Corriere 25.5.16
I nuovi anziani, generazione senza età
Nobel e ricercatori: la soglia «over 65» non ha più senso, la longevità diventi risorsa
di Giangiacomo Schiavi e Carlo Vergani
Sugli
anziani si fanno pesare i maggiori costi della sanità, la spesa
pensionistica, persino la mancata crescita. Sbagliato. La vecchiaia non
ha il monopolio della debolezza o della cattiva salute, dicono i
geriatri. Su 16 milioni di pensionati in Italia, 7,2 milioni hanno un
assegno sotto i mille euro e il 17% vive con meno di 500, informa
l’Istat. «La longevità diventi una risorsa».
La speranza di vita è
un segno di civiltà e un indicatore di sviluppo, ma da un po’ di tempo è
anche un fattore di rischio. I portatori involontari di questo rischio
appartengono alla categoria anziani, alias vecchi, vecchiacci, nonnetti,
vegliardi, secondo una poco simpatica classificazione. Su di loro si
fanno pesare i maggiori costi della sanità, la spesa pensionistica,
persino la mancata crescita. È una semplificazione sbagliata. Perché la
vecchiaia, nonostante tutto, non ha il monopolio della debolezza o della
cattiva salute, dicono i medici. Perché su 16 milioni di pensionati in
Italia, 7,2 milioni hanno un assegno inferiore ai mille euro e il 17 per
cento vive con meno di 500 euro, informa l’Istat. Perché la mancata
crescita è dovuta alla bassa competitività e ad una popolazione attiva
che invece di allargarsi si restringe continuamente, scrive l’economista
Giulio Sapelli.
Per mettere la longevità «nel cassetto delle
risorse e non dei problemi», sostiene Fabio Roversi Monaco, ex rettore
dell’Università di Bologna, ideatore del festival della Scienza medica,
«va cambiato un modo di pensare» troppo incline all’ageismo e alla
rottamazione. Bisogna aggiornare le età della vita. Si deve trasformare
una questione prevalentemente assistenziale e sanitaria in una risorsa
che può diventare fattore di ricchezza: la crescita si aiuta anche con i
beni relazionali. In questo caso gli anni non sono un limite: possono
essere un vantaggio.
L’età è solo un numero, intitola un saggio
sulla vecchiaia il semiologo Marc Augè. Ma sconfina nell’eccesso. Senza
esagerare, ci sarebbe invece una soglia da abbattere, per dare a milioni
di persone un motivo in più per non sentirsi vecchi. È la soglia 65.
Per convenzione si considerano anziani le persone di età superiore a una
soglia fissa, per esempio i 65 anni. Tra gli ultrasessantacinquenni
esistono profili eterogenei per stato di salute e condizioni di vita.
Sono state proposte varie misure dinamiche dell’invecchiamento di una
popolazione. È stato detto che c’è un’età anagrafica e ce n’è una
biologica. A metà del secolo scorso la speranza di vita residua a 65
anni era di 13 anni. A 65 anni si entrava così nel parametro «anziani».
Anche se dava fastidio sentirselo dire.
Oggi a 65 anni ogni uomo e
ogni donna può dire «anziano sarà lei» a un incauto interlocutore
rimasto fermo ai pregiudizi. Perché negli ultimi cinquant’anni è
cambiato tutto. Oggi 13 anni sono l’attesa di vita di un uomo di 73 anni
e di una donna di 75 anni. Se utilizzassimo l’attesa di vita residua di
13 anni, come criterio per definire la soglia di entrata nell’età
avanzata, oggi in Italia 6,5 milioni di persone di età compresa fra 65 e
74 anni non verrebbero più considerati anziani.
Non è una
rivoluzione lessicale. Indica una trasformazione in corso: la soglia di
transizione mobile si porta dietro un serie di effetti da non lasciare
alla deriva. I dossier dell’Onu e il rapporto «An Aging World 2015» ci
avvertono che per la prima volta nella storia dell’umanità la
percentuale degli ultrasessantacinquenni supererà quella dei bambini di
età inferiore ai cinque anni. Il punto d’incrocio è dietro l’angolo:
avverrà prima del 2020. In Italia, ci ha ricordato l’Istat, nel 2015 ci
sono state 15 mila nascite in meno rispetto al 2014: il minimo storico
da quando c’è lo Stato unitario. Nel 2050 la percentuale degli
ultrasessantacinquenni sarà più del doppio di quella dei bambini.
Così,
fra poco ci saranno più nonni che nipoti. E questo è un guaio serio. Se
il miglioramento delle condizioni di salute ha portato l’Italia al
primato della longevità (dopo il Giappone) la mancanza di politiche a
sostegno della donna che lavora incide sul calo delle nascite. Crescere
un figlio ha un costo che molte giovani coppie, senza il sostegno della
famiglia, non riescono a sostenere. La retta di un asilo nido è come uno
stipendio. Troppo alta. Fa pendant con le rette esose delle case di
riposo, che si abbattono sempre sulla famiglia, quando la vecchiaia da
conquista diventa un peso, a causa di malattie gravi o degenerative.
L’anzianità
va rimessa in gioco senza scontri generazionali, sfruttando i vantaggi e
limitandone i disagi. Le cifre e i grafici vanno interpretati cercando
le condizioni per un riequilibrio, senza colpevolizzare chi si avvia ad
entrare nella quinta età, quella degli ultranovantenni. Cancellando
l’aggettivo anziano per i sessantacinquenni si definisce un’area e si
libera un’età. Non solo per chi è fisicamente in forma. Soprattutto per
chi partecipa alla vita sociale, economica, culturale e civile del
Paese. Ed è ancora pronto a fare la sua parte.