Il Sole Domenica 15.5.16
Medio oriente
Corsi e ricorsi della schiavitù
di Ehud R. Toledano
Non
vi è momento nella storia in cui l’uomo non abbia ridotto i propri
simili in uno stato di asservimento, per poi emanciparsene. L’Isis
rappresenta un ritorno ai giorni più bui
Nell’agosto del 2014,
circa un mese dopo la proclamazione del sedicente Califfato, le forze
dello Stato islamico (noto anche come Is, Isis, Isil o Daesh)
conquistarono la città di Sinjar, nel nord dell’Iraq. Decine di migliaia
di yazidi, la maggioranza della popolazione, furono dichiarati setta
eretica, e gli esperti di diritto del Califfato decretarono che fosse
legale ridurre in schiavitù le donne yazide, qualunque età esse
avessero. Nei mesi seguenti, oltre 100mila rifugiati yazidi fuggirono
sul monte Sinjar, dove subirono l’assedio dei combattenti dell’Is fino a
quando le forze curde, col sostegno dell’aeronautica statunitense, ne
portarono in salvo la maggior parte. E tuttavia, a partire dalla fine
del mese, l’Onu e altre organizzazioni umanitarie ricevettero rapporti
attendibili che descrivevano nel dettaglio la cattura, la riduzione in
schiavitù e la distribuzione di migliaia di donne e ragazze yazide.
Queste venivano assegnate o vendute a uomini dell’Is come mogli,
concubine o semplicemente schiave sessuali. Abolita da un secolo nella
regione, la schiavitù ricompariva, legalizzata, nei territori sotto il
dominio del Califfato in Iraq e Siria.
Non vi è momento nella
storia in cui l’uomo non abbia ridotto i propri simili in schiavitù.
Quasi tutte le civiltà, in una fase o nell’altra del proprio sviluppo,
hanno sanzionato legalmente l’asservimento di esseri umani ad altri, e
così hanno fatto tutte le religioni, monoteistiche e non. In questo
contesto, le società musulmane non rappresentano un’eccezione: gli
ultimi tre grandi imperi, quello ottomano in Medio Oriente e nei
Balcani, quello qajar in Iran e quello moghul in India hanno approvato
la schiavitù, applicando la shari'a per regolamentare il trattamento
degli schiavi. Questi erano costretti a prestare una varietà di servizi,
da quello domestico alla raccolta delle perle, dal lavoro nelle miniere
a quello nei campi. Il reclutamento forzato avveniva in giovane età, e i
servi destinati a divenire alti funzionari nella burocrazia civile e
militare provenivano principalmente dall’area balcanica. Ciascuna
mansione comportava differenti doveri, differenti ambienti di lavoro e
differenti rapporti coi padroni, ma tutti questi uomini e donne
condividevano l’assenza di libertà e una severa restrizione dei propri
diritti. Il tutto era sanzionato dalla legge.
Dal XIX secolo la
tratta atlantica degli schiavi subì un graduale arresto, e la schiavitù
fu abolita in Europa e nelle Americhe. Le potenze europee, con in prima
fila la Gran Bretagna, iniziarono a far pressione sugli imperi ottomano e
qajar affinché intraprendessero lo stesso cammino. Intorno alla metà
del secolo questi posero fine alla tratta degli schiavi africani
attraverso i loro confini, ma fu soltanto con il collasso dei due imperi
e con l’ascesa degli Stati successori moderni che la schiavitù in sé vi
fu abolita. Per quanto da allora essa si sia ripresentata tale e quale a
prima in molte società, dal punto di vista del diritto è scomparsa dal
mondo civilizzato. Il rovesciamento di questa realtà da parte dello
Stato islamico rappresenta dunque un disastroso passo indietro, un
ritorno ai giorni bui dell’umanità.
Con la decisione di riportare
in vita, ostentandola con orgoglio, l’efferata pratica della schiavitù,
le autorità legali e teologiche dell’Is affermarono di limitarsi ad
applicare la shari’a e le usanze delle prime comunità islamiche. Anche
qui, come per altri ambiti della vita quotidiana, si assiste al rigetto
di un millennio di sforzi esegetici per adattare gli insegnamenti del
Corano e della vita del Profeta all’evolversi della realtà sociale.
