il manifesto 27.4.16
Santa Libera, ovvero tutta la cenere covata dal fuoco
Saggi.
«Per sempre partigiano» di Pino Tripodi per DeriveApprodi. 1946. Tra
Langhe e Monferrato, una rivolta trascurata dalle pagine sulla
resistenza
di Guido Caldiron
È una pagina
dimenticata della storia della resistenza. O meglio di ciò che la
resistenza avrebbe potuto continuare a essere anche dopo il 1945. O è
più semplicemente un frammento di quella storia ribelle che come tale ha
attraversato il movimento partigiano ma si è manifestata anche ben
prima di tutto ciò. E che dopo di allora, pur con esiti altalenanti e a
prima vista sempre più incerti non ha mai smesso di fare irruzione nella
realtà.
La vicenda che Pino Tripodi racconta in Per sempre
partigiano (DeriveApprodi, pp. 246, euro 16,00), è però prima di tutto
un potente antidoto alla pacificazione della memoria, al suo
trasformarsi in oggetto museale, valido per le celebrazioni e le
ricorrenze ma mai e poi mai per la vita vera. Questo libro intenso,
solcato dal timbro narrativo del memoir come dal linguaggio della
poesia, colpisce invece allo stomaco, chiede partecipazione, induce
all’indignazione come alla speranza, alla rabbia in egual misura che al
riso.
Vi si narra dell’insurrezione di Santa Libera, scoppiata
nell’estate del 1946 tra le colline comprese tra le province di Cuneo,
Asti e Alessandria e che Tripodi ricostrusce a partire dalla figura di
Giovanni «Primo» Rocca, già comandante della Stella rossa, poi divenuta
la IX divisione d’assalto Garibaldi, che di quegli eventi fu uno dei
protagonisti; testimone di una volontà di mutamento radicale della
società che fu anche e prima di tutto volontà di trasformare se stessi.
Non arrendersi
Per
molti combattere nazisti e fascisti durante la guerra ha rappresentato
infatti solo l’inizio. La vera sfida è ora rappresentata dalla
possibilità di costruire un nuovo paese «sui principi di giustizia
sociale di partecipazione di massa di democrazia e di uguaglianza
sperimentati nelle formazioni della resistenza». Ma, dopo la liberazione
i mesi passano invano e con essi svaniscono molte illusioni. Per tanti
partigiani che nel corso dell’ultimo anno non hanno smesso di veder
sfumare uno dopo l’altro i veri motivi che li avevano spinti in montagna
e che spesso hanno scelto di non consegnare le proprie armi, cresce la
delusione ma anche la volontà di non arrendersi.
«Molti partigiani
me compreso rifiutano la consegna delle armi perché ritengono la
resistenza non ancora conclusa. Non si può sognare prima di mettersi a
dormire, non si può scendere dalla nave se non si è approdati in porto.
il fascismo è finito, ma l’italia è infettata di fascisti, non
consegnare le armi è un segnale della volontà di continuare la battaglia
della pace nelle terre nelle fabbriche nei palazzi del potere».
Al
nord, specie in Piemonte ma anche in Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia
e Toscana, e in modo meno sistematico in moltre altre realtà, si
susseguono gli incontri, si tornano a tessere i legami che si sono
costruiti durante la guerra clandestina. Per quanta insoddisfazione covi
anche nei confronti dei vertici del Pci, più preoccupati di
irregimentare, oltre che la propria base, anche i partigiani che di
accoglierne stimoli e proposte come annota il protagonista, «togliatti
mi dona subito l’impressione di un uomo che la realtà la porta sempre
stampata sulle lenti dalla parte interna quella che guarda solo lui»,
l’obiettivo è prima di tutto quello di riprendere il cammino interrotto,
collocare «nella giusta dimensione l’esperienza della resistenza
nell’Italia postfascista».
Memoria pubblica
Il resto, inteso
come rivendicazioni legate ai diritti nel lavoro, al nord, e alla
terra, al sud, verranno poi. Così, nell’estate del 1946, dopo che la
caduta del governo Parri aveva già segnato in precedenza la fine di ogni
idea di trasformazione radicale del paese, l’uno-due rappresentato
dall’accordo tra Italia e Belgio che scambia decine di migliaia di
giovani spediti a crepare in miniera in cambio del carbone, e dalla
cosiddetta «amnistia Togliatti» che fa uscire i criminali fascisti di
galera, si decide che è venuto il momento di agire.
Epicentro
dell’insurrezione, fissata per il 20 di agosto, sarà la località di
Santa Libera, nel territorio di Santo Stefano Belbo, dove nel corso di
una vacanza nei luoghi pavesani lo stesso Pino Tripodi rintraccerà oltre
cinquant’anni più tardi la vicenda.
Incruenta, per quanto armata,
sostenuta da centinaia di partigiani in armi in tutto il nord, sessanta
quelli che terranno Santa Libera per una settimana, la rivolta scuoterà
il paese più di quanto sia rimasto nella memoria pubblica.
Dopo 4
giorni una delegazione, ancora una volta in armi, sarà ricevuta a Roma
dal vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni che si impegnerà ad
esaudire le prime richieste riguardanti il riconoscimento giuridico dei
partigiani.
Incendi improvvisi
La smobilitazione non
arriverà a causa delle minacce proferite dagli americani, dall’esercito o
dai carabinieri, ma per volontà dei vertici comunisti che ricorreranno
al carisma di un leggendario ex comandante partigiano per far desistere i
rivoltosi, temendo che da quel primo fuoco, mentre già altri episodi
analoghi si andavano diffondendo nelle zone dove la resistenza popolare
tra il 43 e il 45 era stata più forte e attiva, potesse divampare un
vasto e incontrollabile incendio.
Con la fine di Santa Libera, ammette il narratore di Per sempre partigiano, la resistenza finisce davvero.
Non
però il senso di una rivolta che non si può interrompere, perché «per
finire di essere ribelli dobbiamo vedere un mondo giusto come lo
vogliamo noi, ma quel mondo è impossibile è solo un parto della nostra
fantasia». Perciò, di ribellarsi non si potrà mai smettere.