Repubblica 8.4.16
La democrazia senza morale
di Stefano Rodotà
NEL
MARZO di trentasei anni fa Italo Calvino pubblicava su questo giornale
un articolo intitolato Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. Vale
la pena di rileggerlo (o leggerlo) non solo per coglierne amaramente i
tratti di attualità, ma per chiedersi quale significato possa essere
attribuito oggi a parole come “onestà” e “corruzione”. Per cercar di
rispondere a questa domanda, bisogna partire dall’articolo 54 della
Costituzione, passare poi ad un detto di un giudice della Corte Suprema
americana e ad un fulminante pensiero di Ennio Flaiano, per concludere
registrando il fatale ritorno dell’accusa di moralismo a chi si ostina a
ricordare che senza una forte moralità civile la stessa democrazia si
perde.
Quell’articolo della Costituzione dovrebbe ormai essere
letto ogni mattina negli uffici pubblici e all’inizio delle lezioni
nelle scuole (e, perché no?, delle sedute parlamentari).
Comincia
stabilendo che « tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla
Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi » . Ma non si
ferma a questa affermazione, che potrebbe apparire ovvia. Continua con
una prescrizione assai impegnativa: « i cittadini cui sono affidate
funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore
» . Parola, quest’ultima, che rende immediatamente improponibile la
linea difensiva adottata ormai da anni da un ceto politico che, per
sfuggire alle proprie responsabilità, si rifugia nelle formule « non vi è
nulla di penalmente rilevante » , « non è stata violata alcuna norma
amministrativa » . Si cancella così la parte più significativa
dell’articolo 54, che ha voluto imporre a chi svolge funzioni pubbliche
non solo il rispetto della legalità, ma il più gravoso dovere di
comportarsi con disciplina e onore.
Vi è dunque una categoria di
cittadini che deve garantire alla società un “ valore aggiunto”, che si
manifesta in comportamenti unicamente ispirati all’interesse generale.
Non si chiede loro genericamente di essere virtuosi. Tocqueville aveva
colto questo punto, mettendo in evidenza che l’onore rileva verso
l’esterno, « n’agit qu’en vue du public », mentre «la virtù vive per se
stessa e si accontenta della propria testimonianza».
Ma da anni si
è allargata un’area dove i “servitori dello Stato” si trasformano in
servitori di sé stessi, né onorati, né virtuosi. Si è pensato che questo
modo d’essere della politica e dell’amministrazione fosse a costo zero.
Si è irriso anzi a chi richiamava quell’articolo e, con qualche
arroganza, si è sottolineato come quella fosse una norma senza sanzione.
Una logica che ha portato a cancellare la responsabilità politica e a
ridurre, fin quasi a farla scomparire, la responsabilità amministrativa.
Al posto di disciplina e onore si è insediata l’impunità, e si
ripresenta la concezione «di una classe politica che si sente
intoccabile», come ha opportunamente detto Piero Ignazi. Sì che i
rarissimi casi di dimissioni per violato onore vengono quasi presentati
come atti eroici, o l’effetto di una sopraffazione, mentre sono
semplicemente la doverosa certificazione di un comportamento
illegittimo. Questa concezione non è rimasta all’interno della categoria
dei cittadini con funzioni pubbliche, ma ha infettato tutta la società,
con un diffusissimo “così fan tutti” che dà alla corruzione italiana un
tratto che la distingue da quelli dei paesi con cui si fanno i più
diretti confronti. Basta ricordare i parlamentari inglesi che si
dimettono per minimi abusi nell’uso di fondi pubblici: i ministri
tedeschi che lasciano l’incarico per aver copiato qualche pagina nella
loro tesi di laurea: il Conseil constitutionnel francese che annulla
l’elezione di Jack Lang per un piccolo sforamento nelle spese
elettorali; il vice-presidente degli Stati Uniti Spiro Agnew si dimette
per una evasione fiscale su contributi elettorali (mentre un ministro
italiano ricorre al condono presentandolo come un lavacro di una
conclamata evasione fiscale).
Sono casi noti, e altri potrebbero
essere citati, che ci dicono che non siamo soltanto di fronte ad una ben
più profonda etica civile, ma anche alla reazione di un establishment
consapevole della necessità di eliminare tutte le situazioni che possono
fargli perdere la legittimazione popolare. In Italia si è imboccata la
strada opposta con la protervia di una classe politica che si costruiva
una rete di protezione che, nelle sue illusioni, avrebbe dovuto tenerla
al riparo da ogni sanzione. Illusione, appunto, perché è poi venuta la
più pesante delle sanzioni, quella sociale, che si è massicciamente
manifestata nella totale perdita di credibilità davanti ai cittadini, di
cui oggi cogliamo gli effetti devastanti. Non si può impunemente
cancellare quella che in Inghilterra è stata definita come la “
constitutional morality”.
