Corriere 15.5.16
L’apocalisse di Asiago
La grande battaglia del 1916 Asiago, le bombe, gli sfollati e quell’unica statua in piedi
di Gian Antonio Stella
L’apocalisse
della Strafexpedition, l’offensiva decisa dal feldmaresciallo austriaco
Conrad von Hötzendorf nel 1916 e l’Altopiano. Basta leggere il diario
del tenente Attilio Frescura per capire: «Asiago fu». Cominciò tutto,
scrisse l’inviato del Corriere Arnaldo Fraccaroli, cento anni fa, «con
un cozzo spaventoso nel pomeriggio di lunedì 15 maggio» .
«A siago
fu». Per capire cosa rappresentò per l’Altipiano dei Sette Comuni
l’apocalisse della «Strafexpedition», l’offensiva decisa dal
feld-maresciallo austriaco Conrad von Hötzendorf per vendicarsi degli ex
alleati, basta leggere quella pagina di diario del tenente Attilio
Frescura: «Asiago fu». Seguita, il giorno dopo, da «Asiago fumiga».
Cominciò
tutto, scrisse l’inviato del Corriere Arnaldo Fraccaroli, esattamente
cento anni fa, «con un cozzo spaventoso nel pomeriggio di lunedì 15
maggio». Il primo colpo sparato, dal passo Vezzena, oggi confine fra
Trentino e Veneto, dal «Lange Georg», il cannone che, costruito per le
corazzate era stato poi assegnato da Vienna all’artiglieria. Un colosso
che lanciava a 30 chilometri proiettili di un metro e mezzo con 193
chili di esplosivo. Colosso affiancato da batterie portate giù lungo
l’Adige senza che Luigi Cadorna prendesse mai sul serio gli allarmi.
«Sull’Altipiano,
comprese le bombarde pesanti da trincea, non v’erano meno di mille
bocche da fuoco», scriverà in «Un anno sull’altopiano» Emilio Lussu, «un
tambureggiamento immenso, fra boati che sembravano uscire dal ventre
della terra, sconvolgeva il suolo. La stessa terra tremava sotto i
nostri piedi. Quello non era tiro d’artiglieria. Era l’inferno che si
era scatenato». «Altro che bolgia dantesca spettacolosamente
terrificante!», annoterà un soldato nel diario ripreso nel saggio
«Austriaci all’attacco» da Alessandro Massignani e Paolo Pozzato, «ci
pareva d’essere addirittura in mezzo ad un formidabile convulsionismo
tellurico i cui crateri eruttassero un finimondo di lava acciarina».
Il
trentesimo colpo del «Langrohrkanone», che molti chiamavano «Giorgetto»
come se l’ironia potesse depotenziarlo (non meno ironici,
involontariamente, furono i volantini lanciati per rincuorare i
vicentini: «Se essi hanno un po’ più di artiglieria le nostre baionette
sono migliori...») piombò nella via principale di Asiago davanti alla
chiesa di San Rocco. Una foto famosa riassume tutto: in mezzo a un
ammasso di macerie, solo la statua della beata Giovanna Maria Bonomo è
miracolosamente intatta. «Ho visto l’Angelina che teneva in braccio e
cullava il suo bambino. Era morto e forse non se n’era accorta. perché
gli parlava. Asiago era un paese morto. Non aveva una casa in piedi»,
ricorderà Mattea Del Sasso.
Scappano tutti, gli abitanti. Mentre
l’alfiere Fritz Weber scrive che «Asiago giace ai nostri piedi» nel
diario che lo renderà celebre («Tappe della disfatta») vecchi, donne e
bambini cercano di trovare scampo scendendo giù verso Bassano, Thiene,
Vicenza. Da dove molti torneranno, altri prenderanno le vie dei migranti
verso le Meriche o l’Australia. Scriverà di quegli sfollati anche Mario
Rigoni Stern in «L’anno della vittoria»: «I carabinieri lungo la strada
che andava oltre i monti spingevano i più restii e facevano fretta e
largo ai soldati che salivano dalla pianura. Alle loro spalle il paese
bruciava e il campanile sembrava una torcia».
