La Stampa 22.5.16
“L’India è un crogiolo. Ve lo racconto in 50 vite”
Attraverso le biografie dei grandi, Sunil Khilnani illumina l’anima contraddittoria e composita del subcontinente
di Carlo Pizzati
Il
dissenso è il filo conduttore che unisce le vite di 50 protagonisti
della storia dell’India, cucite assieme in un libro di 636 pagine nato
come serie di racconti radiofonici per Radio 4 della Bbc. Lo ha scritto
Sunil Khilnani, direttore dell’Indian Institute al King’s College di
Londra, che incontro nella lobby dell’Oberoi Hotel di Delhi per parlare
di quella che è stata acclamata come una brillante «biografia puntinista
del subcontinente» (William Dalrymple) e un libro «piacevolmente
sovversivo» (Nilanjana Roy).
Quest’ambiziosa sfida
comincia con la vita di Buddha, per passare, tra gli altri, ad Ashoka,
Guru Nanak, Tagore, Gandhi, il leader Dalit Ambedkar, Indira Gandhi, il
regista Satyajit Ray e, per chiudere, con il mogul industriale Ambani.
Incarnations: India in 50 lives è un testo appassionante, scritto in
punta di penna e forse la migliore introduzione immaginabile alle
complessità e al fascino della storia dell’India. Ma che ci parla del
presente.
Perché ha scelto proprio queste 50 biografie?
«Per
molti è difficile seguire la storia dell’India. Ci si perde facilmente.
Una delle mie sfide è stata scegliere 50 storie di vite e attraverso
esse spostarci in sequenza da 2500 anni fa fino al presente con lo scopo
di capire questa Storia. Questi personaggi sono una risorsa incredibile
per l’India di oggi, soprattutto perché siamo una nazione giovane che
cerca esempi per l’India del futuro. È importante capire che ci sono
modelli come questi, che da giovani hanno avuto un impatto come
agitatori di folle, criticando i genitori e la società. Perché oggi c’è
una tendenza a credere che le figure storiche siano solo dei vecchi, che
solo i personaggi rispettabili appartengono al Pantheon. Ma il Pantheon
è fatto da guerrieri, anche da guerrieri di strada».
Sta
paragonando queste figure storiche con gli studenti arrestati per
sedizione in queste settimane all’università Jnu di Delhi, mettendo in
subbuglio molti atenei in tutta l’India?
«Sì. Questi personaggi
emergevano dalla società proprio come fanno oggi gli studenti ribelli
della Jnu. Erano intelligenti, impazienti, e sfrenati. Per questo hanno
fatto cose straordinarie. Gente che ha avuto il coraggio di rischiare la
carriera e la vita: la Storia indiana ha molte di queste figure».
Allora è il dissenso la forza che accomuna le sue 50 “incarnazioni” che hanno fatto l’India?
«Quasi
tutti questi 50 personaggi vivevano in strutture sociali molto rigide e
spesso molto conservatrici, soprattutto se eri una donna o venivi da
una casta bassa e ti trovavi in strutture mirate a schiacciarti. Quasi
ognuno di questi individui ha trovato un’incredibile capacità di reagire
e di lottare contro il proprio contesto sociale. Anche quelli
d’estrazione privilegiata come il Buddha o Mahavira reagivano contro un
conservatorismo nella società. Pochi sanno che nella tradizione indiana
esiste una forte linea di dissidenza e autocritica. Di solito si pensa
che l’India sia un paese conservatore, tradizionalista, gerarchico e
quasi stagnante. Per tanti aspetti è vero, ma al contempo ci sono stati
momenti molto forti d’impulso individuale che hanno fatto emergere dal
nulla queste figure. Forse è proprio qualcosa nella rigidezza della
società che invita a questa reazione. Il paradosso è che anche se
abbiamo avuto questa tradizione di dissidenza, al contempo c’è una
capacità di assorbirla. C’è la forza di provocare una critica, ma anche
l’abilità di renderla innocua».
Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi, per dirla alla Tomasi di Lampedusa?
«Sì,
è così, c’è un’eterodossia che convive con un’ortoprassia. Ci sono idee
rivoluzionarie, ma la pratica quotidiana riporta all’ordine
precostituito».
Qual è questa forza storica che in India riconduce sempre all’ordine precostituito?
«Credo
sia l’abilità del sistema delle caste d’adattarsi costantemente. È
difficile darle un colpo finale, perché sa sempre adattarsi. Il
rinnovamento avviene, ma non fino al punto al quale il potere di queste
idee dovrebbe portare».
Un’altra caratteristica che accomuna
questi protagonisti è la capacità di risvegliare negli altri una forma
d’auto-consapevolezza? Penso a Ambedkar, Krishnamurti, Gandhi, Buddha,
Vivekananda, Mahavira, e altri.
«Forse quest’autocoscienza è
l’inizio del dissenso, è una forza che personaggi come il Buddha
espandono al contesto sociale. Ciò che capiscono è che la scoperta del
sé si deve estendere alla società. Non è solipsistica, vogliono che
altri la condividano. Anche questo va contro uno stereotipo sugli
indiani che pensano solo alla salvezza personale e non sono consci del
mondo materiale attorno a sé».
Tra le sue pagine si legge una critica alla “purità culturale” del crescente nazionalismo indù.
«L’India
è l’unico paese che ha avuto al potere tutte le grandi religioni
mondiali, l’Islam, il Buddismo, l’Induismo e il Cristianesimo, creando
un repertorio storico particolarmente ricco di critica all’autorità. La
circolazione delle idee c’è sempre stata, non esiste un concetto di
purità culturale. E perché dovrebbe esserci? Il potere viene esattamente
dalla meravigliosa impurità di questi incroci culturali. Il punto di
forza del nazionalismo indiano nel ventesimo secolo viene proprio da
come abbraccia diversità e impurità, invece di difendersi. Naturalmente
c’è un filone storico che vuole rivendicare questa purezza, come
l’Hindutva. Ma Gandhi, Tagore, Nehru e gli altri dicono: la diversità
non è una minaccia, ci dà una forza strutturale di elasticità. Siamo una
nazione bastarda. Questa è la nostra forza, non una debolezza».