossibile». Oggi ci sono le botteghe aperte e il paese è
vivo e vitale.
In quell’occasione, i parlamentari chiedevano
aiuto al governo perché fossero stanziati fondi specifici a sostegno
dell’accoglienza degli immigrati nella montagna italiana: operazione
doppiamente strategica, per favorire l’integrazione e per salvare dei
borghi altrimenti destinati a morire.
«Non è un caso – affermava
De Menech - che i progetti migliori d’accoglienza nel territorio
nazionale vengano dai piccoli Comuni di montagna, perché i numeri
ridotti rendono la situazione più facilmente affrontabile rispetto alle
realtà metropolitane. È evidente che il processo di diluizione della
presenza in montagna può essere sopperito in parte dalla presenza di
immigrati che lavorano e richiedono servizi».