Corriere 1.5.16
I numeri dei piani a carboncino e le porte che si chiudono «È un palazzo senza speranza»
di Marco Demarco
Padre
Pio è qui, alle porte dell’inferno. Scolpito nella pietra, con le mani
giunte e il rosario pendente dalle dita. La statua è nell’ingresso
dell’isolato numero 3, scala C, del rione Verde di Caivano, il palazzo
alto otto piani dove sono volati giù, e sono morti, prima Antonio
Giglio, di tre anni, e poi Fortuna Loffredo, di sei. Lo stesso palazzo
dove la piccola Fortuna è stata violentata e uccisa, a quanto sembra,
davanti agli occhi di un’altra bambina. E da chi, poi? Secondo i pm, da
Raimondo Caputo, convivente di Marianna, l’inquilina del settimo piano,
la madre di Antonio. Se non è questo l’inferno, allora è difficile
immaginarne un altro a portata di mano.
Arrivarci non è facile,
anche per chi conosce Caivano per aver scritto della Terra dei Fuochi,
di cui è il centro, e di Padre Patriciello, che a questa periferia a
Nord di Napoli e a Sud di Caserta, ricca di spacciatori, di discariche
abusive e di veleni interrati, ha dato voce: o come eroe della protesta
civile o, secondo altri, come campione dell’antimodernità, perché
istintivamente, non scientificamente, convinto del nesso di causalità
tra ambiente malato e malattie tumorali.
A ora di pranzo, sotto un
sole che svuota le strade, è solo grazie alla disponibilità del cognato
di Mimma, la madre di Fortuna, che l’isolato 3, uguale a tutti gli
altri, si materializza. L’uomo ha una sola raccomandazione da fare:
«Ecco, quello è l’ascensore, la casa dei miei è al sesto piano, porta a
sinistra. Non suonate il campanello, per favore, non fate rumore, è
aperta: ci sono i giornalisti della Rai che stanno registrando
un’intervista».
Di solito, per andare all’inferno si scende. Qui,
invece, si sale. Meglio le scale, però. Mura sbrecciate, cancelli per
proteggere le porte, qualche zerbino spelacchiato, e, al secondo piano,
anche un «Tvb» gigante, un inaspettato graffito d’amore. Sembra di
entrare nel film della Cortellesi, quello girato al Corviale, dove gli
inquilini, per distinguere scale e ingressi, lasciano macchie di colore
sui muri. Qui, invece, i numeri dei piani sono segnati a carboncino, sul
cemento vivo.
Al terzo c’è la casa dell’uomo che, anticipando
tutti, soccorse inutilmente, Fortuna: la sollevò dall’asfalto e la portò
in ospedale. Ora è altrove, ai domiciliari, anche lui accusato, insieme
con la moglie, di violenza sessuale nei confronti della figlia di
dodici anni.
Al sesto, finalmente, la casa di Fortuna. Mimma, la
madre, racconta il suo dolore davanti a una telecamera. Poi, al nuovo
arrivato, mostra l’ultimo tatuaggio sull’avambraccio: «Dovunque sarai
resterai con me». Nonna Rosaria, invece, depone il panino che ha appena
farcito con la mortadella e fa accomodare . «Ormai — dice — a parte i
familiari stretti e brave persone come Padre Patriciello, qui venite a
trovarci solo voi con i microfoni o i taccuini in mano». E gli altri,
quelli del palazzo? «Macché. Non si è visto nessuno. E mentre si
indagava su Antonio e su mia nipote nessuno parlava, nessuno sapeva».
Neanche le mamme degli altri bambini? «Nessuno, e io — continua — non so
spiegarmelo se non con la paura, con il terrore, con la disperazione di
salvare qualcosa. Ma cosa c’è da salvare, quando si pecca in quel modo,
quando ci si accanisce contro creature di tre e sei anni? Eppure vanno
in chiesa, si confessano». Cosa vuol dire? «Padre Patriciello — spiega —
non vuole che si faccia di tutta un’erba un fascio, che si parli male
di tutti gli inquilini di questo palazzo. Io lo capisco, ha ragione, ma
non può pretenderlo da me che sono la nonna di Fortuna».
In
effetti, ci sono volute 60 microspie nascoste dagli inquirenti e i
disegni dei bambini interpretati dagli psicologi per arrivare ad
arrestare Raimondo Caputo. «A pensarci bene — continua nonna Rosaria —
in questo palazzo tutto è cambiato quando è arrivato lui, l’uomo che
solo ora hanno arrestato. Prima, ancora ci si salutava, e i ragazzi
giocavano e facevano chiasso nelle scale». Prima quando? «Non parlo solo
di quando, trent’anni fa, io, mio marito e poche altre famiglie venimmo
qui a occupare queste case. Anche negli anni successivi qui si poteva
ancora vivere. In fondo, tra queste mura ho cresciuto sei figli e 15
nipoti. Una delle mie figlie ancora abita di fronte, su questo stesso
pianerottolo». E sul terrazzo dove è stata spinta Fortuna, è più
tornata? «Solo quando sono arrivati i giudici. Però ho le chiavi, se
vuole...».
Così la salita continua. Al settimo piano, c’è la casa
dove si sono perse le tracce di Fortuna, quella frequentata dall’uomo
arrestato. Vuota. E fa una certa impressione passarci davanti.
All’ottavo piano c’è invece la signora Rachele, la nonna dell’ultimo
figlio di Mimma. «No, non parlo, sono malata», si scusa. Un’altra donna,
che sta lavando il pavimento davanti al suo ingresso, rientra in casa
velocemente. Non resta che il terrazzo. Ci si arriva aprendo l’ennesimo
cancello. È invaso dal sole. Non sembra l’inferno.