La Stampa 15.5.16
Il dialogo tra nemici sul Mar Rosso
di Maurizio Molinari
C’è
un dialogo fra nemici che tiene banco in Medio Oriente. Arabia Saudita e
Israele sono avversari sin dal 1948, quando Riad partecipò con un corpo
di volontari alla guerra araba tesa ad impedire la nascita del giovane
Stato, per poi continuare ad essere protagonista di tale, radicale,
opposizione sostenendo attacchi militari, guerriglie ed offensive
diplomatiche di ogni genere. Tanto in Medio Oriente quanto a Washington,
dove Israele ed Arabia Saudita sono state protagoniste per decenni di
aspri scontri: contendendosi il sostegno del Congresso e l’alleanza
della Casa Bianca.
Tali e tanti precedenti suggeriscono
l’importanza di quanto avvenuto sul palco del «Washington Institute»
allorché, davanti ad un pubblico di analisti ed in diretta web, l’ex
capo dell’intelligence saudita Turki al-Faisal - esponente di rango
della famiglia reale - ha dialogato con l’ex generale Yaakov Amidror,
già consigliere per la sicurezza del premier israeliano Benjamin
Netanyahu.
A quasi un anno dalla prima stretta di mano in pubblico
fra alti funzionari dei due Paesi - il direttore generale del ministero
degli Esteri israeliano, Dore Gold, e l’ex consigliere governativo
saudita Anwar Eshki, in un centro studi di New York - le indiscrezioni
su visite segrete, cooperazione strategica e convergenze occasionali
hanno prodotto a Washington un colloquio pubblico fra al-Faisal e
Amidror con caratteristiche da manuale della Guerra Fredda.
I due
oratori erano a parole divergenti su tutto ma al contempo sedevano
fisicamente fianco a fianco, guardandosi senza remore per scambiarsi
battute agrodolci. Poiché si tratta dei rappresentanti di due nazioni
ancora formalmente in guerra bisogna chiedersi cosa sta avvenendo fra
Riad e Gerusalemme.
La risposta è triplice. Primo: hanno in comune
gli stessi nemici perché entrambi considerano l’Iran dotato di
programma nucleare una minaccia alla sicurezza nazionale, vogliono
impedire a Teheran l’estensione della propria egemonia sul Medio Oriente
e temono in egual misura i gruppi jihadisti sunniti intenzionati ad
edificare un Califfato islamico nell’intera regione. Secondo: hanno
avuto attriti simili con l’amministrazione Obama, a causa delle
convergenze di Washington con Teheran e con i Fratelli musulmani in
Egitto, e scommettono sulla possibilità che il nuovo Presidente degli
Stati Uniti possa ridisegnare le scelte regionali tornando a
privilegiare i rapporti con i tradizionali alleati. Terzo: condividono
la necessità di lavorare ad una soluzione del conflitto
israelo-palestinese attraverso un nuovo format ovvero il dialogo fra
Israele e Stati sunniti. Se Yaakov Peri, deputato dell’opposizione
israeliana ed ex capo del servizio di Sicurezza Interna, propone a
Netanyahu di «aprire un tavolo di negoziato permanente con i palestinesi
in Arabia Saudita coinvolgendo gli altri Paesi sunniti» è perché c’è la
crescente sensazione che la monarchia wahabita, custode delle moschee
di Mecca e Medina, possa rivelarsi un attore importante nella
conclusione del conflitto con i palestinesi. Ad evidenziare le
convergenze fra Gerusalemme e Riad è quanto avvenuto a seguito della
decisione dell’Egitto di restituire all’Arabia Saudita le isole di Tiran
e Sanafir nel Mar Rosso. Poiché si tratta delle terre emerse che
controllano l’accesso al Golfo di Aqaba - vitale via d’accesso al porto
israeliano di Eilat, già casus belli della guerra del 1967 - Riad ha
garantito a Gerusalemme il libero passaggio e inoltre, essendo territori
della regione del Sinai, ha assicurato il rispetto delle clausole che
le concernono nelle intese di pace fra Egitto e Israele siglate a Camp
David nel 1979. Ehud Yaari, veterano fra gli arabisti israeliani, ha
chiesto ad al-Faisal se tale passo - compiuto dal ministro degli Esteri
saudita, Adel-al Jubeir - porti Riad a diventare, de facto, un terzo
partner degli accordi di Camp David firmati da Menachem Begin e Anwar
Sadat grazie alla mediazione di Jimmy Carter. La risposta è stata:
«Confermo solo la dichiarazione del mio ministro degli Esteri,
rispetteremo le condizioni dell’accordo Egitto-Israele». In realtà ciò
che Riad chiede a Israele è l’accettazione del piano di pace saudita del
2002 - elaborato dall’allora re Abdullah - che prevede «pace completa
fra arabi e israeliani in cambio del ritiro completo dai territori
occupati nel 1967» - ovvero Cisgiordania, Gerusalemme Est e alture del
Golan. Da qui il valore di quanto avvenuto giovedì: nel giorno in cui
Israele festeggiava il 68° anniversario dell’Indipendenza il premier
Netanyahu ha ricevuto un messaggio in arabo via twitter in cui gli si
chiedeva di sostenere il piano saudita. La sua risposta, anch’essa in
arabo, è stata «questa iniziativa, se capace di considerare le nostre
preoccupazioni, può essere una base su cui discutere per raggiungere la
pace». Ovvero, il negoziato con Riad è in corso. Ed a confermarlo c’è
quanto detto da al-Faisal: «L’iniziativa araba può comportare scambi di
territori» fra le parti e dunque il ritiro non sarà completo, è oggetto
di trattativa. Poiché l’Arabia Saudita di re Salman è alla guida di una
coalizione di oltre 40 nazioni musulmane, creata quest’anno per
combattere i gruppi jihadisti e ostacolare l’egemonia di Teheran, i
segnali di dialogo con Israele creano la possibilità di una cornice
pan-sunnita per sbloccare il negoziato con i palestinesi di Abu Mazen,
arenato dal fallimento della mediazione americana nel 2014. E’ solo uno
spiraglio e resta in balìa di una regione infestata dai conflitti ma
quando in Medio Oriente due nemici si parlano in pubblico - e non più
solo in privato - è opportuno prestare una certa attenzione.