Repubblica 26.4.16
L’umanità immortale di Shakespeare
risponde Corrado Augias
CARO
AUGIAS, guardo l’espressione di Shakespeare su una vecchia incisione.
Lo immagino seduto sull’impiantito del Globe, gambe penzoloni dal
palcoscenico e penna d’oca in mano, infervorato a scrivere versi in un
pomeriggio d’estate. Di fronte a lui rumoreggia il pubblico più umile,
assiepato in piedi sotto il palco per una commedia dopo aver messo un
penny nella scatola all’ingresso. Molti bevono dalle fiaschette di
whisky, alcuni tagliano formaggi e mangiano, ruttando in libertà. Uno
urina tranquillo contro il legno del palcoscenico mentre ride con un
amico, due ubriaconi fanno goffamente a pugni, e un ragazzo nei pressi
bacia con trasporto una giovane cercando di infilarle una mano nella
scollatura. Shakespeare sbircia, e intanto scrive. Se presti attenzione,
in qualche pausa del vociare e del tramestio percepisci il grattare
nervoso della lunga penna bianca sul foglio. Tanta la foga di scrivere e
al contempo di curiosare a destra e a manca, che William rovescia il
calamaio; il suo contenuto cola giù, tinge di nero il legno del
palcoscenico e l’alone ancora caldo della pisciata dello spettatore.
Riposa da 400 anni, William, ma non è mai morto.
Teresio Asola
HA
CERTO ragione il signor Asola ma perché Shakespeare non è mai morto? Si
può rispondere in vari modi, ne ho scelto uno semplice: perché nessuno
come lui ha saputo descrivere la complessità dell’animo umano, la
variabilità ed estensione delle emozioni, la compresenza in ognuno di
noi di elementi commoventi, nobili, addirittura sublimi con altri
spregevoli che si alternano nell’arco della vita o di una stessa
giornata. Shakespeare è il numero uno della letteratura mondiale certo
per il talento ma anche per l’assoluta libertà dello sguardo che né una
fede religiosa né il rispetto umano hanno mai limitato. Perfino
Dostoevskij, tra i pochi che possano essergli affiancati, ha una visione
meno ampia per le circostanze tragiche della sua vita e per la malattia
che lo affliggeva. Ha giovato all’altezza della creazione anche la
relativa monotonia della sua esistenza – per quanto ne sappiamo – un po’
come sarebbe accaduto a Immanuel Kant, anche se la vita
nell’Inghilterra di Shakespeare era certo molto più agitata che a
Königsberg. La sua visione della politica dà rappresentazione plastica
alle teorie di Machiavelli. Shakespeare illustra la necessaria crudeltà
che accompagna l’esercizio del potere, gli strumenti obliqui per
conseguirlo, l’arte dell’inganno e della dissimulazione. In “Amleto”,
forse il più noto dei suoi drammi, sono chiaramente machiavellici sia il
protagonista sia Claudio il re usurpatore. Riccardo III è un
infaticabile, spietato, tessitore di trame. Lo è anche Bruto nel “Giulio
Cesare” ma per ragioni diverse che ne fanno un eroe, l’uomo che compie
il male in vista di un interesse e bene superiori. Quindi non solo un
“traditore della maestà terrena” come invece lo vede Dante. Nella
visione dei protestanti inglesi Machiavelli incarnava la corruzione
dell’Italia cattolica e della Chiesa. Shakespeare si sbarazzò anche di
questo luogo comune affiancando il suo genio a quello del segretario
fiorentino.