La Stampa 28.5.16
Roma
Un’incertissima corsa per matti
Dopo l’esperienza della giunta Marino, verrebbe voglia di dire che al mondo ci sono matti di due tipi: quelli che credono di essere Napoleone e quelli che pensano di poter governare Roma. Il matto col piano di battaglia più dettagliato è Alfio Marchini.
Virginia Raggi ha presentato agli elettori una lista di undici «passi». La parola «sviluppo» arriva al punto decimo, e in coppia con «turismo»: come dire che le priorità sono altre.
Raggi dichiara guerra agli sprechi ed apre a iniziative di «partnership pubblico-privata», se «adeguatamente normate». L’impressione è che la sua sia una visione economica un po’ strapaesana: guarda alle «piccole e medie imprese locali e artigiane», pensa a un rilancio dell’edilizia per il tramite di «investimenti mirati sulla cura ed il decoro urbano».
Non è diversa la Weltanschauung di Giorgia Meloni, che ha l’indubbio vantaggio di promettere che «nessuna opera faraonica sarà finanziata fin quando non si risolverà il problema delle buche di Roma». Bene, brava, bis. Se non fosse che al rigore delle finanze pubbliche per il futuro, l’ex ministro unisce l’amnistia per il passato. Siccome con la legge di stabilità 2014 lo Stato ha riconosciuto a Roma 110 milioni l’anno di «extracosti» sopportati «per l’onere di essere Capitale», Meloni si è fatta due conti. Roma è capitale della Repubblica da oltre 70 anni e «se lo Stato riconoscesse una tantum gli “arretrati” alla città di Roma, potremmo azzerare il debito, risparmiando anche qualche miliardo di interessi»: 7,7 miliardi sono «una goccia nell’oceano del debito pubblico, che oggi ammonta a 2200 miliardi». Ma l’oceano è fatto di gocce, cosa che altrove sul territorio nazionale si ricorda meglio che nell’Urbe. È questo esercizio di finanza creativa il cuore dell’agenda della Meloni, secondo per potenza evocativa solo all’idea di un «albo delle baby sitter».
Roberto Giachetti, che ha lungamente meditato il suo programma al punto da averlo presentato solo due giorni fa, si propone come sindaco del rilancio economico. Propone una Roma «StartUp City» (stessa parola d’ordine di Sala a Milano), con l’obiettivo di moltiplicare gli incubatori e attrarre fondi di venture capital. Il candidato del Pd, forte del rapporto privilegiato con il governo, ha nel cassetto un piano di misure «da cui stimiamo di ottenere 160 milioni di euro di risorse correnti e 300 milioni in conto capitale» ma non rinuncia almeno alla retorica dei conti in ordine: con lui, l’assessore al Bilancio sarà anche assessore alla Spending Review (apprezzabile che almeno la spending review non serva da scusa per un altro assessorato). Ma se persino Meloni, non certo una privatizzatrice, lascia aperta la porta a possibili razionalizzazioni delle partecipate, Giachetti parla di «semplificazione» del sistema e mai di dismissioni.
Il programma di Marchini è un’enciclopedia: 101 punti. Anche dove c’è ampia convergenza fra i candidati, per esempio sull’aumento dell’investimento in rete tranviaria, il costruttore romano spicca per precisione. Se non mancano proposte civetta, Marchini, mentre non c’è candidato in Italia che non si schieri contro Uber, suggerisce che gli Ncc sono troppo pochi, ammette che il car sharing pubblico è stato un fallimento mentre funziona quello privato, scrive a chiare lettere che è «incredibile» che il Comune abbia due aziende agricole di proprietà e produca mozzarelle e uova. È il candidato che più chiaramente lascia capire che la valorizzazione del patrimonio artistico, oggi, si fa con gli sponsor e coi privati. Matto e pure «efficientista».