mercoledì 27 aprile 2016

Repubblica 27.4.16
Dallo scandalo Bo Xilai alla Shangai censurata Intervista a Qiu Xiaolong
“Potenti e corrotti la mia Cina giallo-noir”
“Il mio ispettore è poeta e traduttore di Eliot” “A Pechino la legge e il partito coincidono”
di Piero Colaprico

MILANO Ha passato i 60 anni e sforna libri gialli dal ritmo largo e lento, ricchi di pause e di poesie. Qiu Xiaolong, l’esatto contrario della fiction adrenalinica e «girapagina» dominata dagli americani, è però amato e tradotto in venti paesi. Appena tornato da un viaggio a Shanghai e prima di ripartire
per casa sua, a Saint Louis, dove insegna alla Washington University, Qiu ha fatto tappa a Milano. «In Cina», dice il suo personaggio, l’investigatore capo Chen, «la realtà è più strana dei romanzi». Anche in Italia diciamo esattamente lo stesso. Dov’è la differenza? «Innanzitutto, per capirci, i cinesi oggi scherzano su “una sberla che ha cambiato la storia”. È il caso di Bo Xilai, che ha ispirato il mio ultimo romanzo, Il principe rosso (Marsilio). I dettagli sono così assurdi e stravaganti che da scrittore non sarei riuscito a immaginarli».
Lo scandalo era a base di omicidi e tradimenti, giusto?
«Esatto. Wuan, il capo della polizia della città di Chongqing, è anche il capo del partito e il braccio destro di Bo Xilai, il politico più potente e il giudice. Quindi, i due possono tutto. Però Wuan va anche a letto con la moglie di Bo, il quale, a un certo punto, gli dà una sberla in pubblico. Wuan, allora, si rende conto che rischia la pelle e per salvarsi che fa? Va al consolato americano, portando le prove di un omicidio commesso dalla sua amante, la moglie del giudice, ai danni di un cittadino americano. E l’idea funziona, Pechino non ha potuto insabbiare lo scandalo, Wuan è vivo e Bo, che sembrava destinato a diventare un politico di primissimo piano è all’ergastolo. Può succedere in Italia?».
Nel “Principe rosso” il protagonista deve guardarsi le spalle: «Prima o poi la tigre mi divora. Il sistema non tollera un poliziotto che cerca giustizia se questo non è nell’interesse del partito». Non succede in ogni angolo che il potere cerchi di avere magistrati e poliziotti con le mani legate?
«Corruzione e abuso di potere sono dovunque, in Cina si fa un passo ulteriore. Ancora oggi il presidente dice: “Non è una questione se sia più grande la legge o il partito, non chiederlo”. Perché coincidono. L’idea del libro mi è stata suggerita da un amico cinese: “Come mai al tuo detective Chen è non ancora successo niente?”. Era ora che avesse problemi».
Il suo noir s’ispira alla realtà così com’è. Nel suo libro racconta come politici e imprenditori abbiano così tante ernai, e cioè amanti, da esserci un “Villaggio delle Ernai”. Possibile?
«È vero, ho parlato con amici che abitano nella zona di Gubei e confermano. E c’è molto più di questo, ci sono ormai diversi quartierini abitati da giovani bellezze mantenute dai potenti».
È la Cina dei nuovi «ricconi», come si legge nella traduzione italiana?
«Dieci anni fa, quando tornavo a Shangai dall’America, mi chiedevano: “Che macchina hai, che vestiti porti?”. Adesso mi danno lezioni di eleganza e guidano auto di cui non conosco il nome».
Lei cita molte poesie. Anche l’ispettore Chen è — come lei nella vita reale — poeta e traduttore di Elliot. Ma perché sceglie di raccontare gli stati d’animo con i versi, spesso antichi?
«Nel romanzo tradizionale cinese c’è molto uso della poesia. I capitoli si aprono e si chiudono con una poesia. Volevo scrivere di un uomo che guardasse un’indagine e un fattaccio con una doppia prospettiva. Sia come poliziotto, sia come poeta che prova empatia per la vittima o per l’assassino. Specie se a sua volta è stato vittima della rivoluzione culturale o del governo».
Anche i gialli sono antichi in Cina, risalgono al sedicesimo secolo, con la figura del giudice incorruttibile che risolve i problemi.
«Erano gialli molto popolari, perché la gestione del potere imperiale non prevedeva un sistema legale indipendente, quindi alla gente piacevano i racconti sulla vita e le opere di un giudice onesto e acuto, che riparava i torti e non guardava in faccia a nessuno. Ieri come oggi, chi governa in Cina non incoraggia la scrittura sul lato oscuro della società. Il nuovo presidente sostiene che in Cina ci sia bisogno di “energia positiva”. E i gialli, non portando “energia positiva”, non piacciono. Lo scrittore più popolare e molto sostenuto dalla politica sa di che cosa scrive? Della scoperta dei tesori nelle tombe. Fantasy».
Quando è nel Missouri, riesce a scambiare informazioni con parenti e amici a Shanghai?
«Spesso lamentano di non aver ricevuto posta, le mail tornano indietro, Google e Facebook sono vietati. Quando sono là, per parlare con altri scrittori uso un’app, Bpm, che aggira gli ostacoli».
Riceve mail da cinesi emigrati?
«Pochi giorni fa uno mi ha raccontato una storia di soprusi subiti dalla sua famiglia e ha chiesto a me d’indagare. Hai voglia a dire che non sono Chen! Quattro mesi fa un gruppo di italiani è andato a Shanghai, ha girato nelle strade descritte nei miei romanzi e s’è presentato alla redazione di Whenhui, per fare un sacco di domande a un mio amico giornalista, come se Chen fosse reale».
A lei non è mai capitato di «essere invitato a bere una tazza di tè» da qualche potente cinese che voleva tenerla sotto pressione?
«L’altro giorno mi sono sentito dire: “Hai pubblicato un’intervista, non credere che non sappiamo”. In Cina sono tradotto, ma non integralmente. In ogni libro compaiono tagli e cambiamenti. Shanghai non viene mai nominata».
Come?
«Nei libri cinesi è diventata “La città di H.”. Sarà che anche Shanghai ha bisogno di energia positiva».
IL LIBRO Qiu Xiaolong, Il Principe rosso (Marsilio, traduzione di Fabio Zucchella, pagg. 360, euro 18,50)