Corriere 10.5.16
Riforma costituzionale errori e passi indietro
di Valerio Onida
L’
articolo di Sabino Cassese pubblicato sul Corriere del 6 maggio
(«Perché la riforma costituzionale non tradisce la Repubblica») è un
buon esempio del modo in cui bisognerebbe discutere il merito delle
riforme sottoposte a referendum, contrastando la tendenza a farne un
plebiscito sul governo. I due argomenti affrontati — bicameralismo e
Regioni — meritano distinto esame (e per questo dovrebbero essere
oggetto anche di distinte pronunce popolari, al pari di altri aspetti
della riforma, per evitare di costringere gli elettori a pronunciarsi
con un unico sì o un unico no su argomenti non omogenei).
Quanto
al primo — la seconda Camera — nella tradizione costituzionale essa non
ha tanto la funzione di garanzia contro eventuali eccessi della prima
Camera (anche perché nella nostra storia è stata sempre, fino agli anni
recentissimi, espressione dei medesimi rapporti fra maggioranza e
opposizioni), ma piuttosto la funzione di rappresentare istanze
differenziate della società. La scelta, quindi, di configurare
esplicitamente il Senato come camera rappresentativa delle istituzioni
territoriali — le Regioni — appare di per sé ineccepibile. Il problema è
il modo in cui la riforma lo fa, non mettendo i nuovi senatori nelle
condizioni di esprimere unitariamente la volontà delle rispettive
Regioni, e negando al Senato funzioni di efficace dialogo e raccordo con
la Camera e con il governo sui temi delle autonomie.
Sul secondo
tema — il regionalismo — la legge costituzionale di oggi fa invece una
scelta a mio avviso radicalmente sbagliata: non limitandosi a correggere
alcuni evidenti errori, da tutti ammessi, della riforma del 2001, ma
configurando un nuovo quadro nel quale l’autonomia legislativa delle
Regioni viene praticamente ridotta a zero, senza nemmeno il beneficio di
una maggiore chiarezza nel riparto di competenze e quindi senza
scongiurare il rischio del contenzioso Stato-Regioni. Si pensi, a questo
riguardo, all’oscurità insita in norme come quelle che riservano alla
competenza «esclusiva» dello Stato materie tipicamente regionali quali
il governo del territorio, ma limitandole al compito di dettare
«disposizioni generali e comuni». Che vuol dire «disposizioni generali e
comuni», al di là dell’ovvietà per cui le norme legislative sono
«astratte e generali» e non contengono provvedimenti concreti, e valgono
in tutto il territorio nazionale?
Non è vero che le Regioni con
l’attuale Costituzione siano «ferme al livello amministrativo». Al
contrario, è proprio da questa riforma che uscirebbe un sistema di
Regioni (diseguali fra loro per dimensione, per cultura istituzionale
prevalente, per capacità operative) ridotte al rango di super Province
(abolite le storiche Province amministrative), prive della possibilità
di esprimere le potenzialità dell’autonomia sul terreno legislativo. Non
è del resto senza rilievo il fatto che in Italia da sempre si
confrontino due «scuole» del diritto amministrativo, quella «romana», di
cui Cassese è esponente di spicco, e quella «nordica», sulla scia di
esponenti come Benvenuti e Pototschnig, cui corrispondono diverse
sensibilità sul tema dell’autonomia. In ogni caso, il principio
dell’autonomia è iscritto fra i principi fondamentali della Costituzione
(art. 5). Non si tratta, per nessuno, di negare che i diritti
fondamentali dei cittadini vadano tutelati egualmente in tutto il
territorio (ciò a cui provvedono già norme precise della Costituzione
vigente, là dove, per esempio, demandano allo Stato di determinare i
«livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e
sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale»):
ma di lasciare spazio reale alle iniziative delle comunità territoriali
substatali, sostituendosi al tradizionale centralismo dello Stato
«napoleonico». Il cambiamento prospettato avverrebbe oltre tutto senza
nemmeno il contrappeso di una vera «Camera delle Regioni» in grado di
intessere un dialogo non subalterno con le istanze centrali.
Ecco perché la riforma non mi pare un passo avanti, ma uno indietro.