Il Sole Domenica 15.5.16
E Primo non prese il fucile
Con
la consueta onestà intellettuale, Levi confessò l’incapacità di «rendere
il colpo». Ora sul tema del coraggio che gli mancò appare una lettera
inedita
di Sergio Luzzatto
Questo testo è tratto
dalla Postfazione scritta da Sergio Luzzatto per la traduzione francese
del suo libro «Partigia» (2013), in uscita da Gallimard. La versione
integrale della Postfazione è leggibile sul sito
www.ilsole24ore.com/cultura
Ulisse il coraggioso.
Volendo scegliere una situazione dell’ Odissea per includere il poema
omerico nella sua «antologia personale» del 1981, La ricerca delle
radici, Primo Levi scelse i versi del canto IX in cui l’eroe greco
completa con un’apostrofe l’opera di astuzia che ha permesso a lui e a
parte dei compagni di sfuggire alla ferina brutalità del Ciclope. Non
erano sodali di un vigliacco qualunque – urla l’eroe a Polifemo – gli
infelici divorati nella caverna. Erano sodali di Ulisse figlio di
Laerte, signore di Itaca e espugnatore di Troia, che facendo ubriacare
il Ciclope, cavandogli l’occhio, scappando dall’antro grazie al trucco
dei montoni, aveva saputo vendicare i compagni uccisi.
È nota la
centralità della figura di Ulisse nell’autobiografia intellettuale di
Levi. Di più: nella vita di Levi. Secondo il racconto del capitolo «Il
canto di Ulisse» in Se questo è un uomo, mai come recitando i versi di
Dante ad Auschwitz, ritrovandoli nel solaio della memoria per spiegare
al compagno Pikolo la virtute e la conoscenza e l’altrui piacque,
l’ebreo deportato si era avvicinato a una comprensione piena o
addirittura metafisica della Shoah. Quanto alla Tregua, cos’è la
penultima pagina dell’ultimo capitolo, quella che spiega il titolo del
libro, se non una similitudine implicita ma trasparente fra il reduce
Ulisse e il reduce Levi? «Che cosa avremmo ritrovato a casa? Quanto di
noi stessi era stato eroso, spento? Ritornavamo più ricchi o più poveri,
più forti o più vuoti? Non lo sapevamo: ma sapevamo che sulle soglie
delle nostre case, per il bene o per il male, ci attendeva una prova, e
la anticipavamo con timore».
Per Levi, Ulisse presentava
l’interesse capitale di essere non soltanto figura dell’erranza, ma
figura del coraggio. E il coraggio è virtù preziosa, non foss’altro
perché ti dà la forza di resistere: Levi lo sapeva almeno dal tempo
delle leggi razziali, quando ventenne, alla scuola ebraica di Torino,
aveva studiato il coraggio strenuo dei patriarchi. Naturalmente Levi
sapeva anche che ci sono vari tipi di coraggio, e che non tutti i
coraggi si equivalgono. C’è il coraggio fisico, l’intellettuale, il
morale, l’affettivo. Ma di là da ogni distinzione Levi sapeva che il
coraggio, nella misura in cui ti permette o ti impedisce di essere
all’altezza della situazione, finisce per essere misura di te. Questo,
Levi lo aveva imparato – se non da altri – da Joseph Conrad: che non a
caso, nella griglia di lettura della Ricerca delle radici, sta in mezzo
alla linea che definisce l’itinerario «statura dell’uomo». E proprio
perché sapeva il coraggio essere non solo prezioso, ma rivelatore, non
solo elemento di utilità, ma strumento di misura, Levi si pose sovente
il problema del suo proprio coraggio.
In nessun luogo lo fece in
modo altrettanto esplicito che in una pagina del libro del 1986,
fondamentale e testamentario, I sommersi e i salvati. È la pagina in cui
Levi descrive come un fattore di «assoluta inferiorità» la sua
incapacità di «“rendere il colpo”». Forse per mancanza di una seria
educazione politica, dice, era stato da sempre incapace di praticare una
qualunque forma di difesa attiva. Oppure forse «per mancanza di
coraggio fisico»: ne possedeva una certa dose davanti ai pericoli
naturali e alla malattia, ne era sempre stato privo davanti all’umana
aggressione. E «proprio per questo – aggiunge Levi – la mia carriera
partigiana è stata così breve, dolorosa, stupida e tragica: recitavo la
parte di un altro».
«Non mi importa più di niente. Mi importa che
voi avete avuto il coraggio di prendere il fucile, e io questo coraggio
non l’ho avuto»: come lo Schmulek di Se non ora, quando?, Levi non smise
di confrontarsi mentalmente con gli ebrei che nella guerra e nella
persecuzione erano stati capaci di coraggio. Talvolta, trovò una forma
di giustificazione per le situazioni in cui riteneva di non essere stato
all’altezza: «Come ex partigiano ed ex deportato – dichiarò nel 1982 –
so bene che ci sono condizioni politiche e psicologiche in cui resistere
si può, e altre in cui non si può». Altre volte, si lasciò andare a
nient’altro che una sconfinata ammirazione per gli ebrei capaci di
resistere e addirittura di rendere il colpo anche se inesperti e inermi,
e anche se consapevoli di non avere futuro: come i «temerari» del
ghetto di Varsavia che insorgendo contro l’occupante nazista nella
primavera del ’43 avevano testimoniato al mondo del loro «disperato
eroismo». Temerari che non avevano salvato se stessi, ma avevano salvato
la dignità ebraica per generazioni a venire.
