il manifesto 7.5.16
Antonio Gramsci, i giorni del carcere
Intervista.
Conversazione con Cecilia Mangini, regista e sceneggiatrice che alla
fine degli anni ’60 lavorò con Lino Del Fra a tematiche politiche non
allineate, con film che parlavano chiaro basati su documenti fino ad
allora occultati
intervista di Lea Durante
A
settantanove anni dalla scomparsa, avvenuta il 27 aprile 1937, Antonio
Gramsci non è solo il pensatore italiano contemporaneo più letto e
conosciuto nel mondo, ma anche un personaggio capace di ispirare film,
letteratura, teatro, luoghi in cui la potenza del pensiero e
l’esperienza umana estrema si fondono. Per questo, fra le tante
celebrazioni organizzate per il 27 aprile, in due luoghi simbolici come
Roma e Turi vi sono anche la proiezione di Gramsci 44 di Emiliano
Barbucci (2016) e la rappresentazione di Gramsci Antonio detto Nino, di
Francesco Niccolini e Fabrizio Saccomanno, organizzate con la
partecipazione della International Gramsci Society Italia.
Ho
conversato con Cecilia Mangini, sceneggiatrice, regista, documentarista,
fotografa, nel suo book-bar preferito, a Ponte Milvio. Lei e suo marito
Lino Del Fra sono stati fra i primi, alla metà degli anni Settanta, a
pensare a Gramsci come personaggio, in un tempo molto ideologico che fu
anche tra i momenti di maggiore diffusione della figura e dell’opera
pensatore sardo. Il loro Antonio Gramsci – i giorni del carcere, con
Riccardo Cucciolla e Lea Massari, vinse il festival di Locarno nel 1977,
ed è un film di ragionamento e di corporeità insieme, concentrato sul
tema del rapporto fra Gramsci e il partito, attraverso la vita e la
relazione dei detenuti politici di Turi
Come nacque l’idea del film «Gramsci – i giorni del carcere»?
Fummo
molto colpiti dalla lettura, nei tardi anni Sessanta, delle
testimonianze che pian piano ricostruivano il contesto della vita di
Gramsci in carcere, e che in un certo senso illuminavano anche quelle
omissioni o parziali censure dei testi gramsciani pubblicati fino ad
allora. Poi, nel 1975, uscì l’edizione critica dei Quaderni del carcere
di Valentino Gerratana , che non risultò immediatamente comprensibile
come quella tematica togliattiana, ma che certo ne sanava le lacune. In
quel periodo io e Lino presentammo all’Italnoleggio due diversi soggetti
perché venissero valutati per un contributo. Uno era Se…, un mio film
«utopistico», mai più realizzato, contro il dogmatismo di allora, del
quale ero terribilmente insofferente, e l’altro era il Gramsci. Solo
perché eravamo sposati, l’Italnoleggio non volle considerarci come due
registi distinti, e ci chiese di scegliere, avrebbe finanziato un solo
film: scegliemmo Gramsci perché ci sembrò più giusto, per una forma di
impegno.
E infatti è un film di impegno, direi di rovello. È film
fatto di scelte molto precise: hanno spazio i personaggi di Tatiana
Schucht, la cognata di Gramsci, e della moglie Giulia, rispettivamente
interpretate da Lea Massari e Mimsy Farmer, mentre non compaiono Piero
Sraffa o l’episodio della «strana lettera» di Grieco del 1928. Vi è poi
l’episodio della visita del fratello Gennaro nel carcere di Turi,
mandato da Togliatti per conoscere i giudizi di Antonio sulla «svolta»
del 1929.
La presenza di Tatiana e di Giulia è fondamentale per
ricostruire la complessità del personaggio Gramsci, e di Gramsci in
carcere in particolare. Il mondo affettivo di Gramsci e le sue
inquietudini, i sentimenti incrociati, la sensazione di sfaldamento dei
rapporti. Erano persone molto appassionate, che testimoniavano anche che
la storia del movimento operaio dei loro anni giovanili non era tutta
politica, era anche fatta di grande umanità e di amore. L’uso dei flash
back è servito proprio a questo, a restituire pezzi di vita. Per il
resto, sì, abbiamo fatto scelte precise, Lino voleva concentrarsi su
alcune cose specifiche e le ha selezionate, voleva un film molto
compatto.
Che rapporti ci furono con il Pci a proposito della realizzazione del film?
Praticamente
nessuno. Ci muovevamo autonomamente fra le nostre letture e i nostri
incontri. Lavorammo molto in fase preparatoria, per non trascurare
nessun documento. Lino, era un ferreo marxista antistalinista, e non
voleva rapporti con il Pci, e io ero invece anarchica e libertaria,
convinta che lo strappo fra Bakunin e Marx fosse una ferita mai
rimarginata. Il film era a tutti gli effetti un’opera antistalinista.
Proprio per questo lo facemmo, proprio per questo ci piacque tanto
Gramsci. D’altra parte, non si smette mai di imparare. Solo
recentemente, leggendo il bel libro di Luciana Castellina, Guardati
dalla mia fame, sui fatti di Andria del 1946, ho compreso fino in fondo
l’antistalinismo di Giuseppe Di Vittorio, un uomo di straordinaria
potenza.
E chi incontraste, chi furono i vostri riferimenti?
