martedì 10 maggio 2016

Corriere 10.5.16
«Vi racconto come i servizi segreti possono aver ucciso Giulio Regeni»
di Khaled Diab

Lo scrittore egiziano Diab: la sua morte dovrebbe temperare gli entusiasmi per il regime
Durante un discorso sconclusionato, e in alcuni momenti addirittura inquietante, in risposta alle accuse che il suo regime avesse «venduto» due isolotti strategici del Mar Rosso all’Arabia Saudita, il presidente egiziano Abdel-Fattah Al Sisi ha colto al balzo l’occasione per difendere l’operato del suo governo nel caso di Giulio Regeni.
«Siamo stati noi egiziani a far circolare illazioni e menzogne, ci siamo creati questo problema con le nostre stesse mani, abbiamo orchestrato un caso imbarazzante per l’Egitto — ha detto Al Sisi, assumendo i toni del genitore arrabbiato che rimbrotta i figlioli disobbedienti —. Ve l’ho già detto, ci sono persone malvagie tra di noi che ci addossano la responsabilità di quanto accaduto».
Malgrado le smentite e i dinieghi provenienti da molti settori del governo egiziano, e rimbalzati sui media controllati dal regime, io stesso, e come me moltissimi altri egiziani, in particolar modo gli attivisti e i giornalisti indipendenti, sono convinto dell’ipotesi che Regeni sia stato assassinato da uno dei molteplici tentacoli dei famigerati servizi segreti egiziani. Un’ipotesi che ai nostri occhi appare del tutto plausibile, e agghiacciante.
Per me, in quanto egiziano, l’unica sorpresa è che questo sia toccato a uno straniero, proveniente da un Paese ricco e sviluppato. Secondo il copione ufficioso che reggeva il sistema legale parallelo in vigore in Egitto all’epoca coloniale, gli occidentali — proprio per evitare le immancabili rimostranze che i loro governi avrebbero sollevato — venivano solitamente lasciati in pace dai custodi delle insicurezze nazionali.
A riprova del disprezzo che il regime egiziano mostra verso i suoi cittadini, persino la doppia cittadinanza assicura maggior protezione ai detentori rispetto alla semplice nazionalità egiziana. E questo, oltre al fatto che non so scrivere in arabo e vivo all’estero, è sicuramente uno dei motivi per cui non sono ancora finito nei guai per le mie critiche al governo. Sono convinto che l’interrogatorio di otto ore, al quale sono stato sottoposto in occasione della mia ultima visita in Egitto, sarebbe finito molto peggio se fossi stato un normale cittadino egiziano.
Capisco perfettamente gli attivisti e i giornalisti egiziani che hanno scelto l’esilio. Per quelli che sono rimasti a continuare la lotta, tra mille pericoli e mettendo a rischio la libertà o addirittura la vita, provo una sconfinata ammirazione. Dai familiari ai giornalisti, fino ai difensori dei diritti umani come Hossam Bahgat, che continua a denunciare le trame oscure del regime nonostante le continue vessazioni e il congelamento dei suoi beni, oppure come Aida Seif Eldawla e il suo team al Nadeem Centre, che continuano ad aiutare le vittime della tortura e della violenza, malgrado i ripetuti tentativi di chiudere il loro centro operativo.
Sebbene la stragrande maggioranza delle vittime del regime siano egiziane, negli ultimi cinque anni di instabilità le derive xenofobe sono cresciute a dismisura a seguito della propaganda governativa che ha accusato i fautori della rivoluzione del 2011 di essere agenti di congiure straniere. Per quanto ne sappia, tuttavia, finora nessun occidentale era mai stato torturato e ucciso dai servizi di sicurezza. L’unico caso che ci si avvicina è quello di un residente francese al Cairo, Eric Lang, che fu pestato a morte — a quanto riferito — dai compagni di cella. Il cameraman di Sky News, Mick Deane, fu colpito a morte durante la carica della polizia per disperdere i manifestanti al sit-in di Raba’a el-Adaweya, organizzato a sostegno del presidente deposto Morsi.
La morte di Regeni ha scoperchiato il marciume che esiste all’interno del regime egiziano, e questo dovrebbe temperare gli entusiasmi di tanti politici e giornalisti italiani nei confronti di Al Sisi, descritto come «coraggioso» perché alla testa di una «rivoluzione» all’interno dell’Islam. Agli occhi dei laici e degli intellettuali egiziani, molti dei quali rinchiusi oggi dietro le sbarre, l’idea che il nostro capo incoerente e inflessibile sia una sorta di riformatore illuminato potrebbe apparire come una crudele ironia. Al Sisi non è un rivoluzionario, ma un controrivoluzionario.
I diritti umani devono restare la colonna portante nei rapporti dell’Europa con l’Egitto e il resto della regione. È venuto il momento che l’Italia e l’Unione Europea esigano concretamente, sia dall’Egitto che dagli altri Paesi del Mediterraneo, il rispetto di questi principi fondamentali.
(traduzione di Rita Baldassarre)