mercoledì 25 maggio 2016

Corriere 25.5.16
Eroi antichi e massacri moderni
Conoscere la guerra per evitarla
L’evoluzione della storia si comprende anche attraverso i conflitti
Dai contadini che difendevano il Peloponneso agli scontri globali di oggi
di Paolo Rastelli

Causa di sprechi immani, lutti immensi e distruzione di ricchezza quasi incalcolabile. Ma anche, come ricorda lo storico Franco Bandini «fenomeno intellettuale di prima grandezza», in cui tutte le energie, i pregi e i difetti di una comunità umana, sia essa una tribù, uno Stato nazionale o un impero multietnico, sono messi alla prova, spesso senza possibilità di appello. È per questo che la guerra non cessa di essere tra le cose più affascinanti da studiare: per quanto si possa provare orrore di fronte alle sofferenze che essa provoca, non esiste un modo migliore per capire la storia e i suoi protagonisti.
Ogni società esprime un «suo» modo di fare la guerra, lo influenza e ne è a sua volta influenzata. Prendiamo per esempio i contadini-soldati della Grecia antica, gli inventori di quella che l’americano Victor David Hansen chiama «l’arte occidentale della guerra». Le dispute di confine tra le città-Stato elleniche erano senza fine e andavano risolte. Ma la soluzione non poteva aspettare, perché bisognava pensare al raccolto e le messi non andavano lasciate in balia dei nemici. Quindi le guerre assunsero rapidamente la fisionomia dell’unico scontro risolutivo: due schiere di fanti coperti di bronzo, armati di spada e asta e protetti da un enorme scudo, l’ oplon (da cui il loro nome di opliti), si fronteggiavano, venivano a contatto e combattevano finché una delle due non cedeva. E al cedimento seguiva il massacro degli sconfitti.
Quando questo modo brutale e violento di combattere venne a contatto durante le guerre persiane (siamo nel quinto secolo avanti Cristo) con i popoli orientali, abituati a scontri più ritualizzati e meno sanguinosi, quasi non ci fu storia: i soldati del gran Re si squagliarono come neve al sole di fronte alla furia degli opliti.
Alla fine anche i greci, come tutto il mondo antico, dovettero piegarsi di fronte alle legioni. I soldati romani che sconfissero le falangi greco-macedoni a Cinocefale, Pidna e Corinto (siamo tra il 200 e il 146 a.C.) erano a loro volta il frutto di una lunghissima evoluzione della società che li esprimeva: i contadini-soldati che dalle rive del Tevere avevano marciato sull’Etruria, arruolati in base al censo e smobilitati alla fine di ogni campagna estiva, si erano trasformati in soldati professionisti pagati dallo Stato. La vecchia struttura non si prestava più alla politica di potenza della Repubblica. Le coorti romane, formate da professionisti del combattimento manovrato che solo l’addestramento continuo e l’esperienza possono formare, ebbero ragione della rigida falange senza alcuno sforzo.
Con un salto di circa 20 secoli arriviamo alla Rivoluzione francese (1789) e ai suoi sanculotti. I soldati rivoluzionari non avevano nulla dell’esperienza delle milizie professioniste che avevano combattuto le guerre settecentesche, relativamente poco sanguinose e che si sono meritate il soprannome francese di guerre en dentelles (guerra in merletti). Ma avevano coraggio e fervore patriottico, ben superiore a quello degli eserciti che i sovrani europei, timorosi del contagio rivoluzionario, lanciarono contro di loro. Così i generali francesi abbandonarono i vecchi schieramenti lineari e passarono all’attacco in colonna: quando i tamburi battevano il pas de charge , le colonne francesi si lanciavano avanti, sopportavano stoicamente le salve di fucileria e giungevano a contatto con l’avversario. A quel punto la parola passava alle baionette e tutto si giocava, appunto, con il coraggio e il fervore.
Di fronte alla «furia francese», sfruttata poi magistralmente da Napoleone, si disfecero gli eserciti di Austria, Prussia, Russia, Savoia e (molto meno) Gran Bretagna. E andò avanti così finché il resto d’Europa imparò che i cittadini soldati, se motivati dal patriottismo, erano imbattibili per spirito di sacrificio.
La colonna rimase valida fino alla Guerra civile americana (1861-65), quando le nuove armi rigate resero impossibile l’attacco di forze ammassate a ranghi serrati. Le enormi perdite delle battaglie tra Nord e Sud, tra Unione e Confederazione, avrebbero dovuto insegnare a tutti che la guerra condotta dalle democrazie moderne era di gran lunga più micidiale e totale dei conflitti del primo Ottocento e che era destinata a durare fino alla rovina totale di uno dei due contendenti. Uso il condizionale perché la lezione di Shiloh e Petersburg non venne capita. E si arrivò così alla Prima guerra mondiale e ai massacri del fronte occidentale tra il 1914 e il 1918, che funzionarono da «rombante ouverture» alle distruzioni del 1939-45. Mentre le guerre asimmetriche in Vietnam e in Afghanistan hanno dimostrato che l’opinione pubblica delle grandi potenze nucleari può essere convinta, con il tempo e con il sangue, ad accettare la sconfitta. Questa è quasi storia dei nostri giorni. E la guerra, «quell’antica festa crudele» per dirla con Franco Cardini, continua a insegnarci molto. Forse perfino ad evitarla, se sapremo studiare.