Mentre saliva dalla
parte opposta, li incrociò lo stesso Lussu: «La strada, ora, si faceva
ingombra di profughi. Sull’Altipiano d’Asiago non era rimasta anima
viva. La popolazione dei Sette Comuni si riversava sulla pianura, alla
rinfusa, trascinando sui carri a buoi e sui muli, vecchi, donne e
bambini, e quel poco di masserizie che aveva potuto salvare dalle case
affrettatamente abbandonate al nemico. I contadini allontanati dalla
loro terra, erano come naufraghi. Nessuno piangeva, ma i loro occhi
guardavano assenti. Era il convoglio del dolore. I carri, lenti,
sembravano un accompagnamento funebre».
Fu carneficina, la
«Battaglia degli Altipiani»: 5 mila morti e 23 mila feriti tra gli
austriaci e ancora di più tra gli italiani, che nei rapporti ufficiali,
ricorda Paolo Pozzato nel recente «L’offensiva austriaca del 1916.
Strafexpedition», distingueva tra morto e morto: «788 ufficiali uccisi,
2.844 feriti e 1.045 dispersi, 14.665 uomini uccisi, 73.789 feriti e
54.590 dispersi». Episodi di eroismo finiti nella leggenda. «Il 2 giugno
sul Cengio s’immola la brigata Granatieri di Sardegna», ricorda ne «La
guerra di Giovanni» Edoardo Pittalis, «ha l’ordine di resistere sino
all’ultimo uomo ed è una strage, tra selvaggi corpo a corpo con la
baionetta in canna. Avvinghiati al nemico, precipitano nel vuoto». Il
baratro sarà chiamato il «Salto dei granatieri». C’è tra loro lo
scrittore triestino Carlo Stuparich. Pochi mesi prima ha lasciato versi
struggenti: «Oggi l’aria è chiara e fine/e i monti sono cupi e
tersi,/poveri anni persi…».
Sconvolto nell’inferno e diffidente
verso i comandi («Bom bom bom/al rombo del cannon/El general Cadorna el
mangia el beve el dorma/e el povero solda’ va in guerra e non ritorna»,
diceva una strofetta di trincea) c’è chi non trova senso nel farsi
ammazzare in cocciute offensive suicide: «La mia squadra fu macellata!»,
scrive disperato un sottufficiale e cosa fa il capitano alla vista
degli scampati in fuga? «Uscito dal suo ricovero e visti i soldati
fuggire mise mano alla rivoltella e cominciò a tirare loro addosso». Era
un ordine di Cadorna: fucilare, fucilare, fucilare.
Ma gli
Austriaci, come sottolineerà Armando Diaz nel Proclama della Vittoria
(«I resti di quello che fu uno dei più potenti eserciti del mondo
risalgono in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con
orgogliosa sicurezza») non sfondano. Sono costretti anzi a ripiegare.
Tra i soldatini veneti nasce una canzoncina: «I solda’ de Ceco Bepe/i
vo’eva ‘ndar a Vicensa/ma co’ i xe riva’ a Asiago/i ga perso ‘a
coincidensa».
La guerra, però, sarà ancora lunga. E angoscioso il
ritorno. Non solo Asiago e tutti i paesi dell’altipiano erano rasi al
suolo ma erano irriconoscibili le stesse foreste, i prati, i pascoli:
«Su un totale di 18.656 ettari di boschi, 4.680 furono rasi al suolo
(distrutti), 1.936 quasi distrutti, 3.781 molto danneggiati, 5.399
danneggiati», spiega Katia Occhi ne «L’Altopiano dei Sette Comuni», a
cura di Patrizio Rigoni e Mauro Varotto, «solo 2.860 ettari di boschi
rimasero indenni». Quelli che non avevano avuto alcuna importanza
strategica.
Al ritorno, tutti provarono il tuffo al cuore di
Matteo ne «L’anno della vittoria»: «La sua casa non c’era più e il luogo
dove sorgeva era un mucchio di sassi rotti e travi annerite, e l’orto
più in basso era diventato un cimitero dove croci di legno sghembe o
spezzate segnavano i tumuli dove nel 1916 e nel 1917 venivano sepolti i
soldati italiani che morivano nell’ospedale da campo che era sorto poco
lontano». Trovò, scavando con le mani, solo «la bambola di pezza con la
quale giocavano le sorelline. Era ancora intatta, forse l’unica cosa che
ancora rimaneva e le ripulì il viso e le vesti». Occorreva
ricominciare. E ricominciarono.