Corriere 6.5.16
Dove sono i visionari
«Calvino come Parise e Ginzburg, quell’andare oltre la realtà restando ancorati all’etica»
di Roberta Scorranese
La
Rimini di Tondelli, trasfigurata al punto da sembrare la provincia
americana dipinta da Hopper; la Malo (Vicenza) di Luigi Meneghello, in
cui il trapasso dalla cultura contadina a quella capitalista si potrebbe
definire universale. E la Sicilia di Sciascia? Non è forse planetaria
la rassegnazione di Bellodi che chiude Il giorno della civetta , quando —
di fronte al muro di omertà, politica corrotta e fatalismo — dice a
voce alta: «Mi ci romperò la testa»?
Una
delle caratteristiche dei grandi «visionari» (tema del Salone 2016)
della letteratura italiana del secondo Novecento è stata proprio quella
di aver sublimato la provincia in un messaggio apolide, non a caso
ancora oggi molto amato all’estero: una ricerca dell’agenzia 7BrandsInc.
dice che il «toscanaccio» (secondo Pietro Pancrazi) Pinocchio di
Collodi è il secondo libro più tradotto al mondo, dopo Il Piccolo
Principe . Ma forse il visionario più universale di tutti è stato lui,
Italo Calvino, filosofo oltre che scrittore come chiosa il filologo e
critico letterario Carlo Ossola, che al Salone porta il suo Italo
Calvino. L’invisibile e il suo dove (Vita e Pensiero).
Professore, quanto bisogno abbiamo oggi di visioni, specie di quelle di Calvino?
«Sono
necessarie per rendere il futuro abitabile. Essere visionari è anche
rappresentare la società nei suoi valori simbolici e Calvino lo ha fatto
con generi e registri diversi. Penso alla fiaba, certo, ma vede, lui
aveva un rovello che confidò a Maria Corti: per Calvino nessuno degli
scrittori (a parte qualche pagina di Fenoglio) ha saputo rappresentare
la Resistenza. Il suo è stato un progetto politico-etico fino a Palomar ,
quell’acuto scrutatore in cui lo sguardo si spinge al punto di
osservare la propria morte».
Tornando alla
provincia: Calvino, pur partendo dal patrimonio più «particolare» e
identitario (la fiaba), arriva a una letteratura che non ha città nè
lingua: è globale.
«Io lo paragono a Marco
Aurelio, a uno stoico: volle costruire tenacemente una visione
interiore, una propria coerenza staccandosi dal reale per osservarlo
meglio. Anche nelle aporie: pensiamo a La giornata d’uno scrutatore».
Racconto
ambientato a Torino, ma potrebbe essere ovunque. Quanto è diversa
questa provincia da quella di Andrea Vitali, che è al Salone, o da
quella veneta di Parise?
«Goffredo Parise,
ma anche Luigi Meneghello o Antonio Barolini, per non parlare della
Asiago di Mario Rigoni Stern. Una costellazione straordinaria che oggi è
una lezione a quei tentativi di forzato localismo tipico dei leghisti:
quella provincia parlava una lingua che, sì, nasceva da un posto, ma poi
si dimostrava capace di superarlo, era una provincia che si confrontava
con temi europei».
Curioso che oggi, anche a
causa della crisi economica, si riscoprano i cosiddetti «cantori del
lavoro in fabbrica», come Volponi e Ottieri.
«Ma
oggi quella capacità di vedere al di là delle dinamiche del lavoro e
della produzione non può ripetersi: manca un soggetto collettivo, un
“noi” che guidava nella lettura di romanzi come La macchina mondiale di
Volponi. Questa è l’epoca dei singoli. Come Palomar di Calvino,
appunto».
Visionarie sono state anche alcune
donne della nostra letteratura, come Natalia Ginzburg, alla quale il
Salone rende omaggio per il centenario della nascita.
«Credo
che la triade Morante-Ginzburg-Ortese, con la poetessa Amelia Rosselli,
sia stata una delle prove meglio riuscite della letteratura europea del
secondo Novecento. Vede, oltre alla capacità di interpretare il proprio
tempo, queste donne come gli scrittori di cui abbiamo parlato avevano
una visione etica e civile. Cosa che oggi, nel mondo letterario, faccio
fatica a ritrovare».
In questo viaggio nei «visionari della provincia» possiamo inserire anche Silone?
«A
pieno diritto: anzi, mi meraviglia che l’Italia che oggi ammira Papa
Francesco non ricordi le tematiche di umanità “concreta” che informavano
l’opera dell’abruzzese. Che ci ha restituito un vissuto letterario
vigoroso, senza elementi estetizzanti come D’Annunzio».
In conclusione, oggi gli autori visionari sono finiti?
«Senza
generalizzare, nè fare nomi: forse si nascondono dietro l’ansia da
classifica o da vendita. Anche i cosiddetti epigoni di Pasolini: non
credo che ci sia un nuovo Pasolini né un nuovo Calvino. Eppure abbiamo
tanto bisogno di visioni. Ma bisogna riformare la società per rifondare
il romanzo».