sabato 21 maggio 2016

il manifesto 21.5.16
Chiara Saraceno: «La famiglia cementa i divari»
Fotografia statistica del paese dove più le disuguaglianze si approfondiscono
intervista di Rachele Gonnelli

Protettiva per «bamboccioni», disgregata e ignorante per i bambini sotto la soglia di povertà, sostitutiva del welfare e dello Stato che non c’è per i malati, riproduttrice di diseguaglianze di classe nelle opportunità che mancano altrove, è sempre la famiglia, croce e delizia – come in un grande melodramma tragico – che rappresenta plasticamente, in quest’ultimo rapporto Istat, i cambiamenti della società italiana.
Come è cambiata la famiglia italiana in questa nuova fotografia statistica, professoressa Saraceno?
Ciò che emerge dal rapporto e che in effetti diciamo da anni è che in Italia avere una famiglia alle spalle è una necessità, ma è anche un’arma a doppio taglio. Nel senso che nella crisi che stiamo attraversando se nei primi anni il paracadute familiare ha attutito gli effetti dirompenti della crisi stessa sulle dinamiche sociali, poi, alla lunga, il meccanismo si è rovesciato contro sé stesso. Il fatto che la famiglia sia rimasta praticamente da sola con capacità redistributive di tipo solidaristico, fa sì che le famiglie con poche risorse alla fine non ce la fanno. Ciò è molto più grave con il prolungarsi della crisi, quando l’ascensore sociale si ferma del tutto insieme alla mobilità del mercato del lavoro dove avanza solo precarietà e lavoro povero.
Però aumentano anche le donne capofamiglia nei nuclei monoreddito, come evidenziava già Linda Laura Sabbadini.
Sì, ma non credo che segnali un nuovo protagonismo femminile del tipo moglie in carriera e marito casalingo. Spesso questo avviene per necessità, non è scelto. La crisi ha colpito soprattutto i settori a più alta occupazione maschile, come l’industria e l’edilizia, così succede che molte donne con un lavoro secondario si trovano a dover mantenere, con quello, l’intera famiglia o ad accettarne uno in condizioni di svantaggio. E bisogna vedere se ciò va di pari passo a una redistribuzione dei compiti domestici, non mi pare. E ciò vale anche per le funzioni di cura delle persone non autosufficienti, o dei bambini, che anche quando non vivono sotto lo stesso tetto finisce per aggravare fortemente il carico di incombenze delle donne. È per questa ragione che spesso sono perciò costrette ad abbandonare il lavoro per accudire anziani, malati, figli e nipoti. Poi questa redistribuzione in capo alla famiglia è una riproduzione intergenerazionale delle disuguaglianze, che così si approfondiscono. Scuola, sistema di welfare e anche mercato del lavoro non riescono a contrastare le disuguaglianze dell’origine sociale, familiare.
Si è anche fermato del tutto il turn over, si assumono giovani solo nel commercio e turismo, che infatti risultano sovraistruiti rispetto alle offerte di lavoro. Siamo diventati un paese di camerieri?
Alta intensità di lavoro e basse qualifiche, è il problema della nostra economia e dipende dalle imprese, che sono poco competitive perché investono poco in innovazione e puntano solo sui bassi salari. Con la crisi non sono migliorate, o vengono spazzate via o sopravvivono a malapena. E l’Italia vive il paradosso di essere rimproverata dall’Europa per i troppo pochi laureati metre quei pochi sono sovraqualificati. La dice lunga sul nostro mercato del lavoro che continua a investire pochissimo nel capitale umano. Personalmente sono pessimista sulla ripresa. Continuando così l’Italia non sarà mai competitiva, senza uno scatto potrà solo galleggiare più o meno.
Ma come, la ministra Madia e il consigliere Taddei festeggiano l’uscita da una recessione senza precedenti storici e lei è pessimista?
Mi sembra che anche il presidente dell’Istat, persino lui , sia stato molto cauto. Del resto l’Istat in precedenti rapporti aveva avvertito che avremo, forse, solo nel 2050 gli stessi occupati del 2007. Oggi siamo di fronte a zeri virgola, meglio che niente, però..
Fenomeno nuovo e misterioso è quello dei cosiddetti jobless, oltre due milioni di persone che campano senza redditi da lavoro. Chi sono, rentiers?
È una categoria che ci impone l’Eurostat ma è dubbia, noi sociologi diciamo «sporca», perché indica cose diverse. Spesso ci finisce dentro chi non è del tutto senza lavoro ma lavora a meno del 20 per cento delle sue potenzialità, come i voucheristi. Ma vi fanno capo anche i ricchi rentiers. E anche i baby pensionati o le persone che, specialmente nel Sud, si arrangiano nell’economia informale, al nero. O i cosiddetti reddito zero, che magari ricevono qualche forma di assistenza o piccola pensione e arrotondano con lavoretti. C’è tanta economia sommersa dietro questo indice.
Alla fine quale fotografia dell’Italia ci restituisce?
La foto di un paese sostanzialmente fermo, con solo piccoli, deboli, segnali mentre a mio avviso servirebbe una forte scossa per ripartire. Un paese di disuguaglianze multiple – di genere, di generazione, geografiche -che si aggravano, che penalizza soptattutto i giovani. E questo per l’incidenza quasi nulla delle politiche pubbliche. Credo che servirebbe fare una riflessione compressiva su tutto ciò.