Corriere 11.5.16
Il segretario cerca l’unità
Ma è scontro con Speranza
La sinistra: ordina destituzioni. Il 21 i banchetti per la consultazione
di Maria Teresa Meli
ROMA
Ricompattare il partito, recuperare quella parte dell’elettorato del Pd
«No triv» per portarla a votare «Sì» al referendum costituzionale e
avviare un lungo periodo di pacificazione interna fino alla prova
elettorale per eccellenza, quella delle Politiche del 2018: è questo il
piano di Matteo Renzi.
Il presidente del Consiglio lo ha
illustrato ai collaboratori più fidati. Ma non è detto che gli riesca.
Perché quando l’altro ieri, in direzione, ha offerto una sponda alla
minoranza interna (prefigurando la nascita di una nuova segreteria più
unitaria e cedendo alla richiesta dei bersaniani di anticipare di
qualche mese il congresso) la risposta di Roberto Speranza è stata più
dura di un «no» secco. L’ex capogruppo del Pd ha lasciato cadere la
proposta di una moratoria avanzata da Renzi e ha preannunciato la sua
candidatura alla segreteria contrapponendosi con forza al segretario.
Eppure,
tra maggioranza e minoranza vi era stato un intenso lavorio
diplomatico. Ma Speranza, destinatario, insieme ad altri bersaniani, di
una serie di telefonate di fuoco di Massimo D’Alema, che si lamentava
per l’eccessiva morbidezza della sinistra interna, ha preferito seguire
il richiamo dell’ex premier a quello del segretario del suo partito. E
mal gliene incolse, secondo lui, perché proprio ieri un suo fedelissimo,
il presidente del consiglio regionale della Basilicata, Piero
Lacorazza, è stato sostituito in quell’incarico da un alfaniano.
Speranza
ha accusato il premier per quella che ha definito una «destituzione»,
scatenando una violentissima polemica. L’arrabbiatura dell’ex
capogruppo, al di là delle illazioni che riguardano Renzi, si basa su un
assunto: quello che è successo in Basilicata non è un bel segnale. Come
a dire che chi sta con Speranza perde la poltrona, oggi, e la
candidatura (o la ricandidatura) domani. E questo non è un buon viatico
per la corsa dell’ex capogruppo alla leadership del partito.
Ma
non erano questi i piani del premier. Renzi non voleva (e tutt’ora non
vuole) lo scontro con la minoranza. Tant’è vero che è rimasto
amareggiato per l’atteggiamento di Speranza: «Possibile che non abbiano
capito che la nostra gente non ne può più delle nostre divisioni?». Al
leader del Pd non interessa la battaglia sul fronte interno. Lui è
proiettato sulla consultazione di ottobre. E infatti il 21 maggio tutti i
dirigenti del partito scenderanno in campo, nelle città italiane, con i
banchetti (o «banchini», come li chiama il premier) per il referendum
day. Ci sarà lo stesso Renzi, che andrà in una città del Nord ancora da
individuare.
E a proposito del referendum, certe reazioni di Pier
Luigi Bersani avevano fatto ben sperare il presidente del Consiglio.
L’ex segretario aveva fatto sapere a Renzi, tramite i soliti sherpa, che
«nell’ambito di un percorso condiviso» anche la minoranza si sarebbe
«impegnata per il sì». Speranza ha rotto invece la tregua. E ora quel
congresso di riappacificazione che il premier aveva proposto rischia di
diventare una resa dei conti. Resa dei conti che, soprattutto in caso di
vittoria al referendum, non sarebbe certamente favorevole alla
minoranza.
«Dobbiamo restare uniti», continua comunque a dire il
premier, che vorrebbe tenersi fuori da «queste beghe». E aggiunge: «Dal
referendum in poi, comunque non si sgarra più». Sì, perché quello che
Renzi chiede al Pd è un anno e più di tranquillità per poter governare e
preparare la campagna elettorale del febbraio del 2018. A meno che le
cose non precipitino. Allora, con il congresso fatto in anticipo, si può
anche pensare di andare alle elezioni prima...