La Stampa 12.5.16
Cannes e Salone, i social network della cultura
di Massimiliano Panarari
Topografie
della cultura. Ma i luoghi fisici dove si parla di cultura, quindi,
contano ancora? A giudicare dal Festival di Cannes e dal Salone del
libro di Torino si direbbe proprio di sì. E (pur in epoca di
onnipresente minaccia terroristica) ci troviamo di fronte all’ennesima
conferma di quanto l’andare in determinati posti si riveli importante
per il consumo e la produzione culturale. Così, operatori e appassionati
di film e libri continuano a recarsi di persona a certi appuntamenti,
per ragioni in parte differenti e in parte simili.
Gli operatori
della cultura compongono, da sempre, una tribù itinerante, competitiva
sui mercati ma bisognosa di ritrovarsi (anche per ragioni identitarie)
in ambiti e luoghi condivisi, come lo sono i festival e le fiere. Non ci
sono più la «Repubblica delle lettere» e le varie declinazioni della
comunità dei chierici e dei sapienti del passato; a rimpiazzarle ci ha
pensato la formula (inossidabile nonostante l’egemonia di Internet e dei
format della teleconferenza e della call) del festival, mix di
incontro, confronto e mondanità a cui i professionisti dell’economia
della cultura non possono rinunciare (e non c’è «tutto esaurito» degli
hotel dei dintorni che possa farli desistere). Anche perché, da che
mondo è mondo, non esiste viatico migliore – e più affidabile – per fare
affari del guardarsi negli occhi e stringersi la mano.
Ecco,
allora, che i festival culturali diventano una sorta di eredi (su scala
ridotta e con ambizioni, certo, «geograficamente» più limitate) del
grande progetto illuministico e liberale della sfera pubblica; perché
proprio qui, nell’era della connessione permanente e della comunicazione
istantanea garantite dalle tecnologie digitali, si ripropongono delle
agorà per dibattere e delle opportunità per dire la propria con più
«caratteri» e pensieri di quelli forniti da un tweet o da un whatsapp.
Giustappunto come nell’idea originaria (e, speriamo, ancora duratura) di
opinione pubblica, naturalmente rispolverata secondo una logica
postmoderna per cui a risultare centrali sono le dimensioni dell’evento e
dell’happening. E quella della performance: una delle motivazioni che
spingono il pubblico ad affluire «in massa» a questi momenti è
l’ascoltare dal vivo la voce e le riflessioni dei propri beniamini
culturali. E vedere scrittori, filosofi e registi raccontare (e
raccontarsi) nelle vesti di performer, cosa che rappresenta una tappa
obbligata del processo di «starizzazione» (ossia di trasformazione in
star) dell’intellettuale e della figura del produttore di idee e beni
immateriali. E pure del processo di neotribalizzazione, come dicono da
tempo i sociologi, per cui nell’era delle piattaforme social e
dell’offerta (potenzialmente) illimitata per tutti i gusti si va
spasmodicamente alla ricerca di chi è affine, inseguendo un desiderio di
ritrovata comunità.
Proprio quella che si forma, seppure dans
l’espace d’un matin (o, meglio di un week end), in occasione di queste
kermesse e in questi posti e spazi che permettono di consolidare delle
reti sociali non tra «numeri» di un’audience passiva o meri fan, ma tra
«prosumer». Ovvero, tra consumatori che, sempre di più, possono influire
su talune scelte e prodotti dell’industria culturale a colpi di
feedback e interazioni (specie grazie ai social media), facendosi così
anche, in qualche modo, produttori. E dandosi, non a caso, appuntamento
tutti quanti insieme appassionatamente ai festival (Torino come Cannes),
che rappresentano degli autentici social network della cultura. In
carne e ossa, però – e, al proposito, non c’è smaterializzazione
dell’economia che tenga.