il manifesto 21.5.16
Non è un paese per giovani
Nuove povertà. Crescono i trentenni poveri senza reddito né cittadinanza
di Aldo Carra
Il
Rapporto Istat 2016, che si colloca all’interno delle celebrazioni del
novantesimo anno di vita di questo Istituto, costituisce una novità
positiva soprattutto perché sviluppa una lettura per generazione sia
delle trasformazioni demografiche e sociali che delle dinamiche del
mercato del lavoro. Naturalmente, come sempre, esso comprende una
dettagliata analisi dell’evoluzione dell’economia italiana, del sistema
delle imprese, della competitività e del lavoro e della protezione
sociale. Contiene, quindi, una mole di dati e di analisi rilevante che
dovrebbe essere analizzata con attenzione facendo, se possibile, uno
sforzo di lettura strutturale.
Siamo abituati quasi ogni giorno a
commentare dati Istat molto attuali che si prestano a valutazioni
sull’efficacia delle politiche fatte da un governo che ce la mette tutta
per scegliere dal mazzo i dati più convenienti riproducendo il teatrino
di gufi e civette.
Banalizzare o piegare al clima del momento
sarebbe un vero peccato perché i dati forniti vanno ben oltre le
polemiche elettorali quotidiane ed evidenziano, invece, problemi
strutturali profondi sui quali si potrà studiare, ragionare,
confrontarsi, cercare soluzioni. Qui ci limitiamo ad alcuni fenomeni di
medio lungo periodo evidenziati dal Rapporto.
Cominciamo dalle
famiglie che vivono senza redditi da lavoro: sono oggi 2,2 milioni,
comprendono quindi sei milioni di persone, dal 2004 al 2015 sono passate
dal 9.4% al 14.2%, raggiungono al sud il 24,5%. L’incremento più forte
di questo fenomeno si è registrato nelle famiglie di giovani dove la
percentuale è sostanzialmente raddoppiata.
Questi pochi dati mi
pare già dicano tanto su un fenomeno, non attribuibile certo solo al
governo attuale, che dovrebbe diventare centrale nelle scelte politiche.
Se non si creano occasioni di lavoro e quindi di reddito e ci si
rifiuta anche di introdurre forme di reddito di cittadinanza, qualcuno
dovrebbe spiegarci come si può combattere la povertà e la sfiducia nel
futuro. Quando parliamo, quindi, di un buon utilizzo di questi dati
pensiamo alla necessità ed urgenza di dare priorità assoluta alle
occasioni di lavoro e reddito da creare e di concentrare su questo le
poche risorse che ci sono e ci saranno. E su questo elemento
dell’occupazione aggiuntiva il Rapporto evidenzia che, incentivi o meno,
siamo lontani dalle esigenze e che cresciamo meno di quanto non avvenga
mediamente in Europa.
Un secondo aspetto rilevante che emerge
dalla relazione è il rapporto tra lavoro e studio. Le generazioni più
anziane avevano investito nell’istruzione ed i livelli di
scolarizzazione erano diventati strumenti importanti di mobilità
sociale. La crisi economica ha indebolito il rapporto tra titolo di
studio ed occupazione e quindi depotenziato questo straordinario
strumento di emancipazione sociale.
Oggi un giovane su tre risulta
sovra istruito rispetto al lavoro e dopo tre anni solo il 53% dei
laureati ha trovato una occupazione ottimale rispetto al titolo
conseguito. E non è incoraggiante il dato che emerge che le professioni
più frequenti sono quelle di commesso, cameriere, barista, cuoco,
parrucchiere, estetista. Non perché esse non siano attività necessarie
ed utili, ma perché, in parallelo, non nascono posti di lavoro
sufficientemente qualificati per la totale assenza di una politica di
incentivazione degli investimenti destinati all’innovazione di processo e
di prodotto.
Un terzo elemento che vogliamo rilevare in questa
rapida carrellata riguarda la bella panoramica delle diverse generazioni
che il Rapporto contiene a partire dalla generazione della
ricostruzione protagonista del Dopoguerra, alle generazioni del baby
boom caratterizzate dalla generazione dell’impegno e delle lotte degli
anni settanta, alle generazioni dell’identità, per arrivare alla
generazione della transizione, di passaggio tra vecchio e nuovo
millennio, che sta subendo i contraccolpi della recessione.
Emergono
in questa disamina fattori sui quali riflettere. Fra i nati negli anni
quaranta l’80% aveva vissuto un “evento di vita” come il vivere da soli,
la formazione di una famiglia o la nascita di figli; tra i nati negli
anni settanta quella percentuale è scesa al 60%. Così nel 2015 il 70%
dei giovani tra 25-29 anni ed il 54% delle coetanee vivono ancora in
famiglia. Se si dovesse scavare di più e meglio su questi dati
emergerebbe non solo una classificazione generazionale, ma una
classificazione territoriale e, quindi, sociale.
E’ chiaro che in
una società con scarse occasioni di lavoro e di studio, nelle
professioni meno qualificate di cui si parlava si trovano gli strati più
popolari e che per esse con la crisi piove su bagnato nel senso che le
occasioni di mobilità sociale verticale si riducono, cresce il carattere
ereditario dell’istruzione e dell’accesso alle professioni più
qualificate e privilegiate, la stratificazione sociale e le
disuguaglianze, insomma, si perpetuano.
Fermo restando il nostro
giudizio positivo sulle novità di questo Rapporto, auspichiamo che nelle
prossime edizioni potranno trovare più spazio queste analisi su
stratificazioni sociali, disuguaglianze, mobilità.