giovedì 19 maggio 2016

Corriere 19.5.16
Il romanzo di Scalfari
Il labirinto delle opposte felicità
di Pierluigi Battista

«La mitologia non è», scrive Eugenio Scalfari nell’introduzione alla nuova edizione Einaudi del suo primo romanzo Il labirinto (pagine 240, e 19), «una favola tramandata attraverso i millenni, e neppure una religione, sebbene alcune religioni abbiano utilizzato i miti a piene mani. La mitologia è il senso della vita, cerca e inventa fin dai primordi dell’esistenza». Il romanzo, che Scalfari ripropone a vent’anni dalla sua prima uscita, è impregnato di mitologia sin dal titolo e non solo perché il labirinto «è il mito per eccellenza che meglio descrive la condizione umana» e «noi siamo tutti in un labirinto dal quale è impossibile uscire». Non solo perché la famiglia dei Gualdo, con il suo patriarca Cortese, vive volontariamente segregata «in una disordinata accozzaglia di stanze, saloni, bugigattoli, scale, soffitte, circondata da una campagna recintata da un muro», in un labirinto claustrofobico spezzato dall’irruzione di una confraternita di Lunatici. Ma soprattutto perché nel microcosmo labirintico raccontato da Scalfari si consumano le contraddizioni e le fratture dell’animo umano. Prendono forma i modelli della vita e della morte, la passione del dominio e del potere, il potere e il dominio dell’amore e nell’amore, la fisicità in irriducibile contrasto con la fantasia («la fuggitiva fantasia») e l’immaginazione, i caratteri in perenne contrasto tra di loro.
Quello di Scalfari è il romanzo filosofico il cui fulgore raggiunse l’apice nel secolo dei Lumi, quando Voltaire e Diderot davano sostanza umana alle loro idee e alla loro filosofia incarnandole in un Candide o in un nipote di Rameau. In uno dei dialoghi più intensi tra don Cortese dei Gualdo, ottantenne, e suo figlio Stefano, di vent’anni più giovane, affiora un contrasto senza tregua tra il carattere del padre, «ingordo» avido di sapori, odori, dell’«affondare i denti nella polpa», vitalista, insaziabile, e quello del figlio, «circospetto» persino nel mangiare. Il padre dice al figlio: «Tu centellini, io divoro, tu fai felice il tuo stomaco, io tutto me stesso». Lo sprona, lo esorta a seguire l’inesauribile ricerca paterna della felicità: «Sì, fatti forza, ed esci dal guscio». Ma la risposta del figlio è di pura impronta filosofica: «Io parlo con la mia mente. Essa mi seduce, mi porta sui suoi sentieri, mi propone i suoi enigmi, m’introduce in un mondo fantastico. Voi pensate che io sia un gelido ragionatore, di logica e di astratti concetti. Ma la mente può crearvi intorno un mondo figurato, stupendo, musicale, sentimentale, magico».
Sono due idee di felicità che si contrappongono e non possono trovare composizione in uno stretto e asfissiante labirinto da dove si può uscire solo come Arianna nel mito, trasformata e sublimata in una costellazione, mentre per terra «resta soltanto il filo, senza più alcuna mano che lo tenga». Sono, in definitiva, due ideali di libertà: la libertà naturale e dei suoi istinti ingordi e la libertà della mente che sa giocare con le idee e con la filosofia, un perfetto connubio di ascetismo intellettuale e libertinismo mentale che da sempre appare l’ideale regolativo della filosofia morale di Eugenio Scalfari. Un ideale che si esprime anche, nel romanzo, nelle atmosfere del Caffè degli Incostanti, dove «il tempo veniva dissipato senza risparmio» e i clienti, «tanto più lo dissipavano tanto più sembravano gustarne la consistenza». Fuori del labirinto c’è la dissipazione. Dentro, invece, la grande e fastosa cerimonia che don Cortese inscena per celebrare e rappresentare in modo memorabile la sua morte, quando «un rantolo si spense in un lamento» e il vecchio «restò impietrito sui cuscini». Una morte come tutte le altre, ma diversa «perché era soltanto sua»: l’ennesima e ultima contraddizione.