martedì 26 aprile 2016

Repubblica 26.4.16
Scansare noia e autocompiacimento
Dialogare con il lettore e non farsi dominare dalla tecnica. I consigli di un maestro del genere noir
Una crime story funziona solo se è imperfetta
di Giancarlo De Cataldo

Il dibattito su chi si possa definire uno scrittore è aperto. Me ne accorgo, per esempio, ogni volta che presento uno dei miei libri in un ambiente universitario, sono gli incontri in cui si palesa in modo assolutamente manifesto una presunta dicotomia tra chi «è scrittore» e chi «racconta storie». Sono catalogato in questa seconda categoria, e la mia opera viene assimilata più a quella dello “storyteller” che non dello scrittore. Per quanto mi riguarda, la definizione non mi offende, non foss’altro perché mi trovo in ottima compagnia: si giudicarono nello stesso modo, un tempo, i miei amati Balzac e Dickens,
si scrisse che Tolstoj scriveva meglio di Dostoevskij, si accusò Hemingway di essere troppo popolare. E Hammett e Chandler e Simenon sono stati nobilitati soltanto in epoca recente, dopo intere esistenze trascorse sui banconi della letteratura «triviale ».
Ma in che cosa consiste, ammesso che esista, questa differenza che ad alcuni pare così netta? Potrei cavarmela affermando che è soltanto una questione di gusto personale, e in fondo di questo si tratta. Di valutazioni soggettive, oltretutto soggette al mutevole corso del tempo: autori un tempo affermati e osannati sono oggi dimenticati, e nessuno degli autori oggi affermati e osannati può essere sicuro di non incorrere, in futuro, nel medesimo oblio. Tuttavia, il tema merita un qualche approfondimento. Lo scrittore, in quanto autore, mi ha spiegato un eminente esponente della critica accademica, deve essere fondamentalmente noioso, non deve instaurare un dialogo con il lettore: il dialogo lo instaura con sé stesso e con la lingua, con la parola. Da questo tipo di autore il lettore non deve essere compiaciuto, ma sfidato; ed è il livello della sfida, consapevolmente accettato, che induce il lettore a scegliere uno scrittore.
Si tratta a mio parere di una posizione nobile e dignitosa. Non è la mia idea, comunque. Personalmente, ragiono da scrittore un po’ come ragionerei da lettore. Ho già detto di essere un divoratore compulsivo di libri. Devo aggiungere che, però, sono insofferente verso alcuni elementi nei quali mi capita, come lettore, di imbattermi. Mi limito a segnalare le due mie peggiori «bestie nere »: l’autocompiacimento e la noia. Per «autocompiacimento» intendo l’esasperata ricerca della
soi- disant perfezione stilistica allorché sia fine a sé stessa. Per intenderci: Gadda fu un fenomenale esploratore della parola, ma non troverete mai in un suo scritto un virtuosismo inerte e vacuo. L’autocompiacimento è ai miei occhi un vizio insostenibile che opprime troppi scrittori, compresi taluni fra i più amati e osannati. L’autocompiacimento è tipico dello scrittore che si ritiene perfetto, o che mira alla perfezione. È il trionfo della tecnica. Ma la scrittura non è solo tecnica. Nella mia visione delle cose, l’imperfezione aggiunge sempre qualcosa a un testo. E lascia libero il lettore di riempire di senso gli spazi bianchi, di individuare, secondo il proprio gusto, l’errore, e di correggerlo. Questa è la vera sfida. Lo scrittore perfetto è come il regista del quale si dice: «Gira bene ». Ma a me interessa che, oltre a girare bene, abbia anche qualcosa da dire, e che quel qualcosa parli alla mia mente e al mio cuore. Pasolini girò Accattone disponendo di nozioni basilari e approssimative sulla tecnica. E Accattone è un capolavoro.
Il mio maestro di critica letteraria si chiamava Giuseppe Petronio, era un signore di Napoli sui cui libri avevo studiato al liceo. Uno dei suoi testi si intitolava L’attività letteraria in Italia.
Ma perché «attività letteraria»? Perché c’era tutta la solita parte accademica, presente in ogni libro di testo, in cui si spiegava la grande, strategica importanza di Massimo Bontempelli o delle riviste La Voce o Lacerba, sulla formazione dello spirito nazionale nei primi vent’anni del Novecento. E poi c’era un breve paragrafo, «La fortuna dello scrittore», che sembrava dirmi: «Attenzione, De Cataldo o chi per te, perché quello che abbiamo appena visto lo dice l’Accademia, ma ora vai a guardare qui sotto cosa leggevano gli italiani in quel tempo... ». Ed erano Guido da Verona, Luciano Zuccoli, Pitigrilli, il postdannunzianesimo, eccetera. Cosa forma lo spirito di un popolo lettore, cos’è la letteratura e la vita nazionale, per dirla gramscianamente, cos’è la letteratura e la vita accademica, per dirla invece aulicamente e via discorrendo.
Petronio, il responsabile di queste epifanie critiche, mi si presentò a un convegno nel 2001, io trasecolai. Esordì: «So cosa stai pensando. Sì, sono ancora vivo». Aveva novant’anni e li portava benissimo, e mi aveva letto nel pensiero. Grande studioso di Ariosto, mi tenne un giorno una lezione sul concetto di ispirazione. «Tu credi», mi disse, «che per ognuno delle decine di migliaia di versi Ariosto sia stato baciato dall’ispirazione divina? L’avrà avuta venti volte l’ispirazione. Il resto era dura fatica, caro mio». Ebbene Petronio scrisse un saggio imprescindibile, che si intitola Il punto su: il romanzo poliziesco.
Qui Petronio enuclea alcune leggi universalmente valide del genere, come fosse un manuale aristotelico della letteratura popolare, e Petronio l’Aristotele della situazione. Colse un punto fondamentale per comprendere l’evoluzione del genere, dai grandi classici, Agatha Christie o Nero Wolfe, al contemporaneo. Sosteneva, Petronio, che nel giallo classico si segue lo schema delitto/investigazione/ risoluzione. Ma sin dai tempi dell’hard boiled, cioè da Hammett e Chandler, dunque dagli anni Trenta, questo schema viene messo in discussione. È la soluzione che viene meno, e la ragione storica sta nella sfiducia verso le «magnifiche sorti e progressive» che attendono l’umanità. Il giallo si trasforma lentamente, ma inesorabilmente, da giallo d’ordine, in cui i «buo- ni» rimettono a posto le cose, a giallo del disordine, in cui diviene più arduo ripristinare l’ordine compromesso da un crimine invasivo e diffuso. E Petronio citava, come esempio, il romanzo La promessa di Friedrich Dürrenmatt. È la storia di un poliziotto che dà la caccia a un serial killer e fallisce. Ma non perché il serial killer sia più abile di lui. Perché costui muore per un incidente. E dunque è il caso, conclude Petronio, a fornire, e nello stesso tempo a negare, la soluzione.
Fu lui a spiegarmi: «Guarda che in Italia c’è una legge: tu non puoi scrivere un bel romanzo poliziesco. Perché i critici ti taglieranno fuori uno dei due aggettivi: o bello o poliziesco. Vale per la fantascienza, vale per l’avventura, vale per la letteratura rosa e via dicendo». Un giudizio netto, a cui Petronio aggiunse però: «Ma è un’emerita asinata».
IL LIBRO Il testo di Giancarlo De Cataldo è tratto da un volume che da oggi sarà in libreria: Come si racconta una storia nera ( Rai- Eri, pagg. 80, euro 12)