L’Islam ha senza dubbio autorizzato la schiavitù, ma la ha anche
regolamentata da un punto di vista legale, a protezione delle vittime.
L’affrancamento dopo alcuni anni di servizio era incoraggiato, e
considerato atto meritorio. Le vie per l’emancipazione erano numerose.
In maniera analoga, alle concubine veniva garantito di non poter esser
rivendute se incinte, e alla morte del padrone ottenevano la libertà. I
figli di queste unioni, se riconosciuti dal padre, erano anch’essi
uomini liberi. In queste società schiaviste, l’integrazione era un
fenomeno diffuso.
Queste ultime due misure garantivano la costante
riduzione del numero di schiavi: si rivelavano dunque necessarie nuove
vie per soddisfare una domanda constante e inflessibile. Fino a quando
vi riuscirono, gli Stati islamici si procurarono schiavi per mezzo delle
conquiste. Tuttavia, una volta esaurita la spinta espansionistica
all’inizio del XIX secolo, essi dovettero acquistare e importare schiavi
dai trafficanti che imperversavano nelle fragili società ai margini
degli imperi musulmani. Lo Stato regolamentava il traffico degli
schiavi, i listini dei prezzi erano pubblici e dazi doganali venivano
riscossi nei luoghi di transito. Nello stesso periodo, tuttavia, il
numero dei funzionari militari e civili fu fortemente ridotto, anche se
alcuni di loro conservarono posizioni di prestigio fino alla fine del
secolo.
Nel corso dell’Ottocento, un’intricata rete di traffici
per terra e per mare riversò centinaia di migliaia di schiavi africani,
circassi, georgiani, greci e russi nei territori ottomani e qajar. Con
la graduale applicazione dello Slave Trade Act del 1807, parte di questa
“merce umana” fu dirottata dai mercati atlantici a quelli mediorientali
e nordafricani, facendo confluire ogni anno nell’impero ottomano circa
15mila uomini e donne di origine africana, ai quali vanno aggiunti circa
3mila provenienti dal Caucaso. Si trattava perlopiù di donne destinate
ai servizi domestici degli harem delle élites urbane. La schiavitù
agricola era scomparsa nel XVII secolo, ma fu reintrodotta per un breve
periodo in due occasioni: nell’Egitto ottomano negli anni Sessanta
dell’Ottocento per la coltivazione del cotone, e quando famiglie di
agricoltori circasse entrarono nell’impero dopo la pulizia etnica
orchestrata dai russi del Caucaso intorno alla metà dello stesso
decennio. I mercati degli schiavi erano stati aboliti venti anni prima, e
la tratta degli africani nel 1857, ma il traffico continuò per vie
private – anche nell’harem imperiale – fino alla fine del secolo. Nel
1904, il registro degli eunuchi imperiali conteneva le informazioni
biografiche di non meno di 196 persone.
Oggi il traffico degli
schiavi viene studiato come una forma di migrazione forzata o coatta.
Questo approccio ci permette di comprendere meglio i movimenti non
volontari di popolazioni. Mentre le migrazioni “ordinarie” del passato e
del presente sono caratterizzate perlopiù da fattori di “push and pull”
(spinta – o espulsione – e attrazione), questi sono in gran parte
assenti in quelle forzate. Comuni invece a tutti i tipi di migrazioni,
volontarie e coatte, sono questioni importanti come la recisione dal
proprio milieu socio-culturale, l’integrazione nelle società “ospiti”,
la nascita di comunità della diaspora, e la gestione emotiva del trauma
dello sradicamento. La situazione dei rifugiati e delle vittime di
pulizie etniche (come coloro che giungono in questi giorni in Europa dal
Medio Oriente), privati dei loro diritti e della loro stessa umanità,
non è dissimile da quella degli africani e dei caucasici ridotti in
schiavitù dagli imperi qajar e ottomano nel XIX secolo.