Altre volte ancora
Primo Levi trovò più vicino a sé l’esempio del coraggio possibile di un
ebreo, anche di quello all’apparenza più imbelle. Le parole con cui nel
1984 volle pubblicamente onorare la memoria dell’amico torinese Emanuele
Artom risuonano come l’omaggio reso a un percorso che avrebbe potuto
essere il suo, e che non era stato. Poiché dopo l’8 settembre 1943,
Artom «non esita»: «Privo di esperienza militare, alieno alla violenza,
sale in montagna ed è partigiano». Sopportando fieramente disagi e
pericoli, «si fa audace e pronto». È commissario politico per il Partito
d’azione, incappa in un rastrellamento nel marzo del ’44, sopporta
stoicamente la prigionia, la derisione, la tortura. L’enfant prodige
dell’antichistica torinese d’anteguerra, il topo di biblioteca della via
Po, muore nello strazio il 7 aprile, incarnazione tragica quanto
mirabile di un destino riscattato.
Esempi di virile coraggio
ebraico Levi trovò anche vicinissimo a sé: in famiglia, in sua sorella
Anna Maria. Dopo avere lasciato insieme con la madre – il 1° dicembre
1943 – l’albergo Ristoro di Amay, sopra Saint-Vincent, e dopo avere
nascosto Rina Levi nella campagna di Ivrea, Anna Maria era divenuta «una
staffetta brava perché fortemente motivata». Sia suo fratello sia il
suo fidanzato, Franco Tedeschi, erano stati deportati in Polonia (Franco
non ne sarebbe ritornato): la sua militanza non scaturiva soltanto da
ragioni politiche, «era una rappresaglia e una rivalsa». Anna Maria
aveva fatto la staffetta con tale impegno da ritrovarsi in possesso,
all’indomani della Liberazione, di un mitra Beretta. Aveva oliato il
mitra per bene e lo aveva nascosto dapprima sotto il letto, poi nella
libreria di casa, dietro le opere complete di Balzac. Due anni dopo,
Primo aveva scambiato il mitra contro un paio di scarponi da montagna.
Gli scarponi a lui, il mitra a un partigiano che si era rifatto vivo dal
nulla: «Anzi un “partigia”, uno cioè delle frange più spregiudicate e
svelte di mano dei nostri compagni combattenti».
Ad Auschwitz,
Primo Levi era stato deportato come ebreo, non come partigiano e meno
che mai come partigia: deportato con due donne, Luciana Nissim e Vanda
Maestro, «non essendo risultato altro a loro carico». Nascosta da lui
stesso o da qualcun altro, la sua pistola intarsiata di madreperla non
gli era stata trovata addosso, i poliziotti di Salò non lo avevano
catturato armi in pugno, dagli interrogatori di Aosta nulla era emerso
tale da persuadere i saloini di avere davanti un combattente. Ma fin
dentro il campo di sterminio, poté capitare a Levi di presentarsi per
quello che pur sentiva (o sperava) di essere: un partigiano, almeno
quanto un italiano e un ebreo. E ciò nonostante tale reputazione, ad
Auschwitz, fosse più pericolosa che utile. «Non serviva a niente, il
fatto che io... Anzi, quando io dicevo, sono un partigiano, dicevano
sta’ zitto, non dirlo a nessuno. E dei francesi che la sapevano più
lunga di me mi han detto: se sei partigiano non dirlo. Qui è pieno di
spie». Il che ci riporta un’ultima volta a Se questo è un uomo, alla
recitazione per Pikolo del canto di Ulisse, e a un fotogramma
sull’accelerare il passo perché passava Frenkel, la spia.
Scritta
da Torino il 25 novembre 1984, una lettera inedita di Levi testimonia in
maniera impressionante come il reduce della Resistenza e del Lager non
abbia smesso di compiere nel segno di Ulisse una «ricognizione dei
propri confini», una misura della propria statura di uomo. Né ci sarà da
meravigliarsi che lo scrittore famoso si impegnasse nel dire cose gravi
a una sua conoscenza occasionale, la lettera essendo destinata a un
ebreo triestino fabbricante di vini, Furio Finzi, con cui aveva
scambiato appena un paio di missive: Primo Levi non era uomo da
soppesare le parole private meno delle parole pubbliche. Ecco dunque il
passo centrale di quella lettera: «Lei mi chiede di Ulisse. Mi sono
fugacemente sentito vicino a lui in tempi lontani, forse Lei lo ricorda,
se ne parla in un capitolo di Se questo è un uomo che oggi non avrei
più il coraggio di scrivere, o non scriverei così. Oggi non oserei più
affrontare il tema, proprio per una questione di statura».
Due
anni e mezzo prima di morire, Levi non aveva più il coraggio di sentirsi
tanto vicino a Ulisse il coraggioso quanto aveva potuto sentirsi in un
lontano giorno di Auschwitz. Non riconosceva più una misura comune fra
la statura dell’eroe greco e la statura di se stesso.