Ricordo
una grande partecipazione al lavoro da parte di Alfonso Leonetti, che
aveva conosciuto Gramsci ai tempi di Torino e dell’Ordine Nuovo. Una
volta Leonetti venne sul set e vide Cucciolla con la divisa carceraria e
la gobba: fu impressionato, gli sembrò di vedere davvero Gramsci. Io e
Lino ci dividevamo il lavoro, per esempio io incontrai gli anarchici
compagni di carcere a Turi e lui vide Giuseppe Fiori, l’autore della
famosa biografia che fu decisiva per alcuni passaggi, in particolare la
visita del fratello Gennaro in carcere. Lavoravamo così, ognuno di noi
due sceneggiava una sequenza e l’altro la verificava e poi le
discutevamo insieme. Ma posso dire che questo film è prima di tutto di
Lino, è davvero il suo film. Io ci ho lavorato molto, ma non quanto ad
Allarmi siam fascisti!, un altro film che realizzammo insieme.
E dopo l’uscita del film?
Gerratana
accolse il film con un doppio paginone su l’Unità, sottolineando
l’aderenza e l’adesione del film al pensiero gramsciano. Callisto
Cosulich su Abc sostenne che dopo il titolo «fine» si dovesse aggiungere
come per i saggi critici – la sua era un’idea bella e impossibile –, la
lunghissima bibliografia essenziale di cui ci eravamo avvalsi per la
sceneggiatura. Tuttavia l’Unità non lo ha mai segnalato nella pagina dei
cinema con le stellette del massimo gradimento, in altri termini con un
incitamento a vederlo. Il nostro non è un film facile, si rivolge a chi
vuole conoscere il pensiero di Gramsci, in antinomia con la linea
stalinista e nello scontro anni ’20 con Togliatti e con il Comintern:
volevamo che fosse così, un film che si sceglie lucidamente di vedere e
di rivedere. Gramsci non è un personaggio accattivante, il Gramsci di
Lino è il dirigente di un proletariato sconfitto dal fascismo e che
costruisce il suo riscatto: il «cazzotto nell’occhio», le sue
conversazioni coi prigionieri del carcere di Turi dimostrano il suo
talento pedagogico che si scontrava col credo stalinista dei compagni.
In questi ultimi decenni, in America Latina, sottotitolato in spagnolo e
portoghese, il film ha ottenuto un successo straordinario, proiettato
nelle scuole-quadro e nelle università. Un segno sintomatico è che su
YouTube il film è stato postato nella sua interezza. Recentemente la
Casa del cinema ha dedicato una giornata a Lino Del Fra proiettando La
Torta in cielo, Gramsci e All’armi siam fascisti!: nonostante gli
applausi, sotterraneamente ma in modo percepibile è affiorato il
distacco, meglio, per usare un termine alla moda, la non condivisione
dell’impegno critico di Lino. Non per All’armi!: l’antifascismo è oggi
un credo ossificato e circoscritto al duce, alle aquilazze e alle
camicie nere.
Intanto ti racconto che anche a Mosca c’è stato
recentemente interesse nei confronti del film, da parte di una
associazione di studiosi gramsciani. Ma il tuo Gramsci di oggi che
figura è?
Una figura senza confronti nel presente, un esempio di
coerenza e di lucidità, da leggere e da studiare. Non mi sembra che vi
sia nella politica di oggi un erede di Gramsci.
Che ne pensi del recente film «Gramsci 44» di Emiliano Barbucci, sui 44 giorni trascorsi da Gramsci a Ustica?
Con
l’anticipo di un anno Gramsci 44 rappresenta un’apertura forte alle
riflessioni, analisi e approfondimenti dei testi gramsciani che si
snoderanno lungo l’ottantesimo della sua morte. Mi è piaciuto molto
anche perché è invito alla speranza che non sia invaso dalla solennità
delle celebrazioni inutili.
Gramsci 44 è un testo cinematografico
che porta alla luce il nostro passato occulto, storico, politico e
sociale, e ci rende consapevoli della necessità urgente di affrontare il
presente occulto odierno e il futuro occulto – occultati per le note
volontà politiche. Ci riesce grazie anche alla riscoperta
dell’inquadratura, vale a dire per l’importanza dell’immagine: 50.000
anni fa l’uomo preistorico ha raccontato la sua vita affrescando le
caverne, molto prima dell’invenzione della scrittura, appena
pentamillenaria. L’immagine lo ha accompagnato per tutti i millenni
successivi, raggiungendo un potere iconico estremamente coinvolgente e
significante: lo dimostra il senso di eternità che proviamo di fronte
alla pittura, alla scultura e al mosaico.
Il secondo coefficiente
di Gramsci 44 è la scelta del regista Emiliano Barbucci e del
cosceneggiatore Emanuele Milasi di dichiarare apertamente allo
spettatore l’angolazione del loro sguardo critico, di non ostentarlo mai
come quella verità oggettiva che per lo strapotere di coinvolgimento
dell’immagine obbliga a un consenso indiscriminato. Barbucci e Milasi
dichiarano costantemente sottotraccia la loro adesione al pensiero
gramsciano, lasciando allo spettatore la capacità di acconsentire o di
dissentire, di criticare, di pensare e soprattutto di convincersi della
necessità di studiare Gramsci. Il lascito è confermato anche da Daniele
Ciprì, direttore della fotografia.
Prendiamo un caffè, le
chiacchiere non finiscono mai, sul partito di allora, sul ruolo
«duplice» di Togliatti nel far conoscere Gramsci all’Italia e al suo
partito, sulla politica di oggi. La nostalgia non appartiene a Cecilia,
lei guarda sempre in avanti: dice di voler prendere un «anno sabbatico»,
gira troppo. Non c’è da fidarsi, però, i suoi occhi hanno altri
progetti