In questo clima, ben peggiore di quello
degli anni Ottanta, quale spazio rimane per quella “controsocietà degli
onesti” alla quale speranzosamemte si affidava Italo Calvino? Qui
vengono a proposito le parole di Louis Brandeis, giudice della Corte
Suprema americana, che nel 1913 scriveva, con espressione divenuta
proverbiale, che «la luce del sole è il miglior disinfettante ». Una
affermazione tanto più significativa perché Brandeis è considerato uno
dei padri del concetto di privacy, che tuttavia vedeva anche come
strumento grazie al quale le minoranze possono far circolare
informazioni senza censure o indebite limitazioni (vale la pena di
ricordare che fu il primo giudice ebreo della Corte). L’accesso alla
conoscenza, e la trasparenza che ne risulta, non sono soltanto alla base
dell’einaudiano “conoscere per deliberare”, ma anche dell’ancor più
attuale “ conoscere per controllare”, ovunque ritenuto essenziale come
fonte di nuovi equilibri dei poteri, visto che la “democrazia di
appropriazione” spinge verso una concentrazione dei poteri al vertice
dello Stato in forme sottratte ai controlli tradizionali. Tema
attualissimo in Italia, dove si sta cercando di approvare una legge
proprio sull’accesso alle informazioni, per la quale tuttavia v’è da
augurarsi che la ministra per la Semplificazione e la Pubblica
Amministrazione voglia rimuovere i troppi limiti ancora previsti. Non
basta dire che limiti esistono anche in altri paesi, perché lì il
contesto è completamente diverso da quello italiano, che ha bisogno di
ben più massicce dosi di trasparenza proprio nella logica del
riequilibrio dei poteri. E bisogna ricordare la cattiva esperienza della
legge 241 del 1990 sull’accesso ai documenti amministrativi, dove tutte
le amministrazioni, Banca d’Italia in testa, elevarono alte mura per
ridurre i poteri dei cittadini. Un rischio che la nuova legge rischia di
accrescere.
Ma davvero può bastare la trasparenza in un paese in
cui ogni giorno le pagine dei giornali squadernano casi di corruzione a
tutti livelli e in tutti i luoghi, con connessioni sempre più
inquietanti con la stessa criminalità? Soccorre qui l’amara satira di
Ennio Flaiano. «Scaltritosi nel furto legale e burocratico, a tutto
riuscirete fuorché ad offenderlo. Lo chiamate ladro, finge di non
sentirvi. Gridate che è un ladro, vi prega di mostrargli le prove. E
quando gliele mostrate: “Ah, dice, ma non sono in triplice copia!”». Non
basta più l’evidenza di una corruzione onnipresente, che anzi rischia
di alimentare la sfiducia e tradursi in un continuo e strisciante
incentivo per chi a disciplina e onore neppure è capace di pensare.
I
tempi incalzano, e tuttavia non vi sono segni di una convinta e comune
reazione contro la corruzione all’italiana che ormai è un impasto di
illegalità, impunità ostentata o costruita, conflitti d’interesse,
evasione fiscale, collusioni d’ogni genere, cancellazione delle
frontiere che dovrebbero impedire l’uso privato di ricorse pubbliche,
insediarsi degli interessi privati negli stessi luoghi istituzionali
(che non si sradica solo con volenterose norme sulle lobbies). Fatale,
allora, scocca l’attacco alla magistratura e l’esecrazione dei
moralisti, quasi che insistere sull’etica pubblica fosse un attacco alla
politica e non la via per la sua rigenerazione. E, con una singolare
contraddizione, si finisce poi con l’attingere i nuovi “salvatori della
patria” proprio dalla magistratura, così ritenuta l’unico serbatoio di
indipendenza. Il caso del giudice Cantone è eloquente, anche perché
mette in evidenza due tra i più recenti vizi italiani. La
personalizzazione del potere ed una politica che vuole sottrarsi alle
proprie responsabilità trasferendo all’esterno questioni impegnative.
Alzare la voce, allora, non può mai essere il surrogato di una politica
della legalità che esige un mutamento radicale non nelle dichiarazioni,
ma nei comportamenti.