sabato 21 maggio 2016

Corriere 21.5.16
L’errore di Genscher Come morì la Jugoslavia
risponde Sergio Romano

I media hanno riportato la notizia della scomparsa, a 89 anni, di Hans-Dietrich Genscher, che fu tra i più longevi ministri degli Esteri della Germania in questo dopoguerra (1974-92). Molto apprezzato dalla cancelliera Merkel per le sue raffinate doti di negoziatore nelle stagioni della Ostpolitik e della riunificazione (anche se, come precisa il Corriere , l’ambasciatore americano Burt lo definì a slippery man, un uomo sfuggente), si distinse anche come inflessibile sostenitore dei famosi parametri di Maastricht. Ne sanno qualcosa i nostri governi dell’epoca, nei riguardi dei quali il ministro Genscher ogni mattina se ne inventava una nuova. Oltre agli innegabili meriti, non crede che si debba ricordare anche questo?
Lorenzo Milanesi

Caro Milanesi,
Genscher merita quasi tutte le lodi con cui la sua figura politica e la sua personalità sono state rievocate in occasione della morte. La prova più brillante del suo impegno professionale fu probabilmente il modo risoluto e volitivo con cui seppe affrontare la crisi dei cinquemila turisti della Repubblica democratica tedesca, in visita a Praga nell’estate del 1989, che non volevano tornare a casa e avevano chiesto asilo all’ambasciata della Repubblica federale. Genscher approfittò di alcune circostanze favorevoli (le esitazioni e le incertezze della dirigenza della Germania comunista nell’era di Gorbaciov), ebbe colloqui a New York con i ministri degli Esteri dell’Urss e di alcuni Paesi satelliti, corse a Praga per annunciare ai dissidenti della Rdt che erano liberi di partire per la Germania dell’Ovest. Non riuscì a terminare la frase perché le sue parole furono sommerse da un entusiastico coro di applausi.
Ma vi è un’altra pagina della sua vita professionale che non merita altrettante lodi. Quando la Slovenia e la Croazia proclamarono la loro indipendenza, nel 1991, la prima reazione della Comunità europea fu il tentativo di ricucire lo strappo promuovendo la creazione di un nuovo stato jugoslavo confederale. La formula si scontrò con molte difficoltà locali, ma non poteva ancora dirsi irrimediabilmente fallita allorché Genscher tagliò corto e annunciò che la Germania aveva riconosciuto i due nuovi Stati. Quando gli fu osservato che quel riconoscimento significava la disgregazione della Jugoslavia, Genscher replicò che occorreva punire la Serbia per l’assedio di Vukovar e i bombardamenti di Dubrovnik; e aggiunse che non vi era altro modo per mettere fine al conflitto. Di fronte al fatto compiuto i colleghi europei di Genscher si allinearono sulla politica tedesca e condannarono lo Stato creato da Tito a quattro anni di guerra civile.
È probabile che Genscher credesse di lavorare nell’interesse della Germania. Invece di uno Stato comunista vi sarebbero state, non lontano dalle sue frontiere meridionali, due piccole nazioni cattoliche che avevano lungamente appartenuto all’orbita delle nazioni di lingua tedesca.
Mentre creava perplessità nell’Europa comunitaria, la mossa di Genscher piacque a una grande autorità morale. Giovanni Paolo II, il Papa polacco, fu lieto che la componente cattolica degli slavi del sud si fosse affrancata dalla dominazione dei serbi, un popolo che aveva il doppio difetto di essere stato comunista e di essere ortodosso. Genscher fu ministro degli Esteri sino al febbraio 1992 e non dovette gestire le conseguenze della sua politica jugoslava. Papa Wojtyla, invece, fu Papa sino al 2005 e dovette subire gli effetti di una scelta che non era piaciuta né a Belgrado né a Mosca. La Chiesa ortodossa non gli permise di fare visita a Sarajevo e il Patriarca di Mosca non volle che il pontefice romano facesse una vista pastorale nella Grande madre Russia.