venerdì 6 maggio 2016

Corriere 6.5.16
L’ora della svolta sui superstipendi dei manager
di Ricardo Franco Levi

N el grande dibattito sull’ineguaglianza e sulla concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, decidendo di prendere di mira i superstipendi dei massimi dirigenti delle grandi società, è entrato un peso massimo: il Fondo petrolifero della Norvegia.
Con un patrimonio di 870 miliardi di dollari, il Fondo dei 5 milioni di cittadini norvegesi è il più grande fondo sovrano al mondo. È entrato in oltre 8 mila società in tutto il globo arrivando a pesare per l’equivalente dell’1,3 per cento del capitale di tutte le società quotate del mondo e del 2,5 di quelle europee. In Italia, con 8 miliardi di dollari investiti in una lunga lista di società tra le quali Fiat, Eni, Enel, Assicurazioni Generali, Unicredit, Banca Intesa, Autogrill, Finmeccanica, il Fondo norvegese è il terzo investitore straniero e ha in portafoglio una quota che si stima pari all’1,6 per cento di Piazza Affari.
Dopo avere preso posizione nelle imprese in cui è entrato contro il cumulo delle cariche di presidente e amministratore delegato e a favore della rotazione delle società di revisione e del diritto dei soci di nominare i propri rappresentanti nei consigli d’amministrazione, il Fondo norvegese ha scelto il proprio prossimo campo di battaglia: i supercompensi dei grandi dirigenti.
Platone sosteneva che in una società bene ordinata nessuno dovesse guadagnare più di cinque volte il salario dei lavoratori più umili. Resta da chiarire se il grande filosofo, che personalmente ne possedeva cinque, includesse nel conto anche gli schiavi di cui Atene era ricca. Quel che è certo è che la sua tesi è risuonata nei secoli, pur variando nel rapporto considerato come ottimo, portato nel secolo scorso a 10 a 1 dallo scrittore George Orwell e a 20 a 1 dal banchiere John Pierpoint Morgan. Cifre che sono state tutte travolte negli ultimi anni dall’esplosione dei compensi votati a favore dei grandi capi, arrivati a valere molte centinaia di volte i salari medi dei loro dipendenti.
Le valgono, se le meritano queste montagne di soldi i supermanager? Di certo non tutti. Dei 70 milioni di sterline, per la più gran parte costituiti da premi legati ai risultati di bilancio, complessivamente incassati lo scorso anno da Martin Sorrell, fondatore e grande capo di WPP, il maggior gruppo mondiale della pubblicità, si può dire che riflettano i successi conseguiti sotto la sua guida.
La stessa cosa si può ripetere per i 50 milioni e più di euro riconosciuti lo scorso anno a Sergio Marchionne, indiscusso protagonista, dall’acquisto della Chrysler in avanti, delle fortune della Fiat e di gran lunga il più pagato dei manager italiani. Ben altra e scandalosa cosa è la buonuscita di 4 milioni di euro che ha accompagnato alla porta della devastata Popolare di Vicenza l’ex amministratore delegato Samuele Sorato. E il suo non è sicuramente un caso isolato.
Ma si ammetta pure che nel mondo delle imprese cifre a sette zeri siano il riflesso dell’eccezionale valore di grandi dirigenti in modo non dissimile da quanto succede nello sport per i massimi campioni o nel cinema per le grandi star. Basta per dire che sia giusto, che sia opportuno pagare somme così grandi, pari a multipli enormi di quelli incassati dalla media dei lavoratori? Basta in una lunga stagione segnata dalla crisi?
Questo è l’interrogativo che il Fondo sovrano della Norvegia intende mettere sul piatto della discussione. Ed è facile prevedere che la sua voce peserà, e tanto.
Cos’è ragionevole aspettarsi? I non pochi interventi per legge, alcuni attuati, altri solo proposti come quello di due anni fa della Commissione europea che prevedeva di dare alle assemblee degli azionisti delle società quotate il potere di stabilire il massimo divario possibile tra i compensi dei capi azienda e quelli della media dei dipendenti, non hanno avuto grande successo.
A incidere e a determinare i futuri equilibri saranno molto più l’evolvere dell’opinione pubblica e dei valori generalmente condivisi. Il no al superstipendio dell’amministratore delegato di Renault, Carlos Ghosn, espresso, per quanto in una votazione non vincolante, dal 54 per cento degli azionisti, tra cui, col suo 20 per cento, il governo francese, è un segno dei tempi.