il manifesto 18.5.16
Neruda, le tre voci del poeta
Cannes
69. Alla Quinzaine des Realisateurs il nuovo film di Pablo Larraìn
sulla figura del poeta cileno, senatore comunista e ricercato politico.
Meno biopic e più un mescolare elementi diversi, un lavoro che si
interroga sul rapporto tra arte e politica
di Eugenio Renzi
CANNES
Una biografia di Pablo Neruda, poeta cileno, senatore comunista,
ricercato politico, non può che contenere tre generi, e il film che la
mette in scena non può essere che tre volte «po» – come amava dire
Godard: poetico, politico, poliziesco. Ma queste tre dimensioni vanno
bene insieme? Si aiutano a vicenda o si mettono piuttosto i bastoni tra
le ruote?
A giudicare dall’ultimo film di Pablo Larrain… Entrambe
le cose. Andiamo per ordine. Nella prima parte, il film mette in scena
il poeta. Siamo negli anni 1950. Il Cile, scosso da un’aspra lotta di
classe, è in rapida via di fascistizzazione. Le organizzazioni politiche
e sindacali della sinistra sono messe al bando, i militanti vengono
arrestati e internati in campi di concentramento. Ma nella splendida
casa di Neruda, le leggi del materialismo storico sembrano sospese. Ogni
sera, il poeta invita l’élite cilena al suo simposio, e, tra un
travestimento e un canto, fa rivivere il meglio degli anni ruggenti del
cinema americano e della scena artistica parigina.
Ora, questo
Lazzaro dai gusti sofisticati e cosmopoliti è anche un senatore
comunista. Senatore di un partito che è ancora inquadrato da solidi
principi staliniani, implicato in una battaglia nella quale due
superlativi si affrontano: un proletariato poverissimo, un’alta
borghesia ferocissima. Tra questi due mondi non c’è nulla. Ed è chiaro
che il figlio del ferroviere, diventato poeta di fama mondiale, sposato
ad un’artista che ne ha completato l’educazione raffinandone il gusto, è
più a suo agio con la borghesia che con il popolo. Perché il poeta ha
scelto il proletariato ? In che modo la sua ricerca del bello incontra
il problema del giusto? E, soprattutto, come può il cinema appropriarsi
di queste domande, mettersi al loro livello e non limitarsi a servirle
già cotte, come accade di solito (soprattutto nel cinema andino).
Invece
di provare a sbrogliare la matassa, di per sé già complessa, del bello e
del giusto, Larrain sceglie di aggiungere un terzo ingrediente
all’intreccio: l’inchiesta giudiziaria, ovvero il gustoso, il puro
svago. Ecco che inventa un personaggio, un giovane ispettore, che il
Presidente cileno mette alle calcagna del poeta. Anche qui, si tratta di
essere fedeli alla biografia: a don Pablo, oltre all’alta poesia e alla
militanza politica, garbavano i gialli. Ma non si tratta solo di un
dettaglio biografico. Con il gustoso o lo svago, Larrain cerca di
interpretare la scelta di vita del poeta e del politico. Abbastanza
presto ci si rende conto che l’ispettore è una sorta di alter ego di
Neruda. Anch’egli è figlio di proletari (la madre era una prostituta).
Anch’egli si è fatto strada e si è inventato una maschera. Non è più un
bastardo, non è un figlio di nessuno. Ma, contrariamente al poeta, il
poliziotto ha scelto di mettersi con i padroni. Neruda e il suo
ispettore sono in effetti due vite diverse di una stessa persona. Neruda
è allora meno un biopic che un curioso intruglio di elementi diversi,
di immagini irrequiete. Nella fase finale il film si spossessa e arriva a
sposare una forma apertamente irrazionale.
Che cosa tiene insieme
il tutto? Tanto per cominciare, non è certo che il tutto, vale a dire
il film, tenga. Neruda ha il merito di far apparire una questione
complessa, in cui l’arte è chiamata due volte in causa nel suo rapporto
con la politica. Come può la poesia incontrare il linguaggio della
politica. E come può il cinema mettere in scena, con il suo proprio
linguaggio, gli altri due? Ma non è detto che Larrain abbia trovato la
forma giusta. Di certo, meno che nei tre film precedenti: Tony Manero,
che lo aveva fatto scoprire, sempre alla Quinzaine, otto anni fa;
seguito da Post Mortem e da No.
Neruda è meno leggero del primo.
Meno grave del secondo. Meno preciso del terzo. Però c’è un’idea, che il
film insegue, cerca di esporre, trova in alcuni punti e poi abbandona
per strada: la voce del poeta. È nella voce del poeta, che non è una
voce naturale, che i tre linguaggi potrebbero trovare una forma. La
stessa voce che seduce le masse, inquieta i padroni, crea il proprio
altro che indaga su di sé. L’idea è bella. Ma appena sussurrata.