La Stampa 25.5.16
Il congresso anticipato tra Enrico e Matteo
Una sfida democristiana senza più la Dc
Lontani dai dualismi Fanfani-Moro o Forlani-De Mita, e destinati a scontrarsi
di Marcello Sorgi
Annunciato
ieri dal nuovo, duro scontro personale tra Enrico Letta e Matteo Renzi,
il congresso del Pd è cominciato molto prima della scadenza ravvicinata
che il segretario-premier aveva offerto ai suoi avversari nell’ultima
direzione. La novità è che rispetto alle volte precedenti - e alla
tormentata esistenza del partito fondato nel 2007 da Veltroni e
sottoposto, in soli otto anni, a ben cinque cambi di leader con modalità
da rodeo e disarcionamenti di quelli che non si vedevano neppure nella
Prima Repubblica -, non sarà una riedizione della tradizionale partita
tra post-comunisti e post-democristiani, alternatisi finora al vertice
del partito tra fragili tregue correntizie e guerriglie permanenti. No,
sarà un vero congresso Dc, con due candidati - appunto Renzi e Letta -
che vengono dalla stessa matrice cattolica di sinistra, e con i
comunisti, o quel che ne rimane, nella parte che a suo tempo giocavano i
dorotei, il ventre molle dello Scudocrociato, che sapevano sempre
fiutare l’aria e schierarsi in tempo nei momenti di svolta.
Per
Letta l’inizio della corsa e la fine dell’esilio francese in cui si era
ritirato dopo la brusca esclusione da Palazzo Chigi - il famoso tweet
«Enricostaisereno» seguito dall’apertura della crisi da parte di Renzi -
datano poco più di un mese fa, il 12 aprile. In quella data
l’ex-premier, dal suo studio di professore a Sciences Po a Parigi,
rilascia un’intervista alla «Stampa» in cui annuncia che voterà «Sì», in
accordo dunque con Renzi e la sua riforma, al referendum costituzionale
di ottobre; e invece, in dissenso dalla campagna astensionista del
premier, tornerà invece in Italia il 17 aprile per votare «No» alla
consultazione sulle trivelle.
Cinque settimane dopo, il 21 maggio,
quattro giorni fa, il leader della minoranza Pd Bersani, in un’altra
intervista alla «Stampa», attacca Renzi per l’eccessiva
personalizzazione data sul referendum e la sovrapposizione tra le due
campagne che può danneggiare la corsa per i sindaci. E a una domanda su
Speranza e Letta, i due possibili candidati anti-Renzi alle prossime
assise Democrat, lascia intendere che il primo, rispettabilissimo, non è
in discussione, mentre il secondo potrebbe essere l’uomo adatto per
separare il ruolo del premier da quello del segretario del partito. Se a
ciò si aggiunge che Bersani, nell’intervista, insiste sull’errore di
Renzi di legare le sorti del governo all’esito del voto referendario e
sostiene che anche in caso di vittoria del «No» la legislatura dovrebbe
proseguire, la strategia precongressuale degli avversari del leader è
chiaramente delineata.
Al primo punto ci sarà la difesa delle
riforme costituzionali che anche gli esponenti della minoranza Pd hanno
votato in Parlamento, seppure considerandole «perfettibili». Così che se
Renzi a ottobre dovesse andare incontro a una sconfitta, non si potrà
dire che è stata colpa loro. Al secondo, la garanzia che chi nel Pd
dovesse schierarsi con il «No» non dovrà essere trattato da reietto. Al
terzo, la ridefinizione delle regole di convivenza interna che da tempo
Bersani e i bersaniani rivendicano, ripetendo che non esiste più uno
spazio per la discussione interna e il partito è ridotto a cinghia di
trasmissione dei «tweet» del segretario, il quale poi va a braccetto con
notabili locali che due anni fa avrebbe rottamato e si accorda con
pezzi dell’ex-centrodestra come Verdini, assurti al ruolo di alleati
privilegiati e in grado di snaturare l’originaria anima di
centrosinistra del Pd.
Per una battaglia come questa, va da sé,
Letta è un candidato perfetto. Nonché per un eventuale ritorno a Palazzo
Chigi, se le cose a ottobre per Renzi dovessero andare proprio male,
con il governo, oltre che il partito, terremotati da un’eventuale
vittoria del «No», e il Capo dello Stato nelle condizioni di dover
costruire un esecutivo di emergenza, per rattoppare lo sbrego
istituzionale, rimettere le mani sulla legge elettorale (che nel
frattempo potrebbe essere in parte cassata dalla Corte costituzionale) e
portare il Paese a elezioni alla scadenza naturale del 2018.
Sono
scenari di cui si parla, in questi giorni, nei corridoi semi deserti
del Parlamento, mentre ogni giorno una polemica, uno scambio di accuse,
un annuncio di vendetta dilania il maggior partito di governo. I
democristiani che affollano il partito, formalmente, ma solo
formalmente, renzianizzato, sentono l’odore del sangue e non vedono
l’ora della sfida. I due toscani, Matteo e Enrico, il fiorentino e il
pisano, sembrano fatti apposta per scendere nell’arena congressuale.
Sebbene, a parte le inguaribili nostalgie dc, della Balena bianca, del
partitone che sapeva dividersi ma anche ricomporsi, sia ormai rimasto
ben poco. I due avversari non somigliano né ai «gemelli di San Ginesio»
Forlani e De Mita, che si alternarono per oltre un ventennio sullo
scranno più alto di piazza del Gesù, né ai «cavalli di razza» Fanfani e
Moro, divisi dal potere e uniti contro la «linea della fermezza» nella
tragica primavera brigatista del ’78.
Non a caso, quando gli fu
suggerito di prenderlo come ministro degli Esteri nel suo governo, Renzi
rifiutò anche soltanto di ipotizzare la proposta, che forse Letta
avrebbe rifiutato. Di lì è partita l’ultima guerra democristiana di
questi due ex-ragazzi, cresciuti nel mito dei loro padri.